Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12394 del 07/06/2011

Cassazione civile sez. trib., 07/06/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 07/06/2011), n.12394

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 25122/2008 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI

47, presso lo studio dell’avvocato CORTI Pio, che lo rappresenta e

difende, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 102/2007 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di MILANO del 25/09/07, depositata il 18/01/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/03/2011 dal Consigliere Relatore Dott. CAMILLA DI IASI;

è presente il P.G. in persona del Dott. CARLO DESTRO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. F.G. propone ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale – in controversia concernente impugnazione del silenzio rifiuto su istanza di rimborso di somme versate a titolo di definizione di p.v.c. redatto per l’anno di imposta 1998 – la C.T.R. Lombardia confermava la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso del contribuente.

2. Col primo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla implicita richiesta di rettifica di un errore materiale contenuto nella sentenza di primo grado con riguardo all’ammontare della somma versata a titolo di definizione del p.v.c.. La censura, anche prescindendo dalla inadeguata formulazione del relativo quesito di diritto, presenta numerosi profili di inammissibilità.

Infatti, se pure è vero che, secondo la più recente giurisprudenza di questo giudice di legittimità, nell’ipotesi in cui la sentenza contro la quale è stato proposto gravame contenga un errore materiale, l’istanza di correzione dello stesso, non essendo rivolta ad una vera e propria riforma della decisione, non deve necessariamente formare oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, neppure in via incidentale, ma può essere proposta in qualsiasi forma, ed essere anche implicita nel complesso delle deduzioni difensive svolte in appello (v. Cass. n. 7706 del 2003), è anche vero che, anche senza alcun obbligo di forma, il ricorrente deve pur sempre evidenziare la sussistenza di un errore suscettibile di correzione, ossia un errore materiale commesso dal giudice ed emergente dallo stesso contesto dell’atto da correggere (v. tra le altre, in termini, Cass. n. 3347 del 1968, secondo la quale il procedimento di correzione, previsto dall’art. 287 c.p.c., e segg., riguarda soltanto gli errori materiali in cui sia incorso il giudice – anche se le parti vi abbiano dato in qualche modo occasione – e la cui individuazione, nonchè il modo di correggerli, siano chiaramente deducibili dal contesto del provvedimento sottoposto a rettificazione), laddove lo stesso ricorrente, nel motivo in esame, precisa che l’implicita richiesta di correzione di errore materiale avrebbe dovuto riscontrarsi nella parte dell’atto d’appello in cui egli chiariva di avere provveduto al versamento della somma di Euro 29.559,90 per la definizione del p.v.c, somma peraltro erroneamente indicata in ricorso (in difformità dalla documentazione allegata) in soli Euro 9.556,90 e nella parte in cui precisava che il giudice di primo grado era chiamato a decidere “se fosse lecito chiedere il rimborso di Euro 29.556,90 corrispondente al previo versamento”.

L’errore materiale evidenziato nell’atto d’appello era dunque un errore proprio del ricorso: l’avere il giudice riportato nella parte narrativa della sentenza esattamente la somma richiesta in ricorso non sarebbe in sè un errore, e in ogni caso non un errore deducibile dal contesto del provvedimento.

Il secondo motivo di ricorso (col quale si deduce violazione di legge) è inammissibile innanzitutto per inadeguatezza del quesito di diritto ad adempiere alla propria funzione, che è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, quale sia l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare: nella specie il quesito è generico, privo di ogni riferimento alla fattispecie sub iudice ed inidoneo ad evidenziare la rilevanza della risposta al quesito ai fini della decisione della controversia (v. tra le altre Cass. n. 7197 del 2009 e 8563 del 2009 nonchè SU n. 7257 del 2007 e SU n. 7433 del 2009.

Il terzo motivo di ricorso col quale, deducendo “violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, per vizio di motivazione circa fatti controversi e decisivi della controversia in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5”, il ricorrente rileva che nella sentenza impugnata vengono riportati i fatti e le questioni su cui si articola la sentenza di primo grado, e diffusamente le controdeduzioni dell’Ufficio ai motivi di appello, ma uno solo dei tre motivi di appello e nessuna motivazione specifica del rigetto dei suddetti, essendosi i giudici della C.T.R. limitati ad affermare che i motivi di impugnazione proposti erano infondati mentre erano condivisibili e adeguate le ragioni poste a fondamento della sentenza appellata, è inammissibile.

Invero, nonostante il richiamo al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, il ricorrente propone esclusivamente una censura per vizio di motivazione e detta censura risulta carente in relazione alla previsione di cui all’art. 366 bis c.p.c., comma 2, a norma del quale è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. Cass. n. 8897 del 2008).

Peraltro, ove anche si ritenesse che, al di là della denuncia del solo vizio di motivazione e della giurisprudenza in tema di specificità dei motivi di ricorso per cassazione con riferimento ai vizi legalmente previsti (v. tra le altre cass. n. 20652 del 2009), si sia inteso denunciare la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione ovvero l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, oltre a mancare la denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, mancherebbero altresì i corrispondenti quesiti di diritto.

Il quarto motivo di ricorso (col quale si deduce “violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla denunciata falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 15, nonchè violazione dell’art. 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”) è inammissibile, quanto alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancata denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 e per mancata formulazione del relativo quesito di diritto (v. tra le altre Cass. n. 12952 del 2007). Peraltro, il quesito di diritto proposto in relazione alla denunciata violazione di norma sostanziale si rivela inadeguato perchè, come il quesito relativo al precedente secondo motivo, non è idoneo, per la sua astrattezza, a far comprendere alla Corte di legittimità, attraverso la lettura del solo quesito, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e la regola che, secondo il ricorrente, dovrebbe essere applicata.

Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.200,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2011

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