Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12406 del 16/06/2016

Cassazione civile sez. III, 16/06/2016, (ud. 04/03/2016, dep. 16/06/2016), n.12406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 30090-2014 proposto da:

L.A., P.A., elettivamente domiciliati

in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato

STEFANO D’ACUNTI, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato DIEGO TORTIS giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

U.C., S.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 5290/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/03/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato STEFANO D’ACUNTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Con la sentenza impugnata, pubblicata il 2 settembre 2014, la Corte d’Appello di Roma ha accolto l’appello proposto da U. C. e S.C. avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, nel giudizio di opposizione all’esecuzione introdotto da P.A. e L. A..

Questi ultimi si erano opposti al precetto ed all’avviso di rilascio dell’immobile meglio specificato in atti (notificati dagli U. – S. in base alla sentenza del Tribunale di Velletri del 20 settembre 2007 n. 2047 di condanna dei P. – L. all’immediato rilascio del fabbricato), opponendo il diritto di ritenzione per i miglioramenti effettuati sull’immobile e chiedendo la condanna dei convenuti opposti al pagamento dell’indennità per miglioramenti.

Il giudice di primo grado, con sentenza pubblicata l’11 giugno 2013, aveva accolto l’opposizione ed aveva dichiarato che spettava agli opponenti il rimborso della somma di e 529.025,14, fino al pagamento della quale gli stessi godevano del diritto di ritenere il bene, con condanna degli U. – S., in solido, al pagamento della somma; aveva inoltre disposto il sequestro conservativo dell’immobile fino a questo pagamento e condannato i convenuti opposti al pagamento delle spese del grado.

2.- U.C. e S.C. proponevano appello, cui resistevano P.A. e L.A..

La Corte d’Appello – ritenuto ammissibile il gravame perchè l’opposizione era stata qualificata espressamente dal giudice a quo come opposizione all’esecuzione e quindi la sentenza, pronunciata l’11 giugno 2013, era appellabile, mediante notificazione di atto di citazione, ai sensi dell’art. 616 c.p.c. – accogliendo l’appello, ha dichiarato inammissibile l’opposizione pagamento, in ponendo a loro in primo grado all’esecuzione ed ha condannato gli appellati al solido, delle spese dei due gradi di giudizio, carico anche le spese della C.T.U., come liquidate in primo grado.

3.- Per la cassazione della sentenza ricorrono con tre motivi P.A. e L.A..

Gli intimati non svolgono attività difensiva.

I ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo è dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 disp. att. c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., artt. 325 e 156 c.p.c., perchè la Corte d’Appello ha disatteso – secondo i ricorrenti, immotivatamente – l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dagli appellati in quanto il gravame sarebbe stato proposto tardivamente. Riguardo a siffatta eccezione, i ricorrenti sostengono che, essendo stato introdotto il giudizio di opposizione al precetto ed all’avviso di rilascio con ricorso, anche l’atto di appello avrebbe dovuto avere la forma del ricorso, in applicazione del principio di ultrattività del rito;

essendo stata invece notificata una citazione, la Corte di merito, per decidere sulla tempestività del gravame, avrebbe dovuto considerare non la data della sua notificazione, bensì alla stregua della giurisprudenza richiamata sul principio di conservazione o di conversione degli atti – la data dell’iscrizione a ruolo, coincidente con quella del deposito dell’atto nella cancelleria del giudice d’appello. Nel caso di specie, l’iscrizione a ruolo è stata fatta oltre il trentesimo giorno dalla notificazione della sentenza di primo grado e perciò, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’appello.

1.1.- A prescindere dall’inammissibile denuncia del vizio di motivazione (essendo questo un vizio che attiene soltanto all’apprezzamento dei fatti, non anche alla mancata od insufficiente motivazione in diritto, come sembrano ritenere i ricorrenti), il motivo è comunque infondato.

Effettivamente il giudizio venne introdotto in primo grado con ricorso. La forma dell’atto introduttivo dell’opposizione all’esecuzione prescelta dagli opponenti è corretta. Le norme applicabili sono quelle dell’art. 615 c.p.c., comma 2, e art.608 c.p.c.. Trattandosi di esecuzione per rilascio, l’esecuzione, ai sensi di questa seconda norma, inizia con la notifica dell’avviso da parte dell’Ufficiale giudiziario, comunemente definito “preavviso di rilascio”. Poichè questo era stato notificato agli opponenti in data 14 luglio 2011, in questa data è iniziata l’esecuzione. Perciò è conforme alla previsione dell’art. 615 c.p.c., comma 2, il deposito del ricorso in opposizione effettuato in data 28 luglio 2011.

