Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1238 del 21/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/01/2020, (ud. 18/09/2019, dep. 21/01/2020), n.1238

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18068/2015 R.G. proposto da:

A.G.M., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’Avv.

Gualtieri Cremisini, elettivamente domiciliati in Roma, presso il

suo studio, Via Domenico Millelire, giusta procura speciale in calce

al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia n. 635/2015, depositata il 24-2-2015.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18 settembre

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. A.G.M., + ALTRI OMESSI, impugnavano il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle entrate relativo all’istanza di rimborso della somma di Euro 4.484.110,00 presentata il 19-3-2010, relativamente a versamenti di imposta effettuati in eccesso per la tassazione della plusvalenza da stock option, erroneamente determinata. Infatti, la Valvitalia s.p.a., quale sostituto di imposta, in data 16-1-2008 ed in data 8-2-2008 aveva effettuato versamenti complessivi di imposta di Euro 6.321.860,00 per la tassazione della plusvalenza con l’aliquota progressiva Irpef, anzichè con l’imposta sostitutiva del 12,5 sul capita gain (Euro 1.837.750,00). Per i ricorrenti non poteva essere applicato il D.L. 25-6-2008, n. 112, che aveva regolamentato nuovamente il regime dei piani di stock option, abolendo l’agevolazione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g-bis, ma solo a decorrere dalla sua entrata in vigore, quindi dal 25-6-2008. I piani di stock option, invece, erano stati deliberati l’1-12-2003 ed il 30-6-2006, a seguito di aumenti di capitale, anche se l’esercizio del diritto di opzione era avvenuto il 21-12-2007. Doveva, quindi, essere applicativa la normativa anteriore al D.L. n. 223 del 2006.

2. La Commissione tributaria provinciale di Pavia accoglieva il ricorso e condannava l’Amministrazione alla restituzione della somma di Euro 4.439.260,90, precisando che l’abrogazione di cui al s.l. 112/2008 si applicava in relazione alle azioni assegnate ai dipendenti a decorrere dalla data di entrata in vigore della novella, quindi dal 25-6-2008, mentre si applicava la normativa precedente alle azioni già assegnate a tale data ed in particolare quella anteriore al D.L. 223/2006, che non subordinava l’applicazione della normativa ad alcuna condizione.

3. L’Agenzia delle entrate proponeva appello “ribadendo tutti i motivi esposti innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pavia” (cfr. pag. 8 ricorso per cassazione).

4. La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate, rilevando che il momento impositivo si era verificato quando i dipendenti avevano esercitato il diritto di opzione il 21-122007, che gli stessi avevano contestualmente ceduto le azioni ricevute. Pertanto era applicabile la normativa (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, lett. g-bis) vigente al dicembre 2007, purchè sussistessero congiuntamente le ulteriori tre condizioni di cui al D.L. N. 262 del 2006, in vigore dal 3-10-2006, convertito in L. n. 286 del 2006, dal 29-11-2006 (a. opzione da esercitare non prima della scadenza di tre anni dalla sua attribuzione; b. la società doveva essere quotata in mercati regolamentari; c. il beneficiario doveva mantenere per almeno i cinque anni successivo all’esercizio dell’opzione un investimento in titoli oggetto di opzione non inferiore alla differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente).Tali condizioni non erano sussistenti al momento dell’esercizio del diritto di opzione. La sentenza di primo grado, invece, aveva accolto il ricorso per l’assenza della plusvalenza in quanto il valore delle azioni al momento dell’assegnazione era rimasto identico al valore delle azioni al momento dell’offerta. Il giudice di appello, poi, aggiungeva che i dipendenti avevano ricevuto le azioni a titolo gratuito, sicchè la somma ricevuta a titolo di corrispettivo all’atto della cessione delle azioni non era qualificabile come capital gains, rendendo inapplicabile l’imposta sostitutiva del 12,5 /0. L’esclusione dal reddito da lavoro dipendente della stock option non si applicava nel caso in cui l’assegnazione di azioni rappresentava un benefit per il dipendente che ottenesse le azioni a titolo gratuito ed a spese della società.

