Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12477 del 18/05/2017

Cassazione civile, sez. III, 18/05/2017, (ud. 31/01/2017, dep.18/05/2017),  n. 12477

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – rel. Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6669-2014 proposto da:

P.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ATTILIO

FRIGGERI 172, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO PICA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO BONAZZA giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5/2014 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 14/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

31/01/2017 dal Consigliere Dott. VIVALDI ROBERTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FABIO BONAZZA;

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.R. ha convenuto in giudizio V.M., suo condomino, per ottenerne la condanna al risarcimento di tutti i danni da lei subiti a causa dell’atteggiamento persecutorio – consistente in molestie, ingiurie ed altro – tenuti dal convenuto nei suoi confronti negli anni dal 1996 al 2006.

Il Tribunale di Trento, sez. dist. di Tione di Trento, ha rigettato la domanda con sentenza del 16.7.2012, per ritenuto mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’attrice, fatta eccezione per la condanna del V. al pagamento in favore della P. della somma di Euro 500,00. Detta decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Trento, che ha respinto il gravame proposto dalla P. con sentenza del 14.1.2014.

P.R. ricorre ora per cassazione, affidandosi a cinque motivi. L’intimato non ha resistito.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, deducendo “Violazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, e art. 116 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, la ricorrente sostiene di aver offerto la prova delle pratiche persecutorie subite nel corso degli anni da parte del V., e ciò mediante: 1) testimonianze de relato, de relato ex parte e dirette; 2) due sentenze penali di condanna del V. per molestie ed ingiurie; 3) procedimenti penali avviati dinanzi al G.d.P. di Tione nel 2012; 4) la produzione di tredici querele sporte contro il predetto; 5) la relazione di CTU svolta in primo grado e il relativo supplemento (che hanno accertato che essa P. è affetta da ansia reattiva collegata alla conflittualità col vicino e non soffre di manie di persecuzione); 6) la relazione del proprio CTP, Dott. B.; 7) la dimostrazione della circostanza che precipitosamente il V. aveva donato al proprio coniuge un appartamento di sua proprietà, atto poi oggetto di revocatoria ordinaria, accolta.

La Corte d’appello avrebbe analizzato ciascun elemento in modo atomistico, considerandolo autonomamente rispetto agli altri e non nel complesso, come invece il giudice è tenuto a fare, ai sensi dell’art. 2729 c.c..

1.2 – Con il secondo motivo, deducendo “Violazione dell’art. 115, comma 1, e art. 132, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, si rileva che la Corte d’appello, nel ritenere che il quadro probatorio non indicasse una univoca posizione di “vittima” da parte della P. – che ha patteggiato la pena, insieme al marito, per un episodio accaduto nel 2005, a seguito del quale il V. venne ferito con arma da taglio, ottenendo poi in sede civile il risarcimento del danno da parte della stessa P. e del marito – ha violato il principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c., in quanto non ha tenuto conto del fatto che ella, nel riportare la vicenda della ferita del V. nell’atto di citazione, riferì con dovizia di particolari che ciò era avvenuto in seguito all’ennesima provocazione dello stesso V.; questi, nel costituirsi, non avrebbe specificamente contestato tale dinamica.

1.3 – Con il terzo motivo, deducendo “Violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, si rileva che la Corte ha affermato che la P., pur avendo chiesto il risarcimento danni per fatti avvenuti dal 1996 al 2006, afferma che per gli anni dal 1997 al 2005 ella non ha allegato nè provato (o chiesto di provare) assolutamente nulla. Secondo la Corte, dunque, risulterebbe già smentito in radice l’assunto attoreo circa la durata decennale delle pretese persecuzioni.

La P. riporta al riguardo alcuni passaggi dell’atto d’appello che, al contrario, descriverebbero la prevaricazione sistematica da parte del V., seppur in forza di atti non particolarmente eclatanti, da dimostrarsi, nell’intenzione di essa ricorrente, mediante il ricorso a presunzioni. La prevaricazione sarebbe comunque dimostrata dalla deposizione della figlia M.A., che ha riferito che i problemi di salute della madre (la ricorrente) sono sorti per le vessazioni del V., specie dopo un episodio, avvenuto il (OMISSIS), per il quale il V. venne condannato penalmente (si tratta del medesimo episodio per il quale il giudice di primo grado, nella presente controversia, ha accolto parzialmente e assai limitatamente la domanda attrice – n.d.e.).

