Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12427 del 11/05/2021

Cassazione civile sez. lav., 11/05/2021, (ud. 29/01/2021, dep. 11/05/2021), n.12427

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14160/2015 proposto da:

D.C.G., C.M.S., domiciliate ope legis in

ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentate e difese dall’avvocato NICOLA ZAMPIERI;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

e contro

UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER IL VENETO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1306/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 22/10/2014 R.G.N. 638/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

29/01/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. la Corte d’Appello di Bologna, giudice del rinvio a seguito della sentenza di questa Corte n. 12035/2012, ha riformato le sentenze nn. 272 e 273 del 2004 con le quali il Tribunale di Vicenza aveva accolto i ricorsi proposti da D.C.G. e C.M.S., appartenenti al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario della scuola (ATA), ed aveva dichiarato il diritto delle stesse della L. n. 124 del 1999, ex art. 8, comma 2, al riconoscimento a fini giuridici ed economici dell’intera anzianità di servizio maturata presso l’ente locale di provenienza, condannando, di conseguenza, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca al pagamento delle differenze retributive con decorrenza dal gennaio 2000;

2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di causa, ha premesso che la sentenza rescindente, con la quale era stata cassata la sentenza n. 626/2007 della Corte d’Appello di Venezia che aveva rigettato le domande, aveva demandato al giudice del rinvio di accertare se al momento del passaggio dall’ente locale allo Stato si fosse verificata una riduzione sostanziale del trattamento retributivo ed aveva precisato che il confronto doveva essere globale, cioè non limitato ad uno specifico istituto, e che non potevano assumere rilievo eventuali disparità di trattamento con i lavoratori già in servizio presso il cessionario;

3. la Corte bolognese ha rilevato che con gli originari ricorsi introduttivi la causa petendi dell’azione era stata individuata nel mancato riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio e nessuna censura era stata mossa alla quantificazione dell’assegno ad personam, effettuata sulla base di quanto previsto dall’art. 3 dell’Accordo ARAN del 20.7.2000;

4. solo nell’atto di riassunzione le ricorrenti avevano dedotto di avere subito un peggioramento sostanziale perchè l’amministrazione non aveva tenuto conto di istituti contrattuali previsti per il personale del comparto enti locali e non aveva incluso nella base di calcolo dell’assegno le somme corrisposte ai dipendenti a titolo di premio di produzione, indennità di rischio e buoni pasto;

5. il giudice del rinvio ha ritenuto tardive dette allegazioni ed ha precisato che la direttiva 77/187/CEE non poteva essere invocata per ottenere il miglioramento retributivo derivante dalla combinazione della pregressa anzianità raggiunta da presso l’ente di provenienza ed il diverso sistema contrattuale in tema di progressione retributiva applicato dall’ente di destinazione;

6. ha aggiunto che sulla base delle originarie allegazioni doveva essere escluso il peggioramento retributivo sostanziale perchè grazie all’assegno ad personam non era stato violato il principio dell’irriducibilità della retribuzione;

7. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso D.C.G. e C.M.S. sulla base di quattordici motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., ai quali il MIUR ha opposto difese con controricorso, mentre è rimasto intimato l’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. con il primo motivo le ricorrenti denunciano, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 384 e 437 c.p.c., ed addebitano alla Corte territoriale di essersi sottratta al “duplice dictum” della sentenza rescindente, con la quale era stato demandato al giudice del rinvio di accertare se la L. n. 266 del 2005, fosse stata applicata in modo da salvaguardare il trattamento economico complessivo maturato nel 1999 ed era stato precisato anche che, in caso di violazione del divieto di reformatio in peius, la Corte d’appello avrebbe dovuto applicare, ai fini dell’inquadramento, della L. n. 124 del 1999, art. 8;

le ricorrenti evidenziano che la sentenza della Corte di Giustizia era intervenuta quando già la causa era pendente e, pertanto, il giudice avrebbe dovuto anche d’ufficio accertare se ci fosse stato un non consentito peggioramento retributivo;

