Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12440 del 24/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/06/2020, (ud. 16/01/2020, dep. 24/06/2020), n.12440

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25427/2018 proposto da:

C.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIUSEPPE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato CRISTINA TERRIBILE,

rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE PACIFICO;

– ricorrente principale –

contro

ITALIAN EXHIBITION GROUP S.P.A. (già RIMINI FIERA S.P.A.), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA ORTIGARA 3, presso lo studio dell’avvocato

MICHELE AURELI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PIERO GIORGIO TENTONI;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

e contro

C.O.;

– ricorrente principale – controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 732/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 03/07/2018, R.G.N. 113/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/01/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato RAFFAELE RANIERI per delega verbale avvocato

RAFFAELE PACIFICO;

udito l’Avvocato MICHELE AURELI.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con distinti ricorsi successivamente riuniti, C.O. ha convenuto, dinanzi al Tribunale di Rimini, la Italian Exhibition Group S.p.A. per ottenerne la condanna alla corresponsione della retribuzione che affermava spettarle per lo svolgimento di mansioni superiori, al risarcimento del danno derivante dalla condotta mobbizzante asseritamente subita per effetto di una job rotation dequalificante, nonchè alla corresponsione della indennità sostitutiva per effetto della dichiarazione di illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatole in data 28 giugno 2016.

Con ordinanza del 18 febbraio 2017, il Tribunale di Rimini ha dichiarato la nullità del licenziamento impugnato e il rapporto di lavoro risolto alla data del 22 giugno 2016, condannando la resistente al pagamento, in favore della ricorrente, di un importo pari a 20 mensilità della retribuzione globale di fatto, nonchè alla rifusione delle spese di lite.

Proposto reclamo da parte della Italian Exhibition Group S.p.A., con sentenza in data 3 luglio 2018, la Corte d’Appello di Bologna, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Rimini, ha respinto le domande risarcitorie avanzate unitamente a quella inerente la dichiarazione di illegittimità del licenziamento comminato.

1.1. In particolare, il giudice di secondo grado ha ritenuto ampiamente superato il periodo di comporto sulla base delle previsioni di cui alla contrattazione collettiva, essendo la lavoratrice rimasta assente per malattia dal 15 giugno 2015 al 20 giugno 2016 escludendo, altresì, in fatto, sulla base delle risultanze probatorie in atti che si fosse verificata qualsivoglia forma di dequalificazione ascrivibile a condotte vessatorie sistematicamente orientate a causare offese di ordine professionale e/o personale rilevati sul piano del mobbing.

2. Avverso tale pronunzia propone ricorso C.O. affidandolo a cinque motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, la Italian Exhibition Group S.p.A. e spiega, altresì, ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Preliminarmente, deve disattendersi l’eccezione, sollevata in memoria dalla ricorrente, relativa alla inammissibilità, per tardività, del ricorso incidentale sul rilievo che l’impugnazione sarebbe consentita anche al ricorrente incidentale nel termine di gg. 60 previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 62 e segg., a pena di decadenza, mancando una norma che abiliti l’impugnazione tardiva.

2. Va osservato che la L. n. 92 del 2012, art. 1, stabilisce, al comma 62 – con norma speciale rispetto alla disciplina generale del cosiddetto termine breve di impugnazione dettata dagli artt. 325 e 326 c.p.c. – che il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello a definizione del reclamo “deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa o dalla notificazione se anteriore”. Tale previsione non autorizza a ritenere, tuttavia, che anche il ricorrente incidentale debba rispettare tale termine di decadenza. Al riguardo può, invero, richiamarsi quanto affermato, sebbene con riguardo al reclamo incidentale, da Cass. 29.11.2016 n. 28425, secondo cui “Le esigenze acceleratorie previste dal rito di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e segg., riguardano l’impulso processuale e la struttura (bifasica) del procedimento di primo grado, mentre la disciplina processuale in tema di reclamo deve necessariamente integrarsi con quella in tema di appello nel rito del lavoro, sicchè, una volta proposto tempestivo reclamo principale, deve ritenersi che il reclamato ben possa proporre (anche ai sensi dell’art. 24 Cost.) reclamo incidentale, nei termini di cui all’art. 436 c.p.c”. In simmetria con la previsione degli artt. 333 e 334 c.p.c., ai fini della proposizione di impugnazione incidentale tardiva avverso la sentenza emessa in sede di reclamo ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 60, per tale possibilità deve, pertanto, ritenersi che valgano ugualmente, per il ricorso incidentale ex art. 371 c.p.c., le modalità e le previsioni degli artt. 333 e 334 c.p.c., ai fini della proposizione di impugnazione incidentale tardiva avverso la sentenza emessa in sede di reclamo ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 60.