5.Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione i contribuenti, depositando anche memoria scritta.

6.L’Agenzia delle entrate non ha svolto attività difensiva ed ha presentato atto di costituzione al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza pubblica.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione i contribuenti deducono “violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, sentenza priva di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto la sentenza del giudice di appello è nulla, non avendo fornito risposta alla richiesta, contenuta nella costituzione del giudizio di secondo grado, di inammissibilità dell’appello proposto dalla Agenzia delle entrate per difetto di specificità ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 53.

1.1. Con il secondo motivo (rubricato sub 1 bis a pagina 12 del ricorso per cassazione) i contribuenti deducono “violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 comma 1 e art. 59, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto l’Agenzia delle entrate, con l’appello, non ha tenuto conto in alcun modo della motivazione della sentenza di primo grado, limitandosi a ribadire le proprie difese di primo grado.

2. Tali motivi, che vanno esaminati congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, sono infondati.

Invero, per questa Corte, a sezioni unite, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. Civ., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2731).

Nella specie, risulta dal testo della sentenza impugnata (pagg. 2, 3 e 4) che sono stati proposti motivi di appello specifici e dettagliati.

Peraltro, per questa Corte, nel processo tributario, anche nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire ed a riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato già dedotte in primo grado, deve ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica richiesto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, che costituisce norma speciale rispetto all’art. 342 c.p.c. (Cass., 24641/2018).

3. Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato sub 2 a pagina 13 del ricorso per cassazione), i ricorrenti lamentano la “violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la motivazione del giudice di appello ha reso impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo. Tale decisione sarebbe sostenuta da “scarni frasi motivazionali”, tra l’altro “totalmente inconferenti”. In particolare, la Commissione regionale ha basato la sua decisione su una erronea “caratterizzazione delle azioni assegnate ai dipendenti a titolo gratuito”.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, il giudice di appello ha ritenuto che la normativa applicabile era quella vigente alla data dell’esercizio del diritto di opzione, quindi comprensiva delle tre condizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, lett., comma 2, lett. g bis, dopo le modifiche apportate dal D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006. Tali condizioni sono state ritenute insussistenti. Il giudice di appello, poi, ha aggiunto, ad abundantiam, una diversa ratio decidendi, evidenziando che l’art. 51, comma 2, lett. g-bis, non poteva trovare, comunque, applicazione, in quanto i dipendenti avevano ricevuto le azioni a titolo gratuito, con la conseguenza che il trattamento fiscale della somma ricevuta come corrispettivo all’atto della cessione non poteva ritenersi equiparabile ad una plusvalenza sottoposta al trattamento fiscale di favore del 12,5% sul capital gains, trattandosi di un benefit per il dipendente.

4. Con il quarto motivo di impugnazione (rubricato sub 3 a pagina 15 del ricorso per cassazione) i ricorrenti deducono “violazione, sotto altro profilo, dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, sentenza priva di motivazione o con motivazione solo apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per la violazione o falsa applicazione delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g bis, contenute nel testo previgente al D.L. n. 223 del 2006, nullità della sentenza o del procedimento per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione, circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, che è stato oggetto di trattazione”, in quanto il giudice di appello, pur menzionando la avvenuta produzione da parte dei contribuenti della circolare Inps, non ne ha però tenuto conto al fine della decisione della controversia. Inoltre, “oltre alla carenza di motivazione” (cfr. pagina 17 penultima riga), vi è stata violazione di legge, in quanto la Commissione regionale ha ritenuto inapplicabile il regime tributario del capital gains, con l’aliquota del 12,5 %, in quanto le azioni erano state assegnate ai dipendenti a titolo gratuito, quale mero benefit agli stessi.

4.1. Tale motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Invero, anzitutto, si rileva che il motivo è infondato quanto alla dedotta censura di inesistenza della motivazione. Infatti, il giudice di appello ha chiaramente indicato le ragioni poste a fondamento della sua decisione.

Il motivo è, invece, inammissibile in ordine alla censura di violazione di legge con riferimento ad una circolare che non ha natura normativa (Cass., 1644/2015).

