Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12435 del 24/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/06/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 24/06/2020), n.12435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1128/2016 proposto da:

B.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARBARA ORIANI

85, presso lo studio dell’avvocato VALERIO DI GRAVIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GUIDO GRANZOTTO;

– ricorrente –

contro

VICARELLO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CHIANA 12, presso lo studio

dell’avvocato ANTONIO PILEGGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato EZIO CALDERAI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3228/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/08/2015, R.G.N. 961/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 13/8/2015, dopo aver scrutinato le articolate acquisizioni probatorie, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva rigettato le domande proposte da B.R. nei confronti della s.p.a. Vicarello, volte a conseguirne la condanna al pagamento della somma di Euro 715.524,48 a titolo di compensi per l’attività di lavoro subordinato svolta dal 1989 al 2005 in favore della società che gestiva un’azienda agricola, ed esplicata nelle varie mansioni di sorveglianza, assistenza agli operai addetti al taglio del legname, raccolta delle olive; confermava altresì la reiezione delle ulteriori istanze risarcitorie formulate in relazione al prospettato danno biologico, morale, esistenziale, subiti in costanza di rapporto nonchè quelle volte alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli ed ai consequenziali effetti risarcitori oggetto di rivendicazione.

Avverso tale decisione B.R. interpone ricorso per cassazione affidato a plurimi motivi illustrati da memoria ex art. 380 bis c.p.c., ai quali resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ci si duole che la Corte di merito abbia del tutto “omesso di esaminare il fatto che all’esponente è stato impedito dal giudice di prime cure, di assolvere all’onere probatorio” nei termini richiesti, stigmatizzando la mancanza di motivazione assoluta sotto il profilo materiale e grafico. Si lamenta che la Corte abbia stilato una motivazione contraddittoria con affermazioni inconciliabili, giacchè, rigettata l’istanza del ricorrente di riaprire l’istruttoria, avrebbe da un canto riconosciuto che il ricorrente aveva prestato seppur sporadicamente, attività lavorativa in favore della società Vicarello, dall’altro, avrebbe omesso di riconoscere alcuna differenza retributiva anche in relazione a detta attività.

2. Il secondo motivo prospetta violazione degli artt. 202 e 209 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si deduce che i giudici del gravame siano incorsi nella violazione delle richiamate disposizioni codicistiche con riferimento alla mancata riapertura della attività istruttoria in relazione.

3. Il terzo motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si critica la statuizione con la quale la Corte di merito ha ritenuto, in conformità all’opinione espressa dal giudice di prima istanza, che il compendio probatorio acquisito fosse inidoneo a suffragare la tesi attorea relativa alla ascrivibilità del rapporto inter partes alla categoria della subordinazione, omettendo di valutare la minore attendibilità dei testi legati alla parte convenuta rispetto a quelli, invece, “non legati alla parte”.

4. Con la quarta censura si denuncia violazione dell’art. 421 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che il giudice del gravame abbia omesso di concedere termine per sanare la genericità dei capitoli di prova formulati.

5. I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, vanno disattesi.

Tutte le formulate critiche attengono, invero, alla rivisitazione dei dati probatori acquisiti nel corso del giudizio di merito ed alle scelte operate dal giudice del gravame nell’orientamento della attività istruttoria; ma tale approccio non è consentito in questa sede di legittimità ove si ponga riferimento ai principi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134.

Deve al riguardo considerarsi che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile nella fattispecie, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare – nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (vedi Cass. sez. un. 7/4/2014 n. 8053, Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881).

Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

E’ stato così puntualizzato al riguardo che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10/6/2016 n. 11892).

Il giudizio di cassazione è infatti un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (vedi Cass. 6/3/2019 n. 6519).

6. Orbene, le critiche formulate dal ricorrente tendono a pervenire ad un rinnovato scrutinio delle acquisizioni probatorie con riesame dei fatti, inammissibile nella presente sede alla stregua del ricordato insegnamento.

Deve infatti rilevarsi che la Corte di appello, con accertamento che investe pienamente la quaestio facti, ha dato conto delle fonti del proprio convincimento ed ha argomentato in modo congruo – non senza aver dato atto che talune denunce presentate dal ricorrente per falsa testimonianza erano state archiviate in sede penale – che i testimoni escussi i quali avevano riferito in ordine alla attività svolta dal ricorrente in favore della società appellata, si erano limitati a riportare episodi isolati e generici (quali “guida di trattore, presenza su una torre di avvistamento nel 1995, raccolta di sacchi di olive negli anni ‘80”), senza fornire “utili elementi in particolare, sulla eterodirezione e conformazione della prestazione per oltre 15 anni e con la continuità dedotta”.

La questione rilevante in causa è stata, quindi trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur pervenendo il giudice del gravame a conclusioni opposte a quelle indicate da parte ricorrente, con motivazione che non risponde ai requisiti della assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato in questa sede di legittimità.

7. Nè risulta condivisibile la censura formulata con riferimento al mancato ricorso ai poteri istruttori d’ufficio da parte dei giudici del gravame.

Ed invero, secondo i principi affermati da questa Corte ai quali va data continuità, ben può il giudice del merito non esaurire l’esame di tutti i testimoni ammessi qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova, con giudizio che si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivato, anche per implicito, dal complesso della motivazione (vedi Cass. 9/6/2016 n. 11810).

In tal senso la Corte di merito ha dato atto che, con l’assunzione di cinque testimoni e l’acquisizione della prodotta documentazione, il giudice di prime cure aveva congruamente esercitato il suo scrutinio sull’articolato materiale istruttorio, ritenuto idoneo a definire il proprio convincimento sulla relativa efficacia dimostrativa; ed in tal senso correttamente la Corte di merito ha escluso il ricorso ai poteri istruttori officiosi sanciti dall’art. 421 c.p.c., osservando che tale esercizio non può sopperire alle carenze probatorie delle parti, così collocandosi nel solco del consolidato orientamento al riguardo espresso dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. n. 17012 del 2009).

D’altra parte, neanche il ricorrente ha allegato l’esistenza di fatti o argomentazioni idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito (cfr. Cass. 10/9/2019 n. 22628).

8. In definitiva, sotto tutti i profili delineati, il ricorso non si palesa meritevole di accoglimento e va, pertanto, respinto.

Il ricorrente, che risulta allo stato ammesso al gratuito patrocinio, va, infine, condannato al pagamento delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, nella misura in dispositivo liquidata, considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 74, comma 2, non vale ad addossare allo Stato anche le spese che la parte ammessa sia condannata a pagare all’altra parte, risultata vittoriosa, perche “gli onorari e le spese” di cui all’art. 131 D.P.R. cit., sono solo quelli dovuti al difensore della parte assistita dal beneficio, che lo Stato si impegna ad anticipare (vedi Cass. 19/6/2012 n. 10053, Cass. 31/3/2017 n. 8388).

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2020

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