Risulta peraltro che il giudizio, pur essendo stato introdotto con ricorso, sia proseguito secondo le norme del rito ordinario di cognizione, tanto è vero che il giudice assegnò i termini dell’art. 183 c.p.c. e, dopo lo svolgimento dell’istruttoria, fissò l’udienza di precisazione delle conclusioni, assegnò gli ulteriori termini dell’art. 190 c.p.c. e concluse con sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 quinquies c.p.c., comma 1. L’irregolarità riscontrabile nella conduzione del giudizio di primo grado è quindi consistita nella mancata adozione del provvedimento di cui all’art. 616 c.p.c.. Tuttavia, contrariamente a quanto si assume in ricorso, questo non è un provvedimento di mutamento del rito, analogo a quello previsto dagli artt. 426 e 427 c.p.c.. Piuttosto, è finalizzato a dare luogo alla seconda fase del giudizio di opposizione all’esecuzione (considerata la struttura c.d. bifasica di questo risultante dalla sostituzione dell’art. 616 c.p.c.fatta con la L. 24 febbraio 2006, n. 52, art. 14, comma 1). Il vizio del procedimento derivante dalla violazione di questa norma avrebbe dovuto essere fatto valere con appello. Sono i ricorrenti ad escludere che ciò sia accaduto, nè gli stessi -che in quel giudizio erano stati vittoriosi- avrebbero avuto interesse ad impugnare la sentenza di primo grado.

La giurisprudenza richiamata in ricorso applica il principio di ultrattività del rito, presupponendo che il giudice abbia trattato la causa secondo un rito sbagliato perchè ha implicitamente ritenuto che il rito in concreto seguito fosse quello prescritto: in tale eventualità il giudizio deve proseguire nelle stesse forme anche nei gradi di impugnazione (cfr. Cass. n. 12290/11, n. 15272/14); nel caso di specie, l’applicazione del medesimo principio conduce a risultati opposti a quelli pretesi dai ricorrenti. Il Tribunale, pur essendo stato investito con ricorso, ha trattato la causa di opposizione applicando, come detto, le norme del rito ordinario di cognizione;

perciò la sentenza conclusiva è stata correttamente impugnata con atto di citazione, notificato entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza, così come previsto dagli artt. 342 e 325 c.p.c., e come ritenuto dalla Corte capitolina.

Non vi era perciò ragione di applicare l’altro principio, invocato dai ricorrenti, della conservazione o conversione degli atti (su cui, da ultimo, Cass. S.U. n. 2907/14), che presuppone che la forma dell’atto non sia corretta. Nel caso di specie, è stata invece bene adottata la forma dell’atto di citazione.

Il primo motivo di ricorso va quindi rigettato.

2.- Col secondo motivo è dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 disp. att. c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., art. 618 c.p.c., u.c., e art. 617 c.p.c., comma 1, perchè la Corte d’Appello ha rigettato – secondo i ricorrenti, immotivatamente – l’altra eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dagli appellati perchè la sentenza di primo grado sarebbe stata pronunciata a conclusione di un giudizio di opposizione agli atti esecutivi, e non di opposizione all’esecuzione.

I ricorrenti sostengono che il giudice di primo grado avrebbe qualificato l’azione come opposizione agli atti esecutivi e che questa qualificazione sarebbe deducibile dai seguenti elementi non considerati dalla Corte d’Appello: 1) l’unica norma citata nella sentenza di primo grado è l’art. 617 c.p.c., comma 1; 2) nella parte iniziale dei “motivi della decisione” è richiamata questa norma; 3) alla prima udienza il giudice aveva disposto “la sospensione della esecuzione per rilascio”, e non la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo; 4) gli appellanti non hanno contestato la qualificazione di opposizione agli atti esecutivi.

2.1.- Il motivo non merita di essere accolto, non solo per l’errata denuncia del vizio di motivazione (per le ragioni esposte già a proposito del primo motivo), ma anche perchè non tiene conto dell’affermazione della Corte d’Appello secondo cui il tribunale ha espressamente qualificato l’azione degli opponenti come opposizione all’esecuzione.

