Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12406 del 11/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/05/2021, (ud. 08/02/2021, dep. 11/05/2021), n.12406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3634 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

C.R.L., rappresentato e difeso, per procura speciale a

margine del ricorso, dall’Avv. Maurizio Villani, presso il cui

studio in Lecce, via Cavour, n. 56, è elettivamente domiciliato in

Roma, p.zza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, n. 1831/23/2014,

depositata in data 18 settembre 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 8

febbraio 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a C.R.L. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2004, a seguito di indagine finanziaria eseguita sui conti correnti bancari, postali e libretti di risparmio del ricorrente e dei suoi familiari, aveva contestato un maggior reddito di lavoro autonomo non dichiarato; avverso l’atto impositivo il contribuente aveva proposto ricorso che era stato parzialmente accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Lecce; avverso la decisione del giudice di primo grado la società aveva proposto appello principale e l’Agenzia delle entrate appello incidentale;

la Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale, in particolare ha ritenuto, per quanto di interesse, che: correttamente i giudici di primo grado avevano ritenuto che il contribuente avesse fornito sufficienti elementi giustificativi del versamento, nel proprio conto corrente bancario, della somma di Euro 30.000,00, eseguito dalla moglie, mentre non era stata data sufficiente prova giustificativa della provenienza dell’ulteriore versamento di Euro 90.000,00 eseguito dalla suocera, nonchè di Euro 115.000,00, eseguito da un terzo, P.E., non potendosi ritenere che la dichiarazione sostitutive di atto di notorietà dagli stessi rilasciate potessero consentire di superare la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, punto 2); a siffatta carenza documentale non poteva provvedere il giudice tributario attivando i propri poteri istruttori d’ufficio; era, infine, infondata l’eccezione del contribuente di irretroattività della modifiche introdotte dalla L. n. 311 del 2004 al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), nei confronti dei liberi professionisti;

il contribuente ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 112, c.p.c. in quanto il giudice del gravame non ha accolto, senza alcuna motivazione, la richiesta del contribuente di convocare ed ascoltare in giudizio la persona che aveva rilasciato la dichiarazione sostitutiva di notorietà; il motivo è inammissibile;

va osservato, in primo luogo, che parte ricorrente non ha in alcun modo contestato la statuizione del giudice del gravame con la quale ha ritenuto non idonea a superare la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, punto 2), la dichiarazione resa dal terzo, e prodotta in giudizio dal ricorrente;

sul punto, il giudice del gravame ha ritenuto che, se, da un lato, le dichiarazioni di terzi possono essere introdotte nel processo tributario mediante dichiarazione con valore di prova presuntiva semplice, d’altro lato, con riferimento al caso di specie, le stesse non potevano essere ritenute idonee a superare la presunzione di cui all’art. 32, cit., in quanto “non accompagnate da ulteriori elementi significativi capaci di farle assurgere al rango di presunzioni semplici”, cioè prive di ulteriori riscontri, anche tenuto conto del fatto che non era stato fornito alcun elemento di tracciabilità e, inoltre, del fatto che non era verosimile che si potesse dar luogo a un prestito meramente fiduciario di Euro 115.000,00 in assoluto difetto di atto negoziale scritto a garanzia di eventuale inadempimento nella restituzione;

il giudice del gravame, in ogni caso, ha motivato sulle ragioni per le quali ha ritenuto di non potere attivare, come richiesto dal contribuente, il potere istruttorio di richiesta di informazioni;

rispetto a tale valutazione del giudice del gravame del valore di prova presuntiva della dichiarazione del terzo introdotta nel giudizio, nonchè della insussistenza dei presupposti per l’attivazione del potere istruttorio d’ufficio, parte ricorrente si limita a contestare il mancato accoglimento e l’omessa motivazione sulle ragioni per cui si è ritenuto di non dovere accogliere la richiesta di convocazione dei medesimi dichiaranti al fine di acquisire ulteriori chiarimenti e informazioni;

la suddetta prospettazione, dunque, non tiene conto della ratio decidendi della pronuncia del giudice del gravame, che ha escluso ogni rilevanza probatoria alla dichiarazione del terzo, eliminando in radice ogni profilo di incertezza sul contenuto della dichiarazione;