2. la violazione dell’art. 437 c.p.c., è denunciata, sotto altro profilo, con la seconda censura con la quale si sostiene che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado era stata allegata la riduzione del trattamento retributivo rispetto a quello goduto nell’anno 1999 ed era stata domandata anche la conservazione di tutti i diritti economici e giuridici maturati;

le ricorrenti ribadiscono, inoltre, che il divieto di nova in appello non può operare in presenza di uno ius superveniens incidente sulla posizione delle parti e sulle loro pretese;

3. la terza critica addebita al giudice del rinvio “error in procedendo nella interpretazione delle domande promosse nei ricorsi art. 414 c.p.c., violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.” perchè il peggioramento retributivo era stato dedotto già nell’originario atto introduttivo del giudizio;

4. il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, denuncia la mancanza assoluta di motivazione nonchè la violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 111 Cost.;

le ricorrenti deducono che la Corte territoriale non ha spiegato le ragioni per le quali ha respinto la domanda di inquadramento formulata con il ricorso in riassunzione e ribadiscono che, una volta effettuata la comparazione tenendo conto anche del premio incentivante e dell’indennità di rischio, in caso di accertato peggioramento andava applicato il criterio dell’anzianità;

5. l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 5, è denunciato con il quinto motivo con il quale si sostiene che la mancata considerazione del premio incentivante, ha determinato la violazione delle norme richiamate in rubrica ed ha impedito la conservazione del trattamento economico complessivo goduto in precedenza;

6. considerazioni analoghe a quelle sopra riassunte le ricorrenti svolgono nel sesto motivo, intitolato “sulla violazione della L. n. 266 del 2005, art. 1, come interpretato in seguito alla sentenza Scattolon, della direttiva 77/187, L. n. 124 del 1999, art. 8, D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 34 (attuale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31)”, con il quale insistono nel sostenere che la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare la classe stipendiale di inquadramento tenendo conto di tutte le voci retributive dell’anno 1999;

7. la settima censura torna a denunciare la violazione della L. n. 266 del 2005, art. 1, unitamente alla violazione dell’art. 437 c.p.c., del principio di non contestazione, dell’art. 115 c.p.c., perchè il Ministero non aveva mai specificamente contestato i conteggi che evidenziavano il peggioramento retributivo derivato dall’omessa valutazione, in sede di inquadramento, del compenso incentivante e dell’indennità di rischio;

al riguardo, infatti, il resistente si era limitato a sostenere che al momento del passaggio erano state considerate tutte le voci contrattuali previste dall’accordo ARAN dell’anno 2000;

8. con l’ottavo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, omessa pronuncia e violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione ai motivi 3, 4 e 5 dell’atto di riassunzione, con i quali era stata domandata la disapplicazione della L. n. 266 del 2005, per violazione degli artt. 47 e 52 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea;

9. la nona censura addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e dell’art. 1 del protocollo 1 alla stessa allegato nonchè dell’art. 47 e art. 52, n. 3, della Carta di Nizza del 7.12.2000 perchè la Corte territoriale avrebbe dovuto disapplicare la norma di interpretazione autentica, alla luce delle plurime pronunce rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, da ultimo con la sentenza del 9 settembre 2014 Caligiuri ed altri contro Italia;

10. considerazioni analoghe vengono svolte con il decimo motivo che denuncia la violazione dell’art. 6, n. 2, del Trattato sull’Unione Europea nonchè dei principi della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, del diritto ad un Tribunale indipendente, recepiti come principi generali del diritto dell’Unione;

11. con l’undicesimo motivo, intitolato “violazione dei principi di tutela giurisdizionale effettiva e di equivalenza, dell’art. 19, comma 1, del T.U.E., dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali, dell’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, del principio di collaborazione”, le ricorrenti assumono che il giudice del rinvio, nel rigettare la domanda per la novità delle allegazioni, aveva loro impedito di far valere diritti garantiti dalla normativa comunitaria, normativa che andava applicata, a prescindere dalle deduzioni dell’atto introduttivo della lite, perchè alla data di deposito del ricorso non era prevedibile lo ius superveniens;