Ed invero, il motivo di ricorso è volto a dimostrare che ci sarebbe stata, da parte del tribunale, una qualificazione implicita, non espressa. In particolare, l’assunto dei ricorrenti è che la qualificazione si dovrebbe desumere da una serie di indici – come sopra indicati con i numeri da 1) a 4). A prescindere dal fatto che trattasi di dati nient’affatto univoci nel senso preteso dai ricorrenti (tanto che, lasciando ampi margini di ambiguità, avrebbero consentito la qualificazione dell’azione da parte del giudice ad quem, alla stregua del principio di cui appresso), essi non consentono comunque di superare la qualificazione di opposizione all’esecuzione manifestata espressamente nella sentenza di primo grado. In questa sentenza (cui la Corte di cassazione ha accesso, trattandosi di error in procedendo), si legge infatti che il tribunale, dopo aver svolto le premesse cui fanno qui riferimento i ricorrenti, espressamente concluse per la qualificazione dell’azione come opposizione all’esecuzione.

Questa rende appellabile la sentenza in base al principio c.d.

dell’apparenza (richiamato dagli stessi ricorrenti), non senza trascurare di considerare che la qualificazione come opposizione all’esecuzione è, nel caso di specie, corretta e conforme a diritto.

Il giudice del primo grado ha accolto un motivo di opposizione con il quale (a prescindere dalla fondatezza in concreto, su cui infra) gli odierni ricorrenti si sono opposti all’esecuzione per rilascio opponendo un diritto di ritenzione. Orbene, l’esistenza del diritto di ritenzione di cui all’art. 1152 c.c. costituisce un ostacolo al diritto di procedere esecutivamente per il rilascio dell’immobile ritenuto, sicchè va qualificata come opposizione all’esecuzione l’opposizione proposta dal possessore esecutato per il rilascio, che deduca di ritenere l’immobile ai sensi di detta norma.

Il secondo motivo di ricorso va rigettato.

3- Col terzo motivo è dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., al fine di censurare la dichiarazione di inammissibilità dell’opposizione all’esecuzione per rilascio.

Per comprendere come la Corte d’Appello sia giunta a questa conclusione occorre premettere che dalla sentenza risulta che i coniugi L. e P. avevano avuto in detenzione l’immobile in forza di contratto preliminare di acquisto sottoscritto con la società Edil Numa di U. e Sc. s.n.c. –

frattanto fallita – la quale, a sua volta, era promissaria acquirente dai coniugi U. e S. (più precisamente, permutanti l’immobile in questione con altro immobile di proprietà della società); che gli U. – S., dopo il fallimento della società, avevano citato in giudizio gli odierni ricorrenti, per ottenere, oltre al risarcimento dei danni per occupazione abusiva, il rilascio dell’immobile; che questo, originariamente consistente in un appezzamento di terreno con sovrastante fabbricato allo stato rustico, era stato trasformato a spese dei L.- P. in una villa con giardino e piscina, che da anni costituiva l’abitazione del nucleo familiare; che con sentenza n. 2047 del 20 settembre 2007, il Tribunale di Velletri, a conclusione di quel giudizio, aveva ordinato il rilascio immediato dell’immobile, rigettando la domanda risarcitoria, con sentenza oramai passata in giudicato perchè non appellata da alcuno.

La Corte d’Appello ha ritenuto che il tema dei miglioramenti apportati all’immobile avesse “costituito diretto e specifico oggetto di giudizio della decisione posta in esecuzione” ed, essendo stato quindi definito con quella sentenza – avverso la quale i L.- P. avrebbero dovuto proporre impugnazione- non avrebbe potuto essere (ri)proposto in sede di opposizione all’esecuzione. Poichè questa consente di far valere soltanto i fatti estintivi o modificativi sopravvenuti e successivi al giudicato, la Corte territoriale ha concluso per la sua inammissibilità.