1.1. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce, sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2087 c.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., artt. 194,191,61,116 c.p.c., ed omessa motivazione ai sensi dell’art. 112 c.p.c., degli artt. 333 e 334 c.p.c., ai fini della proposizione di impugnazione incidentale tardiva avverso la sentenza emessa in sede di reclamo ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 60 (Cass. n. 19089 del 18/07/2018) Il motivo, così come formulato, deve reputarsi inammissibile. Per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Cass. n. 14784 del 2015), il ricorso per cassazione deve, come noto, contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo preciso in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione.

Nel caso di specie, parte ricorrente si limita ad allegare l’erronea applicazione dell’art. 2087, sotto il profilo della mancata considerazione del carattere “percipiente” anzichè “deducente” della consulenza tecnica disposta. In particolare, la C., nel sostenere la pacificità del principio secondo cui sul lavoratore che lamenti la sussistenza di un danno quale conseguenza – immediata e diretta – dell’inadempimento ex art. 2087 c.c., gravi l’onere probatorio circa la fonte, legale o negoziale del proprio diritto, la nocività del luogo di lavoro ed il nesso eziologico tra condotta e danno subito, rinviene la sussistenza di un error in judicando nel non aver la Corte territoriale ritenuto qualificabile come CTU percipiente quella disposta dal giudice, concludendo, quindi, per l’assenza di nocività del posto di lavoro. Nessun altro elemento si riscontra al riguardo nella censura considerata che si limita a tracciare i presupposti giurisprudenziali della distinzione fra CTU deducente e CTU percipiente nulla allegando circa i quesiti formulati e circa gli elementi da cui potrebbe evincersi l’errore di prospettazione commesso dalla Corte in ordine alla ritenuta diversa natura della consulenza, che si sarebbe riverberato in una lesione sia dell’art. 2697 c.c., che dell’art. 112 c.p.c.. In sostanza, la ricorrente si limita a compiere delle affermazioni che nulla comportano sul piano delle stesse allegazioni in sede di ricorso. D’altro canto, con specifico riferimento alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., nel giudizio di legittimità deve essere tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione che ne abbia data il giudice di merito: nel primo caso, infatti, si verte in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura processuale per la soluzione del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta; nel secondo, invece, poichè l’interpretazione della domanda e la individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento dei fatti riservato, come tale, al giudice di merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 7.7.2006 n. 15603; Cass. 18.5.2012 n. 7932; Cass. 21.12.2017 n. 30684). Conseguentemente, inammissibile deve ritenersi la censura cosi come formulata in termini di violazione di legge perchè è evidente che ciò che viene censurato è l’interpretazione che della domanda ha offerto il giudice di secondo grado.

2. Con il secondo motivo si deduce la carenza di motivazione nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., per aver la Corte, in contrasto con quanto ritenuto dalla consulenza tecnica, da reputarsi appunto “percipiente”, ritenuto non riconducibile il disturbo da adattamento all’ambiente lavorativo, da cui viene riconosciuta affetta la C., derivante da una condotta inadempiente del datore di lavoro, omissiva o commissiva, non risultando “in alcun modo che, in ogni caso, le condizioni lavorative di fatto applicate alla lavoratrice fossero mortificanti o stressogene…”.

Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 2087,1218 e 1223 c.c., per aver la Corte riconosciuto la sussistenza del “nesso eziologico” negando, tuttavia, al contempo, l’inadempimento del datore di lavoro.

Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 246 c.p.c., per una erronea valutazione del materiale istruttorio, nonchè l’incapacità a testimoniare dei testi Co., V. e Ce..

Con il quinto motivo si deduce la violazione degli artt. 2103 e 2697 c.c. e artt. 115,116,416 c.p.c., per aver la Corte reputato non provato l’inadempimento del datore di lavoro anche in ordine al lamentato demansionamento.