Rileva la P. che, pur vero essendo che la valutazione della portata della deposizione della figlia è questione di merito, non può comunque affermarsi (come ha fatto la Corte, a suo avviso errando) che ella non ha provato nulla in proposito.

1.4 – Con il quarto motivo, deducendo “Violazione dell’art. 116 e art. 132, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, si duole in relazione alla portata attribuita alle deposizioni de relato ex parte – oggetto di specifica censura in appello in quanto il Tribunale non aveva tenuto conto dell’intero quadro indiziario – laddove la Corte ha affermato che esse non hanno trovato un “effettivo supporto istruttorio” (rectius, “probatorio” – p. 17 sentenza). Ritiene la P. che la motivazione sia inadeguata, ossia mancante.

1.5 – Con il quinto motivo, infine, deducendo “Violazione dell’art. 112 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, si rileva che il tribunale aveva sminuito la portata di alcune deposizioni testimoniali, degradandole da testimonianze dirette a testimonianze de relato, e ciò in particolare quanto al teste S.N., che accompagnò la ricorrente in ospedale, su richiesta del marito, a seguito di un diverbio col V., e che evidentemente ne potè constatare le reali condizioni psicofisiche per averle apprese direttamente; o anche della teste B.L.O., che ha riferito che la ricorrente, quando le parlava della situazione ambientale col V., le riferiva di essere molto agitata, angosciata e depressa. La Corte d’appello, secondo la ricorrente, avrebbe omesso di pronunciarsi sulla specifica doglianza proposta col terzo motivo di gravame.

2.1 – I motivi, da esaminarsi congiuntamente stante l’evidente connessione, sono infondati.

2.2 – La Corte d’appello trentina, con la sentenza qui impugnata, ha correttamente applicato il principio per cui onus probandi incumbit ei qui dicit, in relazione all’azione risarcitoria spiegata, non incorrendo in alcuna delle censure mossele dalla P.. Questa, infatti, con l’atto introduttivo del giudizio, notificato il 22.8.2006, ha chiesto la condanna del V. al risarcimento del danno per le minacce, ingiurie, aggressioni, prevaricazioni, ecc., che il predetto avrebbe posto in essere nei suoi confronti nel corso dei precedenti dieci anni (ossia, dall’agosto 1996), così cagionandole un grave danno psicofisico.

In proposito, il giudice d’appello, nel confermare la decisione di primo grado (che aveva accolto la domanda limitatamente ad uno degli episodi vessatori riferiti dalla P.), ha sostanzialmente seguito il seguente percorso motivazionale: 1) i fatti addotti dalla P. a sostegno della sua tesi, ma già oggetto di giudicato penale, non possono essere utilizzati a supporto delle domande, ove la stessa P. abbia già ottenuto il riconoscimento al risarcimento del danno quale parte civile, pena la violazione del ne bis in idem; 2) il fatto storico circa le intervenute plurime condanne del V. in sede penale non fa acquisire alla P. il sistematico ruolo di sua vittima; e ciò perchè la stessa (assieme al marito) patteggiò la pena per lesioni personali cagionate allo stesso V. e gli risarcì anche il relativo danno; 3) per il periodo 1997-2005, la P. nulla ha allegato, nè provato o chiesto di provare, non potendo a tal fine utilizzarsi la generica deposizione della figlia M.A.; 4) i fatti successivi alla proposizione della domanda non possono essere presi in considerazione, tanto più che la dedotta (in corso di causa) proposizione di querele al riguardo non è di per sè indice di sussistenza di altri e precedenti fatti; 5) le dichiarazioni rese dalla figlia della P., M.A., circa aggressioni o insulti da lei subiti non possono che concernere la sua posizione soggettiva, senza riverberarsi nella sfera della madre; 6) i fatti riferiti dalla P. ad alcune persone, escusse come testi, non possono ritenersi provati, in quanto – trattandosi di testimonianza de relato ex parte actoris – le relative deposizioni non sono state corroborate da effettivo supporto probatorio; 7) non è sufficiente a suffragare il quadro propugnato dalla P. la circostanza che la relazione di C.T.U. abbia escluso che essa è affetta da turbe persecutorie o paranoidee, perchè questo non dimostra che la problematica psichica pure accertata dal consulente d’ufficio sia direttamente riconducibile a fatto e colpa dell’appellato, stante la labilità degli elementi probatori acquisiti; 8) nessun elemento indiziario può infine trarsi dalla circostanza che il V., non appena raggiunto dalla richiesta risarcitoria, abbia repentinamente ceduto un suo immobile, potendo un tale comportamento essere dovuto a mera cautela.