3.1.- I ricorrenti sostengono che la Corte d’Appello ha errato quando ha interpretato il giudicato formatosi sulla sentenza n. 2047 del 20 settembre 2007 del Tribunale di Velletri come relativo anche ai miglioramenti apportati all’immobile dagli opponenti P. e L.; che, invece, la sentenza nulla statuirebbe al riguardo; che i miglioramenti sarebbero venuti in evidenza limitatamente alla domanda di risarcimento per occupazione abusiva (formulata in quel giudizio dagli attori U. – S.), soltanto al fine del rigetto di questa domanda; che peraltro la decisione si sarebbe fermata al riconoscimento dell’effettuazione dei miglioramenti da parte degli occupanti; che questi ultimi non avevano spiegato alcuna domanda riconvenzionale per indennità per miglioramenti, essendosi limitati a chiedere il rigetto delle domande avversarie; che, perciò, oltre alla considerazione dei miglioramenti al fine del rigetto della domanda risarcitoria, non era stata resa alcuna statuizione in proposito; che non sarebbe stato possibile ai convenuti in quel giudizio proporre appello, in quanto carenti di interesse poichè non vi era stata alcuna statuizione pregiudizievole nei loro confronti avente ad oggetto i miglioramenti (tanto è vero che la CTU espletata in quel giudizio, volta a determinare soltanto l’indennità di occupazione richiesta dai signori U. e S., nulla aveva accertato in ordine all’entità delle migliorie apportate dai signori P. e L.).

4.- Il motivo è fondato nei limiti e con le precisazioni di cui appresso.

Ai sensi dell’art. 2909 c.c., il giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, entro i limiti oggettivi dati dai suoi elementi costitutivi, ovvero della causa petendi, intesa come titolo dell’azione proposta e del bene della vita che ne forma l’oggetto (petitum mediato), a prescindere dal tipo di sentenza adottato (petitum immediato); entro tali limiti, l’autorità del giudicato copre il dedotto e il deducibile, ovvero non soltanto le questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione (in questa compresa anche la domanda riconvenzionale) ed in via di eccezione, e comunque esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni non dedotte in giudizio. Tuttavia, perchè il giudicato si formi anche su queste ultime, occorre che le stesse costituiscano un presupposto logico essenziale e indefettibile della decisione stessa (cfr. tra le tante, Cass. n. 5925/2004, n. 14535/12, n. 5245/14).

4.1.- Nel caso in esame, non appare contestato che gli odierni ricorrenti, convenuti nel giudizio concluso con la sentenza n. 2047/07, il cui giudicato rileva in questa sede, non svolsero alcuna domanda riconvenzionale nè alcuna eccezione in senso stretto che avesse ad oggetto l’indennità per i miglioramenti apportati all’immobile. La domanda introduttiva di quel giudizio va qualificata come domanda di rivendicazione da parte degli U.- S. del bene, che assumevano essere detenuto senza titolo dai convenuti P.- L.; a questa domanda si era aggiunta la domanda di risarcimento del danno.

Si evince dagli atti che, in quel giudizio, venne svolta attività istruttoria su quest’ultima domanda, onde accertare l’entità del danno sofferto dagli attori, che avrebbe potuto essere risarcito mediante corresponsione di un’indennità per occupazione senza titolo.

Sebbene risulti che i convenuti, come detto, non avessero svolto alcuna domanda riconvenzionale od eccezione di compensazione per opporre al credito degli attori per questa indennità il loro (eventuale) controcredito per i miglioramenti apportati all’immobile, tuttavia il Tribunale ha finito per tenere conto di questi ultimi.

La decisione si evince dal passaggio della motivazione della sentenza n. 2047/07, riportato in ricorso (cfr. pag. 3, ma anche pagg. 18-19 e pag. 22), nel quale, dopo aver dato atto dell’esistenza dei miglioramenti e della “presumibile” loro esecuzione da parte degli occupanti l’immobile, il Tribunale di Velletri ha così statuito: “In ragione, pertanto, del significativo aumento di valore del bene, senz’altro superiore alla somma entro cui era contenuta la pretesa risarcitoria, alcun pregiudizio per l’occupazione hanno subito gli attori i quali, al contrario, si giovano dell’aumento di valore del bene in percentuale cospicua”; ha perciò rigettato la domanda risarcitoria accessoria alla domanda di rivendicazione (quest’ultima, invece, accolta con condanna dei convenuti al rilascio immediato dell’immobile in favore degli attori).

Di questa decisione, peraltro, ha dato conto anche la Corte d’Appello nella sentenza qui impugnata, laddove bene ha inteso la ratio decidendi quando ha riscontrato che l’aumento di valore dell’immobile per i miglioramenti apportati dai P.- L. è stato “giudicato superiore alla somma entro cui era contenuta la pretesa risarcitoria, sicchè nessun pregiudizio poteva essere derivato dalla occupazione del bene da parte di P.A. e L. A., giovandosi anzi S.C. e U.C. dell’aumento di valore”.

4.2.- Tuttavia, la Corte d’Appello ha errato sull’estensione e sulla portata del giudicato corrispondente.

