Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12369 del 23/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/06/2020, (ud. 25/02/2020, dep. 23/06/2020), n.12369

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16327/2015 proposto da:

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– ricorrente –

contro

F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTTORINO

LAZZARINI 19, presso lo studio degli avvocati ANDREA SGUEGLIA, UGO

SGUEGLIA, che lo rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10480/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/12/2014 R.G.N. 8081/2011;

il P.M., ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 20 dicembre 2014 la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello del prof. F.M. ed in riforma della impugnata sentenza del locale Tribunale n. 11858/2011: a) dichiara il diritto del F. a percepire, per il periodo di lavoro prestato all’estero in qualità di supplente non residente, le indennità previste dal D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 658,659,661,662,664, nella medesima misura ed alle stesse condizioni previste per i docenti a tempo indeterminato assegnati alla stessa sede; b) condanna il Ministero degli Affari Esteri (oggi: Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – MAECI) a corrispondere all’appellante, a titolo di differenze maturate sull’assegno di sede fino a tutto l’anno 2009, quanto liquidato oltre interessi legali dalla data di maturazione dei singoli ratei al soddisfo;

che la Corte territoriale, con articolata motivazione, perviene alla suddetta conclusione precisando, in sintesi, che:

a) è pacifico che il F. negli anni in cui ha prestato servizio come “docente supplente non residente” presso l’Istituto Tecnico (OMISSIS) è stato retribuito dal Ministero in applicazione dell’art. 106 CCNL Comparto Scuola 2006-2009, per il quale l’entità dell’assegno corrisposto all’interessato è rimasta cristallizzata al marzo 2000, sicchè negli anni essa divenuta via via sempre più esigua rispetto a quella dell’analogo assegno aggiuntivo di sede previsto per il personale a tempo indeterminato che viene, invece, aggiornato periodicamente;

b) detta diversità di trattamento si pone in contrasto con il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a tempo determinato, sancito dalla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE;

c) tale clausola è stata più volte oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ne ha affermato il carattere incondizionato idoneo alla disapplicazione di qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte di Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, Impact; 13.9.2007, causa C307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana), salvo che sussistano ragioni oggettive idonee a giustificare la diversità, ragioni che non possono essere soltanto legate a questioni di bilancio pubblico e che, nella specie, sono insussistenti;

d) del resto l’assegno di sede e le altre indennità di cui si discute sono diretti a compensare il disagio derivato dal trasferimento all’estero che è uguale per le due suddette categorie di docenti;

che avverso tale sentenza il MAECI, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, propone ricorso affidato ad un motivo, al quale oppone difese F.M., con controricorso;

che entrambe parti depositano anche memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c.;

che il Pubblico ministero deposita conclusioni scritte, concludendo per la trattazione della causa in pubblica udienza, “stante la rilevanza nomofilattica della questione” controversa.

Diritto

CONSIDERATO

che, preliminarmente, il Collegio ritiene di non accogliere le conclusioni Pubblico ministero di trattazione della causa in pubblica udienza perchè la questione centrale da risolvere nella presente controversia è rappresentata dalla determinazione dell’ambito applicativo del divieto di discriminazione dei lavoratori a tempo determinato (nella specie: docenti supplenti non residenti in servizio all’estero) rispetto a quelli a tempo indeterminato, sancito dalla normativa UE, questione già reiteratamente trattata da questa Corte;

che l’unico motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della direttiva 1999/70/CE con l’allegato Accordo quadro nonchè di numerose disposizioni di legge, del CCNL Comparto Scuola del 29 novembre 2007 e, infine, dell’art. 16 del CCNIE del 24 febbraio 2000, sostenendosi che i docenti con contratto di lavoro a tempo determinato potrebbero essere trattati e, quindi, retribuiti, in modo diverso rispetto a quelli a tempo indeterminato in quanto questi ultimi hanno superato un pubblico concorso ed i primi no;

che, pertanto, ad avviso del MAECI, sarebbe del tutto improprio richiamare il principio di non discriminazione perchè trattare le due categorie di insegnanti allo stesso modo significherebbe determinare una discriminazione alla rovescia in danno dei docenti di ruolo, come si desume dalla sentenza della CGUE 20 settembre 2018, C-466/17, Motter (citata dal Ministero nella memoria depositata in prossimità dell’adunanza camerale);