12. in via subordinata, con il dodicesimo motivo, formulano istanza di rimessione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 CE sulle questioni prospettate nei motivi 8, 10 e 11;

13. la tredicesima critica assume che la sentenza gravata avrebbe violato l’art. 117 Cost., l’art. 1 del protocollo 1 allegato alla CEDU e l’art. 46 CEDU e sollecita il Collegio e rimettere nuovamente alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218;

14. infine il quattordicesimo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., perchè l’onere di provare il rispetto del divieto di reformatio in peius grava sul Ministero che non l’aveva assolto, non avendo dimostrato di avere garantito al dipendente la conservazione del trattamento economico acquisito;

15. preliminarmente rileva il Collegio che non può essere accolta l’istanza, formulata nell’intestazione della memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., di discussione orale e di fissazione dell’udienza pubblica;

15.1. il procedimento per la decisione in Camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice, disciplinato (all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 168 del 2016, convertito nella L. n. 197 del 2016) dall’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis.1 c.p.c., non va confuso con quello previsto dall’art. 376, art. 375, comma 1 e art. 380 bis, per i casi di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, perchè il legislatore ha affiancato alla procedura camerale, finalizzata ad accertare la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 375, comma 1, nn. 1 e 5, la pronuncia con ordinanza in Camera di consiglio, alla quale la sezione semplice può fare ricorso “in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’art. 376, in esito alla Camera di consiglio che non ha definito il giudizio” (art. 375 c.p.c., u.c.);

15.2. nessuna delle condizioni ostative ricorre nella fattispecie nella quale si prospettano questioni già esaminate dal Collegio e che possono essere decise sulla base di principi ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte;

16. il ricorso deve essere rigettato, con correzione della motivazione della sentenza impugnata ex art. 384 c.p.c., comma 4, per le medesime ragioni evidenziate con le recenti ordinanze nn. 14892, 22996 e 23382 del 2020, pronunciate in fattispecie analoghe a quella oggetto di causa, ed alla cui motivazione si rinvia ex art. 118 disp. att. c.p.c.;

17. occorre premettere che, in caso di ricorso proposto avverso la sentenza emessa in sede di rinvio, ove sia in discussione la portata del decisum della pronuncia rescindente, la Corte di cassazione, nel verificare se il giudice di rinvio si sia uniformato al principio di diritto da essa enunciato, deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa ed al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte (Cass. n. 3955/2018);

18. nel caso di specie questa Corte, con la sentenza n. 12035/2012, non ha affatto demandato al giudice del rinvio di verificare se l’inquadramento disposto dal MIUR in base all’accordo sindacale del 20 luglio 2000 fosse o meno conforme alla sopravvenuta L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, nè ha affermato che, in caso di accertata reformatio in peius, doveva essere integralmente riconosciuta l’anzianità posseduta, perchè ha chiesto solo al giudice del merito di “verificare la sussistenza o meno di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento” ed i criteri fissati ai fini della comparazione sono solo quelli indicati al punto 11 della pronuncia, ove si precisa che il confronto deve essere globale, riferito al momento del passaggio, e che non rilevano eventuali disparità di trattamento con i dipendenti già in servizio presso il cessionario;

18.1. la sentenza rescindente non ha posto alcun altro limite all’esame demandato al giudice del rinvio e, in particolare, non ha indicato quali fossero le componenti del trattamento economico fondamentale e accessorio da apprezzare ai fini della comparazione “globale”, giacchè al punto 19 della decisione si è limitata a sottolineare, “per completezza” e per escludere che l’accoglimento della domanda fosse conseguenza obbligata di quanto statuito dalla Corte EDU con la pronuncia Agrati, che alla Corte la questione non era stata compiutamente rappresentata, in quanto i ricorrenti avevano sostenuto di avere perso “tutti gli elementi accessori della retribuzione” mentre, al contrario, ove il trattamento accessorio era venuto specificamente in rilievo, la domanda finalizzata ad ottenerne la conservazione era stata accolta;