Il motivo è inammissibile anche nella parte in cui deduce vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria dovendosi applicare alle sentenze depositate a decorrere dall’11-9-2012 l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dopo le modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012.

Il motivo è inammissibile anche per quanto attiene alla dedotta violazione di legge.

Infatti, la sentenza del giudice di secondo grado poggia su una doppia ratio decidendi. In primo luogo, si afferma che la normativa applicabile è quella vigente al momento di esercizio del diritto di opzione (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g bis, dopo il D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006. Subito dopo, si evidenzia che, poichè le azioni sono state assegnate ai dipendenti gratuitamente, non può, comunque, trovare applicazione il regime fiscale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g bis. In quest’ultima ipotesi (azioni ricevute a titolo gratuito) non sussiste il requisito di cui all’art. 51, comma 2, lett. g bis, perchè la “plusvalenza” (differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente) è esclusa dal reddito di lavoro dipendente a condizione che l’ammontare corrisposto dal dipendente sia almeno pari al valore delle azioni alla data della offerta, requisito evidentemente insussistente nel caso in cui il contribuente abbia ricevuto le azioni a titolo gratuito.

I ricorrenti, però, si sono limitati ad impugnare solo una delle due autonome rationes decidendi, ossia la seconda (relativa alla cessione gratuita delle azioni), mentre non hanno impugnato la prima ratio decidendi, fondata sulla assenza dei requisiti di cui all’art. 51, comma 2, lett. g bis, con la conseguente inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione.

Il motivo è, peraltro, infondato nel merito.

Invero, a seguito del D.L. n. 262 del 2006, entrato in vigore il 3-10-2006, la disciplina impositiva sulle stock options è stata profondamente modificata, con l’inserimento di ulteriori tre condizioni in aggiunta alle prime due.

La disciplina precedente, dunque, fondata sulla esenzione fiscale, era volta a stimolare i dipendenti al miglioramento dell’azienda, collegando, mediante le stock options, parte della retribuzione ad una componente variabile che si incrementava con la crescita di valore della azienda stessa, e trovando causa nel maggior impegno profuso dal dipendente, incentivato dalla prospettiva di maggiori guadagni (Cass., 18917/2018; Cass., 24 febbraio 2017, n. 4774).

Con le modifiche introdotte nel 2006, invece, le finalità perseguite dal legislatore sono mutate, identificandosi nella “fidelizzazione” del dipendente (Cass., 18917/2018).

L’art. 51, comma 2 bis, poi, stabilisce, nella versione all’epoca vigente, che “la disposizione di cui al comma 2, lett. g-bis, si rende applicabile esclusivamente quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a)che l’opzione sia esercitabile non prima che siano scaduti tre anni dalla sua attribuzione; b) che, al momento in cui l’opzione è esercitabile, la società risulti quotata in mercati regolamentati; c) che il beneficiario mantenga per almeno i cinque anni successivi all’esercizio dell’opzione un investimento nei titoli oggetto di opzione non inferiore alla differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente”.

Costituisce, però, principio consolidato di questa Corte, cui si intende aderire, quello per cui, in tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente, la disciplina di tassazione applicabile “ratione temporis” alle cosiddette “stock options” va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del dipendente, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato (Cass., 18917/2018; Cass. Civ., 12 aprile 2017, n. 9465; in termini analoghi Cass. Civ., 20 maggio 2011, n. 11214; Cass. Civ., 13088/2012; Cass. Civ., 11413/2015).

Nella specie il diritto di opzione, con l’acquisto delle azioni, è stato esercitato il 21-12-2007, quando era già in vigore il D.L. n. 262 del 2006.

Inoltre, in tal caso, l’applicazione del D.L. n. 262 del 2006 non determina una applicazione retroattiva della norma tributaria, poichè l’operazione alla quale consegue la tassazione non va individuata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio del diritto di opzione mediante l’acquisto delle azioni, e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato, il quale può esercitarlo o meno secondo le modalità ed i tempi che riterrà opportuni, alla stregua delle proprie insindacabili valutazioni (Cass.Civ., 12 aprile 2017, n. 9465).