a sostegno del motivo di ricorso in esame parte ricorrente evidenzia che il giudice del gravame avrebbe dovuto attivare il potere istruttorio di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 in particolare esercitare il potere di richiesta di informazioni, consistente nell’audizione dei dichiaranti, da attivare nel caso in cui la situazione probatoria è tale da non potere essere pronunciata una sentenza ragionevolmente motivata senza l’acquisizione di prove d’ufficio;

sul punto, va in primo luogo precisato che l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), qualora la sentenza di merito non adduca un’adeguata spiegazione dell’esercizio (o mancato esercizio) di tale potere;

d’altro lato, si è più volte precisato che in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che attribuisce al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, dev’essere interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori: tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza, al fine d’integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti, e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia e che la previsione normativa in esame ha natura eccezionale, precludendo al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo (Cass. civ., 24 febbraio 2020, n. 4762);

in questo ambito, peraltro, la richiesta di audizione del soggetto che ha svolte le dichiarazioni in sede di atto notorio confligge con la specifica previsione contenute nel medesimo art. 7, cit., secondo cui nel processo tributario non è ammessa la prova testimoniale;

sicchè, non solo la richiesta di informazioni non deve essere esercitata quando il giudice tributario, come nel caso di specie, ha ritenuto che diverse circostanze, specificamente indicate nel percorso motivazionale seguito, contrastavano con l’attendibilità delle dichiarazioni dei terzi, ma la stessa non può comunque consistere nell’audizione in giudizio dei dichiaranti, stante il limite contenuto nella previsione di cui all’art. 7, cit., del divieto di prova testimoniale nel processo tributario;

va quindi chiarito che, in generale, il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo, che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio, e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da “terzi”, e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente – parte e l’Erario. Tali informazioni testimoniali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, e devono pertanto essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi come chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 2000 (Cass. civ., 25 gennaio 2002, n. 903);

inoltre va ribadito che, nel processo tributario, è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, – fermo il divieto di ammissione della “prova testimoniale”, con il valore probatorio “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione” (Cass. civ., 25 marzo 2002, n. 4269); secondo la stessa giurisprudenza va, del pari, necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – beninteso, con il medesimo valore probatorio, dando così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonchè l’effettività del diritto di difesa;

se, dunque, da un lato, è vero che è consentito nel processo tributario, ad entrambe le parti, di introdurre in giudizio anche dichiarazioni rese da un terzo, con valore di prova indiziaria, per le quali è quindi necessario la valutazione di idoneità probatoria, d’altro lato, ciò non può comportare il superamento del limite del divieto della prova testimoniale, non essendo consentito nè alle parti, nè al giudice (attivando i propri poteri ufficiosi), di introdurre una prova orale, procedendo all’assunzione della prova nel giudizio;

il motivo di ricorso in esame, dunque, è inammissibile in quanto, da un lato, prospetta una violazione dell’art. 112, c.p.c., in ordine al mancato accoglimento della istanza di attivazione di poteri ufficiosi, cui peraltro il giudice del gravame ha dato risposta nel percorso motivazionale seguito, e, dall’altro, prospetta una violazione di legge in contrasto con il divieto di assunzione della prova testimoniale del processo tributario;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), come modificato dalla L. n. 311 del 2004, in quanto in contrasto con la pronuncia della Corte costituzionale n. 298/2014;

il motivo è infondato;

la pronuncia del giudice del gravame, nella parte sfavorevole al contribuente, ha ritenuto non giustificati i versamenti compiuti sul conto corrente bancario intestato al medesimo dalla suocera e da un terzo;

il riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale è, dunque, inconferente alla fattispecie;

invero, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 228/2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), limitatamente alle parole “o compensi”;