18.2. su detto passaggio motivazionale le ricorrenti non possono fare leva per sostenere che al giudice del rinvio sarebbe stato imposto di considerare ai fini della comparazione le voci che vengono specificamente in rilievo in questa sede, perchè l’indagine demandata era solo quella indicata nei punti 11 e 20, che non aggiungono altre precisazioni quanto al concetto di “condizioni meno favorevoli”;

19. ciò detto osserva il Collegio che la Corte territoriale ha indubbiamente errato nel ritenere la novità delle allegazioni del ricorso in riassunzione, perchè il principio del carattere chiuso del giudizio di rinvio non può operare nei casi in cui le nuove attività assertive e probatorie siano rese necessarie dalla sopravvenienza, in corso di causa, di una nuova disciplina di legge applicabile anche ai giudizi in corso, di una pronuncia di illegittimità costituzionale, ed in genere di ius superveniens, del quale la sentenza rescindente abbia fatto applicazione (Cass. n. 14892/2020 che richiama Cass. n. 34209/2019, Cass. n. 10845/2017, Cass. n. 13458/2016, Cass. n. 422/2014);

20. tuttavia l’errore commesso dalla Corte territoriale non giustifica la cassazione della pronuncia ed un nuovo giudizio di rinvio, perchè le allegazioni sulle quali le ricorrenti fanno leva per sostenere la tesi del peggioramento retributivo sostanziale, non sono idonee allo scopo, e ciò a prescindere dalla loro verifica in fatto;

20.1. un peggioramento “sostanziale”, impedito dalla tutela che la direttiva Eurounitaria riconosce ai lavoratori coinvolti nel trasferimento d’impresa, è ravvisabile solo qualora, all’esito della comparazione globale, emerga una diminuzione “certa” del compenso che sarebbe stato corrisposto qualora il rapporto fosse proseguito con il cedente nelle medesime condizioni lavorative, sicchè non possono essere apprezzati gli importi, che se pure occasionalmente versati prima del passaggio, non costituivano il “normale” corrispettivo della prestazione, perchè, in quanto legati a variabili inerenti alle modalità qualitative e quantitative di quest’ultima, non erano entrati nel patrimonio del lavoratore, che sugli stessi non avrebbe potuto fare sicuro affidamento neppure qualora la vicenda modificativa non fosse stata realizzata;

20.2. il principio di irriducibilità della retribuzione, che questa Corte ha precisato nei termini sopra indicati (cfr. fra le tante Cass. n. 29247/2017; Cass. n. 4317/2012; Cass. n. 20310/2008), non si atteggia diversamente nei casi di modificazione soggettiva del rapporto perchè, se la direttiva 77/187 “non può essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni retributive o di altre condizioni lavorative in occasione di un trasferimento di impresa” (punto 77 sentenza Scattolon), non possono essere opposti al cessionario limiti ulteriori rispetto a quelli che valevano, prima della cessione, per il datore di lavoro cedente;

20.3. ciò detto rileva il Collegio che nel ricorso e nella memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., le ricorrenti, per sostenere la tesi di un peggioramento sostanziale, verificatosi nonostante il riconoscimento dell’assegno personale, fanno leva su voci del trattamento accessorio e su istituti contrattuali che, a prescindere dall’accertamento in fatto e dalla rilevanza nella fattispecie (non vi è corrispondenza fra le argomentazioni sviluppate nel ricorso ed i prospetti riportati alle pagine 17 e 18 nei quali si evidenziano le componenti non valutate dall’amministrazione), non possono essere apprezzati, o perchè si prospetta un’interpretazione erronea della contrattazione collettiva per il personale del comparto degli enti locali, o in quanto si tratta di voci prive dei requisiti di fissità e di continuità, che devono ricorrere ai fini del rispetto del divieto di reformatio in peius;