Il secondo, il terzo ed il quinto motivo, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, non possono trovare accoglimento.

2.1. Va premesso, al riguardo, che in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960). Relativamente, poi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 c.c., va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. III, n. 15107/2013) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, perdurando, infatti, in capo all’attore che deduca l’illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto nonchè la sottoposizione ad una situazione lavorativa mobbizzante o, almeno riconducibile nell’ambito dello straining la relativa prova circa la nocività dell’ambiente lavorativo e ciò anche in presenza, come si vedrà, di una CTU c.d. “percipiente”. La giurisprudenza di legittimità è consolidata, infatti, nel riconoscere la cosiddetta “consulenza percipiente” (fra le più recenti, Cass. n. 3717 dell’8 febbraio 2019). Quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche – il giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati (consulenza deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulenza percipiente); in tale ultimo caso la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova ed è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (tra le tante, Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-02-2013, n. 4792). Come noto, d’altra parte, la c.t.u. non è una vera e propria prova, anche se bisogna ammettere che può costituire fonte oggettiva di prova tutte le volte che opera come strumento di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche (Cass. 10.3.2000, n. 2802); la c.t.u. è, invece, un mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio incontra il duplice limite del divieto di servirsene per sollevare le parti dall’onere probatorio e dell’obbligo di motivare il rigetto della relativa richiesta (Cass. 20.11.2000, n. 14979). La consulenza tecnica, pur avendo, di regola, la funzione di fornire al giudice una valutazione relativa a fatti già provati nel processo, può legittimamente costituire fonte oggettiva di prova qualora sia stata disposta non soltanto per valutare fatti, ma per accertare quelli rilevabili soltanto con l’ausilio di un perito (Cass. 21 luglio 2003, n. 11332).

Nondimeno, va rilevato che, come questa stessa Corte insegna, (Cass. 21/05/2018 n. 12437) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio loro proprio, rimettendo l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente e ciò anche nel caso di consulenza tecnica d’ufficio cosiddetta “percipiente”, benchè essa possa costituire in sè fonte oggettiva di prova (a differenza di quella cosiddetta “deducente”, che ha ad oggetto l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti: Cass. 23 febbraio 2006, n. 3990), così demandando al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacchè, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti (Cass. 26 novembre 2007, n. 24620; Cass. 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. 26 febbraio 2013, n. 4792). D’altra parte, la prova della responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., richiede l’allegazione da parte del lavoratore, che agisce deducendo l’inadempimento, sia degli indici della nocività dell’ambiente lavorativo cui è esposto, da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa, sia del nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti (sul punto, fra le più recenti, Cass. n. 28516 del 6/11/2019) ed inoltre, la responsabilità dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2087 c.c., non è oggettiva, bensì fondata sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purchè concretamente individuati; ne consegue che va esclusa la possibilità di ricavare dalla norma citata l’obbligo del datore di adottare ogni cautela possibile ed innominata, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a prevenire ogni evento lesivo (Cass. n. 14066 del 23/05/2019).

2.2. Orbene, la piana lettura della decisione di secondo grado induce a ritenere che la Corte – la quale si sofferma a lungo sugli elementi probatori raccolti – abbia reputato comunque non dimostrata la sussistenza di un comportamento inadempiente del datore di lavoro valutazione, questa, rispetto alla quale la consulenza tecnica costituisce uno degli elementi probatori rilevanti ma non l’unico come si evince proprio dalla motivazione, incensurabile, sul punto, in sede di legittimità.