Inoltre, si rileva che le disposizioni dello statuto del contribuente, che costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che esse non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, nè consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse (Cass.Civ., 6 settembre 2017, n. 20812).

Per questa Corte, quindi, in tema di efficacia nel tempo di norme tributarie, in base alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, (cosiddetto Statuto del contribuente), il quale ha codificato nella materia fiscale il principio generale di irretroattività delle leggi stabilito dall’art. 12 delle disp. gen., va esclusa l’applicazione retroattiva delle medesime salvo che questa sia espressamente prevista (Cass. Civ., 9 dicembre 2009, n. 25722).

Peraltro, si è anche osservato che deve escludersi, non solo che l’applicazione della disciplina in vigore dal 3 ottobre 2006 abbia violato il principio di non retroattività della norma tributaria, ma anche che il contribuente possa avere fatto affidamento sulla cristallizzazione di una disciplina agevolativa, in quanto non vi era certezza nell’incremento di valore delle azioni al momento della offerta del diritto di opzione (Cass., 19817/2018; vedi anche Corte Cost., n. 149 del 2017, per la quale il valore del legittimo affidamento non esclude che il legislatore possa adottate disposizioni che modifichino la disciplina dei rapporti giuridici, in senso sfavorevole agli interessati, purchè tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale).

Del resto, il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36 comma 25, convertito in L. n. 248 del 2006, laddove modifica il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51 comma 2 bis, si applica, ai sensi del comma 26 dell’art. 36 “alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Non si può, quindi, sostenere che il D.L. n. 262 del 2006, pur essendo entrato in vigore il 3 ottobre 2006, tuttavia ha acquisito concreta efficacia solo a partire dal 1 gennaio 2007, quindi dall’anno di imposta successivo all’entrata in vigore, come previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, u.p., (cfr. pagina 23 del controricorso).

Inoltre, per questa Corte (Cass., 1 marzo 2019, n. 6118) la disposizione agevolativa che esclude l’imputazione della plusvalenza per le cd. “stock options” ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g-bis), nella formulazione introdotta dal D.L. n. 262 del 2006, conv. in L. n. 286 del 2006, non soggiace all’applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, relativo ai soli tributi periodici destinati a durare nel tempo, avendo la novella inciso meramente sulle condizioni al verificarsi delle quali può trovare applicazione l’imposta sostitutiva, avente natura istantanea, sicchè detta disciplina non contrasta con i principi dell’affidamento e di certezza giuridica, dovendosi escludere che al momento dell’offerta del diritto di opzione il contribuente potesse avere certezza che il valore delle azioni si sarebbe incrementato e potesse, di conseguenza, fare affidamento sull’immutabilità delle previsioni agevolative. Rientrano tra i tributi “periodici” solo quelli il cui presupposto è destinato a durare nel tempo ed il cui pagamento è dovuto per anno solare di riferimento.

Nè è applicabile il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, che ha abrogato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51 comma 2, lett. g bis, eliminando la disciplina agevolativa, in quanto l’abrogazione riguarda l’esercizio del diritto di opzione in data successiva al 25-6-2008.

Il giudice di appello, quindi, correttamente, in relazione al diritto di opzione esercitato il 21-12-2007, ha ritenuto applicabile il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2 bis, rilevando l’assenza delle ulteriori tre condizioni aggiunte dal D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006, a decorrere dal 3-10-2006.

Il D.L. n. 112 del 2008, art. 82, comma 24, prevede espressamente che detta abrogazione “si applica in relazione alle azioni assegnate ai dipendenti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto” (vedi in tal senso anche la circolare della Agenzia delle entrate 9-9-2008, n. 54/E in cui si precisa che la data di assegnazione delle azioni coincide con quella di esercizio del diritto di opzione, a prescindere dal fatto che la materiale emissione o consegna del titolo avvengano in un momento successivo). Le azioni riservate al dipendente, dunque, entrano nella sua disponibilità giuridica, risultando a lui assegnate, nel momento in cui esercita il diritto di opzione.

5. Non si pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività processuale da parte della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Dà atto della (Ndr: Testo originale non comprensibile).

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

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