20.4. deve essere qui ribadito il principio di diritto già affermato da Cass. nn. 3663, 6345, 7470 del 2019 secondo cui i premi ed i compensi incentivanti previsti dagli artt. 17 e 18 del CCNL 1 aprile 1999 per il personale del comparto regioni ed enti locali non possono avere rilevanza ai fini del cd. maturato economico, perchè si tratta di voci del trattamento accessorio correlate ad effettivi incrementi di produttività e di miglioramento dei servizi, ossia di emolumenti non certi nell’au e nel quantum;

20.5. quanto all’indennità di rischio, occorre evidenziare che la tabella b allegata al D.P.R. n. 347 del 1983, richiamato dall’art. 31 del CCNL 6.7.1995 e superato solo dall’art. 37 del CCNL 14.9.2000, individua specificamente le attività comportanti l’attribuzione dell’indennità in ragione dell’esposizione a fattori nocivi, attività fra le quali non rientrano le mansioni espletate dal personale ATA all’interno degli istituti scolastici, come desumibili dalla declaratoria dei relativi profili professionali;

20.6. parimenti nessun rilievo può essere attribuito all’asserita mancata considerazione del LED – Livello Economico Differenziato – perchè anche in tal caso le ricorrenti fanno leva su un’interpretazione non corretta della contrattazione collettiva per il personale del comparto enti locali che, a partire dall’adozione del nuovo sistema di classificazione del personale avvenuta con il CCNL 31.3.1999 (quindi in epoca antecedente il passaggio nei ruoli dello Stato), ha previsto (art. 7, comma 2, del CCNL 1999) l’assorbimento nel trattamento economico fondamentale delle “voci retributive stipendio tabellare e livello economico differenziato di cui all’art. 28, comma 1, del CCNL del 6.7.1995” che, quindi, hanno perso autonomia e sono state ricomprese a tutti gli effetti nel trattamento valutato dall’amministrazione al momento del passaggio;

20.7. infine va rammentato che nell’impiego pubblico contrattualizzato l’attribuzione del buono pasto ha carattere assistenziale, è legata ad una particolare articolazione dell’orario di lavoro e non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro (cfr. Cass. n. 31137/2019);

20.8. ne discende che i motivi dal primo al settimo, tutti incentrati sull’errore commesso dal giudice del rinvio e sul mancato apprezzamento di un peggioramento sostanziale, che si assume provato attraverso la produzione documentale, non possono trovare accoglimento ex art. 384 c.p.c., comma 4, in quanto il dispositivo di rigetto della domanda è comunque conforme a diritto e può la Corte limitarsi a correggere la motivazione erronea della pronuncia;

21. quanto agli ulteriori motivi, le ragioni di rigetto o di inammissibilità delle censure vanno tratte dalla motivazione della citata Cass. n. 14892/2020, già richiamata ex art. 118 disp. att. c.p.c., che ha respinto analoghi ricorsi e con la quale, in sintesi, si è evidenziato che:

a) la verifica della conformità di una norma di legge alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non costituisce oggetto di domanda ex art. 112 c.p.c., sicchè rispetto alla stessa non è configurabile il vizio di omessa pronuncia;

b) l’art. 6, paragrafo 3, TUE non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, perchè un problema di rispetto dei principi generali dell’Unione Europea si può porre solo nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione stessa, con la conseguenza che, una volta applicata la direttiva 1977/187/CEE nei termini indicati dalla sentenza CGUE 6.9.2011, Scattolon, ogni contrasto risulta superato;

c) l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267, comma 3, del TFUE, viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa Europea, perchè sulla questione stessa la Corte si è già pronunciata o anche in ragione dell’evidenza dell’interpretazione (punto 38 della cit. Cass. n. 14892/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata);

d) le sentenze della Corte EDU successive a quella del 7 giugno 2011, Agrati, non hanno innovato il quadro della vicenda già apprezzato da questa Corte, che ha costantemente ritenuto (cfr. fra le tante Cass. n. 7859/2019, Cass. n. 4437/2019, Cass. n. 3016/2018) non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa di interpretazione autentica, rilevando che il giudice delle leggi, affermata la propria competenza a compiere la valutazione, ha già ritenuto sussistenti imperativi motivi di interesse generale che, secondo la stessa Corte di Strasburgo, permettono al legislatore di intervenire sul processo in corso;

e) una volta corretta la motivazione della sentenza gravata, non è ravvisabile la denunciata violazione dei principi richiamati nell’undicesimo motivo;

f) è inammissibile la censura di violazione dell’art. 2697 c.c., perchè la Corte territoriale non ha deciso la controversia sulla base di un’erronea attribuzione dell’onere della prova ed il rigetto della domanda, una volta corretta la motivazione, discende dall’applicazione di principi di diritto, che portano ad escludere il lamentato peggioramento retributivo sostanziale;