2.3 – Il percorso motivazionale, di per sè condivisibile, va emendato, ex art. 384 c.p.c., comma 3, in relazione alla questione della testimonianza de relato ex parte actoris.

Al riguardo, nonostante quanto sostenuto dalla ricorrente, non possono nutrirsi dubbi sulla natura de relato delle deposizioni dei testi S.N. e B.L.O., perchè aventi ad oggetto la dichiarazione della parte che ha proposto il giudizio, e non già il fatto oggetto di accertamento; in tal senso, quindi, è da escludere che la Corte trentina sia incorsa nel denunciato vizio di omessa pronuncia (oggetto del quinto motivo).

Ciò posto, è noto l’insegnamento secondo cui la valenza della deposizione de relato actoris è sostanzialmente nulla (Cass. n. 569/15 e Cass. n. 8358/07); secondo altro orientamento, invece, “La testimonianza “de relato ex parte actoris” può assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata da ulteriori risultanze probatorie, che concorrano a confermarne la credibilità” (Cass. n. 18352/13; Cass. n. 11844/2006).

Al riguardo, ritiene la Corte di dover aderire all’orientamento più rigoroso, perchè in caso contrario si finirebbe con l’attribuire una veste qualificata (quella di “elemento di prova”) ad una mera allegazione della parte circa un fatto costitutivo della domanda, per il solo fatto di essere stata confermata nella fase istruttoria mediante la deposizione di un teste, che quella allegazione si è invece limitato in ipotesi a riportare in quanto tale (ossia, per aver appreso il fatto dalla parte stessa, e non per cognizione diretta, o al limite per averlo appreso da terzi estranei al giudizio), come è avvenuto nella specie.

Ha quindi errato la Corte d’appello nel ritenere che dette deposizioni non fossero utilizzabili a fini probatori per mancanza di sostanziali riscontri, non essendo invece utilizzabili proprio perchè concernenti fatti, dichiarazioni, stati d’animo (specie, teste B.) riferiti ai testi dalla stessa P..

2.4 – Pertanto, così emendata la motivazione del giudice d’appello, le considerazioni svolte sulla carenza probatoria a supporto della domanda attrice diventano ancora più stringenti: se si eliminano dal novero della valutabilità ai fini di cui all’art. 2729 c.c., i fatti già coperti dal giudicato penale, con relativa condanna risarcitoria in favore della parte civile costituita, i fatti successivi alla proposizione della domanda, le testimonianze de relato, le aggressioni subite direttamente dalla figlia della P., non può che ritenersi che la Corte di merito, nel valutare tutti i restanti elementi indiziari, si sia correttamente attenuta all’applicazione della norma citata.

Infatti, è noto che “In tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento” (Cass. n. 9108/2012).

La Corte di merito ha non soltanto proceduto ad una valutazione analitica dei singoli elementi indiziari, ma li ha valutati anche nel loro complesso, alla luce delle allegazioni in fatto contenute nell’atto introduttivo. E ha ritenuto che, non avendo la P. dedotto alcunchè di specifico (nè chiesto di provare in correlazione) riguardo al periodo 1997-2005, il quadro probatorio era di estrema labilità e non poteva suffragare la domanda attrice.

Ciò vale a maggior ragione a seguito della disposta correzione della motivazione; non può discutersi in proposito, come pretenderebbe la ricorrente (specie col terzo motivo), nè di una dimostrazione contraria ad un tale accertamento, desumibile da alcuni passi dell’atto di citazione in appello, nè di una prova da darsi per presunzioni anche riguardo a tale periodo di circa otto anni, perchè non può darsi una prova, anche per via indiziaria, di specifici fatti non tempestivamente allegati entro i termini previsti, al più tardi, dall’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1).

4.1 – In conclusione, il ricorso è rigettato. Nulla va disposto sulle spese del giudizio di legittimità, stante la mancata costituzione dell’intimato.

In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

Rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

La presente sentenza è stata redatta con la collaborazione del magistrato assistente di studio Dr. Sa.Sa..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 31 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2017

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