Ed invero, tenuto conto dei principi sopra riportati relativi all’interpretazione da darsi all’art. 2909 c.c., si deve escludere che il giudicato copra la questione su(lla indennità per)i miglioramenti, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il tema delle migliorie non ha “costituito diretto e specifico oggetto di giudizio della decisione posta in esecuzione”. Non essendovi stata domanda riconvenzionale, e nemmeno eccezione, avente ad oggetto i miglioramenti, la portata del giudicato è limitata ad un’applicazione del principio di compensatio lucri cum damno, effettuata da quel giudice per decidere sulla domanda risarcitoria degli attori.

Ed invero, poichè l’indagine di fatto in quel giudizio è stata limitata ad accertare se i danneggiati avessero conseguito un vantaggio in conseguenza dell’illecito, del quale tener conto ai fini della liquidazione dei danni risarcibili, e non mirava, invece, a verificare l’esistenza di contrapposti crediti, la relativa deduzione non avrebbe dovuto costituire nemmeno materia di eccezione in senso stretto (cfr. Cass. n. 992/14, nel senso che tale non è la deduzione di compensatio lucri cum damno). Pertanto, è accaduto che il giudice ne abbia tenuto conto al solo fine di operare la compensazione tra vantaggi per miglioramenti e danni per occupazione.

Peraltro, va sottolineato che, contrariamente a quanto si assume in ricorso, questa compensazione non presuppone affatto (nemmeno implicitamente, quale presupposto indefettibile della decisione sui danni) l’affermazione del diritto all’indennità per miglioramenti in capo ai signori P. e L., in quanto questo diritto sussisterebbe soltanto se vi fossero le condizioni previste dall’art. 1150 c.c. (su cui infra) – verifica che non è stata affatto compiuta in quel giudizio. Piuttosto, il giudice si è limitato a constatare l’aumento del valore del bene in percentuale cospicua, comportante un vantaggio in capo ai proprietari, che ha comportato una riduzione del danno sofferto per la privazione del godimento del bene.

Il giudicato si è formato soltanto sulla mancanza di danni risarcibili quindi sul rigetto della domanda risarcitoria; non si è formato nè sulla esistenza dei presupposti per riconoscere l’indennità per miglioramenti ai sensi dell’art. 1150 c.c. nè, a maggior ragione, sull’entità di quest’ultima.

In conclusione, rigettati i primi due motivi di ricorso, va accolto il terzo e la sentenza impugnata va cassata quanto alla statuizione dell’esistenza di un giudicato sul “tema delle migliorie”.

5.- Peraltro, proprio perchè la domanda di indennità per miglioramenti non è stata avanzata, nemmeno in via riconvenzionale e nemmeno in via di eccezione (di compensazione), nel giudizio di rivendicazione, manca uno dei presupposti richiesti dall’art. 1152 c.c. perchè si possa riconoscere il diritto di ritenzione in capo agli opponenti all’esecuzione per rilascio.

Infatti, a differenza che per altre fattispecie previste dall’ordinamento che consentono che il diritto di ritenzione sia fatto valere sia in sede di cognizione che, in alternativa, in sede di opposizione all’esecuzione per rilascio, con opzione lasciata alla discrezionalità del titolare del diritto (come è per il diritto di ritenzione per i miglioramenti al fondo di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 20: cfr. Cass. n. 9267/10 e n. 10452/11), l’art. 1152 c.c. impone che, per il riconoscimento del diritto di ritenzione in favore del possessore di buona fede, “le indennità dovute” ai sensi dell’art. 1150 c.c. “siano state domandate nel corso del giudizio di rivendicazione”. Appunto, come detto, questo presupposto non si è verificato nel caso di specie, essendo a fondamento delle ragioni degli odierni ricorrenti proprio il dato processuale -sopra confermato- che l’indennità per miglioramenti non è stata chiesta nel giudizio di rivendicazione concluso con la sentenza n. 2047/07, nè in via di azione nè in via di eccezione.

Va, in proposito, affermato che il diritto di ritenzione, spettante al possessore di buona fede a garanzia del credito per i miglioramenti apportati all’immobile, previsto dall’art. 1152 c.c., è in astratto idoneo a giustificare una opposizione del medesimo, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avverso l’esecuzione per rilascio promossa in suo danno, solo quando la domanda per l’indennità per i miglioramenti sia stata avanzata nel corso del giudizio di rivendicazione.