22. la memoria depositata ex art. 380 bis.1 c.p.c., con la quale le ricorrenti, nel contestare l’iter argomentativo sopra sintetizzato insistono nel sollecitare in primis l’esercizio del potere di disapplicazione e, in via subordinata, una nuova rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, svolge considerazioni che, seppure maggiormente sviluppate rispetto all’atto introduttivo del giudizio di legittimità, non inseriscono elementi di novità nè giustificano un ripensamento degli orientamenti già espressi da questa Corte;

22.1. quanto alla necessità di disapplicare la legge di interpretazione autentica, in ragione della violazione degli artt. 47 e 52 della CDFUE, le ricorrenti muovono da una lettura non corretta del punto 84 della sentenza 6.9.2011 in causa c-108/10, perchè la questione dell’ipotizzata violazione dell’art. 47 è stata ritenuta assorbita in ragione del principio, affermato esplicitamente in altre pronunce della Corte di Giustizia, secondo cui ai sensi dell’art. 51 della Carta, il collegamento con il diritto dell’Unione dell’atto di diritto interno contestato richiede, non solo che la misura nazionale ricada in un settore nel quale l’Unione è competente, ma anche che la stessa incida direttamente sulla normativa Eurounitaria e si ponga in contrasto con gli obiettivi che questa persegue;

22.2. è stato, pertanto, evidenziato che i diritti fondamentali dell’Unione non possono essere applicati ad una normativa nazionale qualora, in relazione alla situazione oggetto del procedimento principale, le disposizioni dell’Unione non pongono alcun obbligo specifico agli Stati membri (Corte di Giustizia 16.7.2020 in causa C – 686/18 punti da 52 a 54 e la giurisprudenza ivi richiamata; negli stessi termini Corte di Giustizia 4.6.2020 in causa C – 32/20 punti da 25 a 27);

22.3. con la sentenza Scattolon la Corte ha chiarito che la direttiva 77/187 ha il solo scopo di evitare che i lavoratori siano collocati per effetto del trasferimento in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente e non può essere invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni retributive, sicchè il collegamento con il diritto dell’Unione, da intendere nei termini precisati nei punti che precedono, opera solo a fronte di disposizioni che si pongano in contrasto con l’obiettivo della direttiva e, quanto alle condizioni di lavoro ed al trattamento retributivo, non è più predicabile qualora, come è stato verificato nella fattispecie, l’irriducibilità sia garantita e l’operatività dei principi della Carta venga invocata per ottenere un effetto finale che esula dalle tutele assicurate dal diritto dell’Unione;

23. analogamente il Collegio, nel ribadire l’orientamento consolidato già espresso, non ritiene che le pronunce della Corte EDU costituiscano una sopravvenienza idonea a giustificare l’attivazione del procedimento incidentale di legittimità costituzionale in relazione ad una norma di legge la cui legittimità è stata scrutinata dalla Corte Costituzionale in più pronunce (Corte Cost. nn. 234 e 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009);