Deve ribadirsi, al riguardo, che è al giudice del merito che spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, talchè, la parte, con il ricorso per cassazione, non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 29404 del 7/12/2017). Nel caso di specie, la decisione della Corte d’appello da conto approfonditamente delle ragioni che l’hanno indotta ad escludere la riconducibilità ad un inadempiente comportamento datoriale della situazione di sofferenza – reputata riconducibile ad un disturbo dell’adattamento conseguente alle difficoltà soggettive incontrate anche nella relazione lavorativa – in cui pur la CTU ha ritenuto la ricorrente versasse in relazione all’ambiente di lavoro. Nè può ritenersi che la Corte si sia immotivatamente discostata dalle conclusioni della CTU atteso che, anzi, essa muove proprio da quei corollari per addivenire alla considerazione dell’assenza di atteggiamenti persecutori o, comunque, di contributo alla nocività della situazione ambientale, alla luce, peraltro, delle emergenze probatorie da cui il Collegio ha evinto alcune circostanze, anzi, deponenti proprio in senso contrario. In particolare, la Corte ha evidenziato che alla lavoratrice non fu più applicato il meccanismo della job rotation a seguito di sua espressa richiesta di esenzione; che ella, trasferita a sua richiesta presso l’Ufficio Marketing, chiese nuovamente di essere assegnata a mansioni commerciali e che tale richiesta fu soddisfatta non appena un posto si rese disponibile; tali acquisizioni, unitamente al difetto di prova circa la contemporanea assegnazione a più manifestazioni fieristiche, nonchè la prova positiva circa la circostanza che anche altri lavoratori erano sottoposti alla job rotation e ad una serie di ulteriori elementi probatori reputati significativi, hanno indotto la Corte ad escludere la configurabilità di una responsabilità datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c. e tale esclusione, fondandosi sulla “valutazione integrata di tutte le risultanze istruttorie” e, quindi, su un accertamento eminentemente di fatto, deve ritenersi sottratta al sindacato di legittimità.

Per quanto concerne, infine, il lamentato demansionamento, la Corte si sofferma non solo su un difetto istruttorio ma, a monte, su un difetto di allegazione in ordine al contenuto concreto delle mansioni in fatto svolte dalla C. prima del trasferimento presso l’Ufficio Marketing, concludendo per l’impossibilità di formulare quella valutazione comparativa che costituisce il presupposto per il giudizio di adeguatezza o meno delle mansioni assegnate valutazione rispetto alla quale va rilevato che non risulta essere stato allegato da parte ricorrente il CCNL Terziario.

Anche tale valutazione, in quanto immune da vizi logici, deve ritenersi meramente fattuale e, quindi, sottratta al sindacato di legittimità.

3. Il quarto motivo è infondato.

Per quanto concerne la asserita violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può che ribadirsi ciò che si è già affermato in precedenza, che depone per l’inconfigurabilità della lamentata lesione, atteso che non può mai porsi tale ipotesi sulla base di una allegata erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo qualora si deduca che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000 cit.).

Relativamente alla lamentata incapacità di alcuni dei testi escussi i quali sarebbero individuabili, a detta della ricorrente, come gli stessi autori delle condotte “stressogene”, premesso che non risulta nessuna impugnativa sul punto in grado di appello, la Corte motiva diffusamente sulla ritenuta attendibilità dei testi che parte ricorrente reputa coinvolti direttamente nella vicenda, sulla base di diversi riscontri, fra cui quelli probatori provenienti dagli altri testi escussi (in particolare B.).

Ritiene il Collegio, in particolare, che non ha potuto trovare riscontro la circostanza dell’essere stata la ricorrente destinataria di frasi mortificanti provenienti da V. e Ce. non avendo nessun altro teste potuto riferire direttamente in ordine a tali allegazioni allo stesso modo, come già osservato, dell’impiego della lavoratrice in altre manifestazioni fieristiche, sulla base di una valutazione complessiva degli elementi probatori assunti, in ordine ai quali, lo si ribadisce, questa Corte non può intervenire, non essendo scrutinabili in sede di legittimità.

4. Con l’unico motivo di ricorso incidentale si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla domanda di restituzione degli importi versati alla lavoratrice in esecuzione della sentenza di primo grado. Il motivo è fondato e, pertanto, deve essere accolto.

Come afferma consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. sul punto, Cass. n. 8639 del 03/05/2016) incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice che, accogliendo l’appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva, ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata, pur essendo stata ritualmente introdotta con l’atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria, non potendosi utilizzare la riforma della pronuncia di primo grado, agli effetti di quanto previsto dall’art. 474 c.p.c., nonchè dall’art. 389 c.p.c., per le domande conseguenti alla cassazione, come condanna implicita.

Atteso che, nel caso di specie, la domanda risulta essere stata ritualmente proposta in appello e su di essa la Corte ha omesso di pronunziarsi, il motivo di ricorso incidentale deve essere accolto e la causa cassata in relazione ad esso e rinviata alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione che dovrà pronunziarsi anche in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.

5. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte respinge il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ad esso e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2020

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