5.1.- Pertanto, nel caso di specie, la condanna al rilascio dell’immobile ben può essere eseguita in forza della sentenza del Tribunale di Velletri n. 2047 del 20 settembre 2007, in quanto l’opposizione all’esecuzione è basata esclusivamente sul diritto di ritenzione per miglioramenti, senza che questo diritto abbia formato oggetto del giudizio di cognizione conclusosi con l’accoglimento della domanda di rivendicazione.

Dati i principi enunciati, poichè non sono necessari ulteriori accertamenti in punto di fatto, questa Corte può decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Va perciò rigettata l’opposizione all’esecuzione avverso il precetto ed il preavviso di rilascio proposta dagli odierni ricorrenti con ricorso in opposizione del 28 luglio 2011.

6.- Risulta però dagli atti che gli opponenti, oltre ad opporre il diritto di ritenzione, proposero, in primo grado, anche la domanda di “condannare gli opposti al pagamento, in favore dei ricorrenti, della indennità commisurata alle riparazioni, ai miglioramenti, ed alle addizioni apportate all’immobile in questione nel corso del tempo in cui lo avevano posseduto in buona fede”.

Si tratta di una domanda esplicita di determinazione dell’indennità e di condanna degli opposti al relativo pagamento aggiunta all’opposizione all’esecuzione come domanda cumulata sin dal primo grado di giudizio e perciò ammissibile (arg. a contrario da Cass. n. 8775/03).

Su questa domanda il primo giudice si pronunciò liquidando la somma di Euro 529.025,14, oltre accessori, e condannando i convenuti opposti, in solido, al relativo pagamento in favore degli attori opponenti; il secondo giudice ha ritenuto assorbiti i motivi di appello concernenti la condanna degli appellanti, in ragione dell’integrale riforma della sentenza di primo grado per preesistente giudicato.

Venuta meno siffatta statuizione a seguito dell’accoglimento del terzo motivo del presente ricorso, la causa va rimessa alla Corte d’Appello di Roma perchè provveda nel merito della domanda dei ricorrenti P.- L. di condanna delle controparti U.- S..

In particolare, spetterà al giudice del rinvio qualificare detta domanda, ascrivendola alla fattispecie dell’art. 1150 c.c.ovvero ad altra diversa fattispecie (cui sembra accennare il ricorso laddove, nell’illustrazione del terzo motivo, richiama presupposti dell’azione di arricchimento senza causa). Spetterà allo stesso giudice procedere altresì alla ricostruzione dei fatti.

Ove riconosca proposta una domanda ai sensi dell’art. 1150 c.c., dovrà il giudice del rinvio verificare se, in concreto, ne sussistano i presupposti (in primo luogo, la configurabilità in capo ai P.- L. della qualità di possessori richiesta dall’art. 1150 c.c., come da questa Corte interpretato, in particolare da Cass. n. 17245/10, secondo cui “La norma dell’art. 1150 c.c., che attribuisce al possessore, all’atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all’indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa, è di natura eccezionale e non può, dunque, essere applicata in via analogica al detentore; ne consegue che, qualora nella promessa di vendita venga concordata la consegna del bene prima della stipulazione del contratto definitivo, la relazione del promissario acquirente con il bene si definisce in termini di detenzione qualificata, sicchè l’art. 1150 c.c. non si applica a tale ipotesi”; cfr. nello stesso senso, anche Cass. n. 6489/11, n. 13316/15) e dovrà altresì verificare se ed in quali termini la sussistenza di questi presupposti -così come affermata dal Tribunale-

sia stata fatta oggetto di gravame da parte degli U.-

S..

Ove, invece, qualifichi diversamente la domanda, dovrà procedere ai consequenziali accertamenti in fatto, tenendo conto dei motivi di gravame e delle deduzioni, eccezioni e difese di appellanti ed appellati.

Avuto riguardo all’esito complessivo della lite, il giudice del rinvio dovrà provvedere al regolamento delle spese dei diversi gradi di merito e del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso ed accoglie il terzo;

cassa la sentenza impugnata; decidendo nel merito, rigetta l’opposizione all’esecuzione proposta da P.A. e L.A. con ricorso depositato il 28 luglio 2011 dinanzi al Tribunale di Velletri – sezione distaccata di Anzio;

rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, per la decisione sulla domanda avanzata con lo stesso ricorso, specificata in motivazione, e sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2016

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