23.1. in altra vicenda che, quanto ai rapporti fra le Corti superiori, presenta profili di affinità a quella oggetto di causa, il Giudice delle leggi ha ribadito che il vincolo derivante dalle sentenze della Corte EDU attiene all’interpretazione della norma convenzionale, ma non si estende alla valutazione espressa sulla sussistenza di motivi imperativi di interesse generale, che solo la Corte Costituzionale può compiere perchè essa, a differenza della Corte di Strasburgo “opera una valutazione sistemica e non isolata dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è quindi tenuta al bilanciamento, solo ad essa spettante” (Corte Cost. n. 264/2012; va segnalato che la stessa Corte, nuovamente adita a seguito della sopravvenienza di ulteriore pronuncia della Corte EDU, con la sentenza n. 166/2017 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della legge di interpretazione autentica dettata dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 777, prospettata questa volta in relazione alla violazione non dell’art. 6 della CEDU, bensì dell’art. 1 del Protocollo addizionale, in una fattispecie nella quale la norma interpretativa aveva inciso, riducendola, sull’entità della pensione già corrisposta agli aventi diritto);

23.2. va, poi, ricordato che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 311/2009, oltre a valutare la conformità della legge di interpretazione autentica in relazione al parametro invocato (art. 117 Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU) ha anche ribadito principi già affermati con la sentenza n. 234/2007, che aveva, da un lato, evidenziato la valenza generale del criterio del maturato economico, introdotto già dalla L. n. 312 del 1980, dall’altro la necessità di un’interpretazione della L. n. 124 del 1999, art. 8, che, senza determinare una reformatio in malam partem di una situazione patrimoniale in precedenza acquisita, tenesse anche conto della disciplina dettata per l’impiego pubblico e dell’invarianza della spesa, imposta dalla stessa L. n. 124 del 1999, ai fini del rispetto dell’art. 81 Cost., invarianza della quale le parti collettive si erano poi fatte carico;

23.3. la Corte, quindi, nelle pronunce citate, sia pure in relazione ad altri parametri invocati dai giudici rimettenti, ha espresso considerazioni anche in relazione al legittimo affidamento, dalle quali può desumersi la manifesta infondatezza della questione riproposta in questa sede dai ricorrenti;

24. d’altro canto non risponde neppure al vero che al personale ATA interessato dal trasferimento di attività sarebbe stato assicurato un trattamento deteriore rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei dipendenti pubblici dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31 e dall’art. 2112 c.c., perchè, al contrario, anche in relazione ad altri trasferimenti questa Corte ha affermato che le disposizioni normative e contrattuali finalizzate a garantire il mantenimento del trattamento economico e normativo acquisito, non implicano la totale parificazione del lavoratore trasferito ai dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione, in quanto la prosecuzione giuridica del rapporto se, da un lato, rende operante il divieto di reformatio in peius, dall’altro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore;

24.1. muovendo da detta premessa si è evidenziato che l’anzianità di servizio, che di per sè non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito (Cass. n. 18220/2015; Cass. n. 25021/2014; Cass. n. 22745/2011; Cass. n. 10933/2011; Cass. S.U. n. 22800/2010; Cass. n. 17081/2007);

24.2. l’anzianità pregressa, invece, non può essere fatta valere da quest’ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina applicabile al cessionario (Cass. S.U. n. 22800/2010 e Cass. n. 25021/2014), nè può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perchè l’ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto, non delle mere aspettative (cfr. fra le più recenti Cass. n. 4389/2020 e quanto agli scatti di anzianità Cass. n. 32070/2019);

24.3. corollario di detto principio è quello, egualmente consolidato da tempo nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in caso di passaggio di personale conseguente al trasferimento di attività concorrono a formare la base di calcolo ai fini della quantificazione dell’assegno personale le voci retributive corrisposte in misura fissa e continuativa, non già gli emolumenti variabili o provvisori sui quali, per il loro carattere di precarietà e di accidentalità il dipendente non può riporre affidamento, o perchè connessi a particolari situazioni di lavoro o in quanto derivanti dal raggiungimento di specifici obiettivi e condizionati, nell’ammontare, da stanziamenti per i quali è richiesto il previo giudizio di compatibilità con le esigenze finanziarie dell’amministrazione (cfr. fra le tante Cass. n. 31148/2018; Cass. n. 18196/2017; Cass. n. 3865/2012);

25. il ricorso, in via conclusiva, deve essere rigettato ed alla soccombenza segue la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

26. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.000,00 oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 29 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2021

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