in particolare, con la suddetta pronuncia si è ritenuto lesiva degli artt. 3 e 53, Cost., la presunzione di maggiori compensi desumibile dai prelevamenti effettuati dai titolari di reddito di lavoro autonomo, sicchè le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento hanno efficacia presuntiva di maggiore disponibilità reddituale nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che “ne hanno tenuto conto ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”; (Cass., civ., 2 ottobre 2013, n. 22514; Cass. civ., 20 gennaio 2017, n. 1519; Cass. civ., 16 novembre 2018, n. 29572);

dunque, la pronuncia della Corte costituzionale ha avuto riguardo unicamente alla presunzione di maggiori compensi in relazione ai prelevamenti compiuti dai lavoratori autonomi, non potendosi ritenere che per gli stessi possa valere, sul piano della ragionevolezza, che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati;

il che, tuttavia, non ha comportato che anche per i lavoratori autonomi non valga la presunzione di maggiore disponibilità di reddito in relazione ai versamenti sui conti bancari, fattispecie che attiene alla ragione del recupero presa in considerazione dal giudice del gravame;

con il terzo motivo di ricorso si prospetta la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 per contrasto con l’art. 24, Cost., in quanto, non consentendo l’assunzione della prova testimoniale nel processo tributario, limiterebbe il diritto di difesa del contribuente;

la questione, prospettata come motivo di ricorso, è comunque infondata;

la Corte costituzionale (Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18) ha escluso che la limitazione probatoria nel processo tributario di cui all’art. 7, comma 4, cit., violi l’art. 24 Cost.;

con la suddetta pronuncia la Corte ha, invero, precisato di avere “ripetutamente affermato che l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce, di per sè, violazione del diritto di difesa, potendo quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti (sent. n. 128 del 1972; ord. n. 6 del 1991, ord. n. 76 del 1989 e ord. n. 506 del 1987);

la asserita impossibilità della parte di fornire “aliunde”, nel giudizio in corso, la prova di una specifica circostanza di fatto, quand’anche esistente, non potrebbe di per sè ascriversi a vizio di legittimità costituzionale della norma, essendo conseguenza necessitata della scelta discrezionale del legislatore riguardo all’ammissibilità ed ai limiti dei singoli mezzi di prova. Scelta del resto presente anche nel processo civile, in relazione a determinati fatti o rapporti la cui prova può essere fornita solamente per iscritto (si vedano ad esempio, “ex multis”, gli artt. 1659,1846,1888 e 1919 c.c.)”;

va altresì aggiunto, per completezza, che le ulteriori questioni fatte valere in memoria dal ricorrente, relative all’intervento della Corte costituzionale con la pronuncia n. 228/2014, sono del tutto inconferenti, in quanto non riferibili ad alcuno dei motivi di ricorso prospettati ed alle ragioni della decisione, nonchè privi di rilevanza; con riferimento, in particolare, al profilo di cui al punto A) della memoria, relativo alla esclusione degli accertamenti bancari in relazione ai prelievi, va osservato che la pronuncia censurata ha avuto riguardo unicamente alla questione dei versamenti, in particolare al mancato riconoscimento dell’importo di Euro 100.000,00 versato dal coniuge del ricorrente;

con riferimento al profilo di cui al punto B) della memoria, lo stesso è relativo agli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 228/2014 di illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, nonchè della nuova formulazione dell’art. 32, cit., per effetto dell’intervento legislativo di adeguamento alla pronuncia della Corte costituzionale, in quanto sia la pronuncia che l’intervento normativo avrebbero inteso eliminare le presunzioni legali sia ai prelevamenti che ai versamenti del professionista e del lavoratore autonomo;

parte ricorrente, inoltre, ha evidenziato che vi sarebbe un contrasto di giurisprudenza di questa Corte sul punto ed ha chiesto la rimessione della questione alle Sezioni unite o, in subordine, la rimessione della questione alla Corte costituzionale ai fini di esplicitare una interpretazione autentica del nuovo art. 32, cit.;

va quindi osservato che la lettura interpretativa data dal ricorrente sia alla pronuncia della Corte costituzionale che all’intervento normativo sull’art. 32, cit., non è corretta;

va evidenziato, in primo luogo, che la Corte costituzionale n. 228/2014, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della presunzione posta dall’ultima parte dell’art. 32, comma 1, n. 2 e dell’inversione dell’onere probatorio che ne discende, ha rilevato la contrarietà della medesima al principio di ragionevolezza e di capacità contributiva, ritenendo “arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, dichiarando, quindi, l’illegittimità costituzionale della sopra riportata disposizione “limitatamente alle parole “o compensi”;

è vero che nella citata sentenza del Giudice delle leggi sembrerebbe essere rinvenibile una discrasia tra motivazione e dispositivo, nella prima avendo fatto chiaramente riferimento ai soli prelevamenti dai conti bancari e nella seconda, invece, avendo sancito in maniera perentoria l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), “limitatamente alle parole “o compensi””, che nell’architettura della citata disposizione è posta con riferimento ai prelevamenti, ma anche agli “importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”, che potrebbero far pensare ai versamenti; in relazione, dunque, alla corretta interpretazione della statuizione della Corte costituzionale, ancorchè alcune pronunce di questa Corte, come evidenziato dal ricorrente (Cass. civ., n. 23041/2015; n. 16440, n. 12779 e n. 12781/2016; Cass. civ., n. 24862, n. 19970/2016) abbiano, più o meno esplicitamente, interpretato in tal modo il citato pronunciamento del Giudice delle leggi e, quindi, ritenuto essere venuta meno la presunzione di imputazione ai “compensi” dei lavoratori autonomi o dei professionisti intellettuali sia dei prelevamenti che dei versamenti operati sui conti bancari, l’orientamento di questa Corte successivo si è invece assestato su di un diverso orientamento, che questo Collegio ritiene di dovere seguire, secondo cui “In tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicchè questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti” (Cass. civ., n. 16697/2016; Cass. civ., n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 11776, n. 6093 del 2016; Cass. civ., n. 23575/2015; nonchè, più recentemente, Cass. civ., n. 19806/2017; Cass. civ., n. 5152 e n. 5153 del 2017; Cass. civ., n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016; Cass. civ., n. 18126, n. 18125, n. 16929, n. 13470, n. 12021 del 2015; Cass. civ., n. 18801/2017; Cass. civ., n. 7951/2018; Cass. civ., 22931/2018);

come precisato, in particolare, da questa Corte (Cass. civ., 26 settembre 2018, n. 22931) la maggior coerenza di tale orientamento con la sentenza della Corte costituzionale discende dalla considerazione che la sopra rilevata discrasia tra motivazione e dispositivo della stessa non si traduce in un vero e proprio contrasto tra le due parti della pronuncia, il che comporta che la sua portata precettiva debba essere individuata integrando il dispositivo con la motivazione (arg. da Cass., sez. lav., n. 12841 del 2016). Ed in questa è chiaramente desumibile, anche alla stregua della questione di costituzionalità sollevata dal giudice remittente, che la Corte costituzionale ha inteso escludere l’operatività della presunzione legale basata sugli accertamenti bancari, nei confronti dei lavoratori autonomi, solo ed esclusivamente ai prelevamenti. E lo si ricava dalle argomentazioni svolte dal Giudice delle leggi nel corpo motivazionale della pronuncia (punti 4, 4.1 e 4.2) e dalla conclusione tratta al punto 5, ove si afferma che “Pertanto nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonchè della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, nessun accenno venendo fatto in tali sviluppi argomentativi ai versamenti in conto”;

la suddetta linea interpretativa si riflette anche ai fini della valutazione della ratio dell’intervento normativo successivamente operato sul testo dell’art. 32, cit., posto che si è trattato di una previsione normativa di adeguamento alla pronuncia della Corte costituzionale;

sicchè il consolidato successivo orientamento di questa Corte nonchè la considerazione della ragione di fondo della pronuncia della Corte costituzionale, elimina ogni necessità di rimessione della questione alle Sezioni unite ovvero, come chiesto dal ricorrente, di prospettare una questione di illegittimità costituzionale sul nuovo testo dell’art. 32, cit.;

in conclusione, i motivi sono infondati, con conseguente rigetto del ricorso e condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite; si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente che si liquidano in complessive Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2021

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