che, in primo luogo, va dichiarata l’inammissibilità del profilo di censura con il quale si denuncia la violazione dell’art. 16 del CCNIE cit. per mancato rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente, qualora proponga delle censure che comportano l’esame o la valutazione di documenti o atti processuali, è tenuto a trascriverne nel ricorso il contenuto essenziale e nel contempo a fornire alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali (da ultimo: Cass. SU 23 settembre 2019, n. 23552 e n. 23553);

che il suddetto principio di applica anche ai contratti collettivi integrativi perchè come chiarito da questa Corte, con un consolidato e condiviso indirizzo, l’esenzione dall’onere di depositare, unitamente con il ricorso per cassazione, il contratto collettivo del settore pubblico su cui il ricorso si fonda deve intendersi limitata ai contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi, atteso che questi ultimi, attivati dalle Amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al Comparto pure nell’ipotesi in cui siano parametrati al territorio nazionale in ragione dell’Amministrazione interessata e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8 (vedi, per tutte: Cass. 11 aprile 2011, n. 8231; Cass. 12 ottobre 2016, n. 20554; Cass. 9 giugno 2017, n. 14449);

che, per il resto, deve essere affermata l’infondatezza del ricorso, dandosi continuità ai condivisi e consolidati orientamenti espressi da questa Corte in molteplici decisioni nelle quali è stata esaminata la questione del contenuto precettivo del divieto di discriminazione dei lavoratori a tempo determinato (anche docenti) rispetto a quelli a tempo indeterminato stabilito dalla direttiva 1999/70/CE e dall’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato ad essa allegato, come interpretati dalla Corte di giustizia UE (fra le tante: Cass. 7 novembre 2016, n. 22558; Cass. 23 novembre 2016, n. 23868; Cass. 29 dicembre 2016, n. 27387; Cass. 5 gennaio 2017, n. 165; Cass. 10 gennaio 2017, n. 290; Cass. 1 agosto 2017, n. 19136; Cass. 28 novembre 2019, n. 31150; Cass. 7 febbraio 2000, n. 2924; Cass. 19 febbraio 2020, n. 4195; Cass. 16 marzo 2020, n. 7309);

che l’anzidetta questione è centrale per il presente giudizio e, fra i principi affermati al riguardo negli indicati precedenti – le cui motivazioni vengono qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c. – si ritiene sufficiente ribadirne espressamente i seguenti:

a) la clausola 4 del citato Accordo quadro pone a carico degli Stati membri l’obbligo di assicurare al lavoratore a tempo determinato “condizioni di impiego” che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile” e tale obbligo costituisce attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che sono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Corte di Giustizia, sentenze: 9 luglio 2015, C-177/14, Regojo Dans, punto 32; 13 settembre 2007, C-307/05, Del Cerro Alonso, punto 27).

b) la suddetta clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicchè la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, il quale ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti ivi riconosciuti, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia, sentenze: 15 aprile 2008, C268/06, Impact; 13 settembre 2007, C-307/05, Del Cerro Alonso; 8 settembre 2011, C-177/10 Rosado Santana);

c) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nel paragrafo 5 dell’art. 153 del TFUE “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (CGUE, sentenza Del Cerro Alonso cit., punto 42);

d) la parità di trattamento può essere negata agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (CGUE, sentenza Regojo Dans cit., punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);

e) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (CGUE, sentenza Regojo Dans cit.,punto 55 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani: CGUE, sentenza 18 ottobre 2012, cause riunite da C-302/11 a C-305/11, Valenza; sentenza 7 marzo 2013, C-393/11, Bertazzi);

che va altresì ricordato che, per costante indirizzo della CGUE, per quanto concerne l’applicazione della suddetta clausola 4, punto 1, è necessario esaminare, in primo luogo, se la situazione dei lavoratori a tempo determinato e quella dei lavoratori a tempo indeterminato di cui si tratta sia “comparabili”;

che, al riguardo, ad avviso della CGUE, la comparabilità sussiste se le persone interessate esercitano “un lavoro identico o simile ai sensi dell’Accordo quadro”, conclusione cui si perviene prendendo in considerazione un insieme di fattori, quali la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, in conformità delle clausole 3, punto 2, e 4, punto 1, dell’Accordo stesso (CGUE, sentenze: 18 ottobre 2012, Valenza cit., punto 42 e giurisprudenza citata; 13 marzo 2014, C-38/12, Malgorzata, punti 30-31);

che, nella specie, come sottolinea la Corte d’appello, è incontestato che l’attuale controricorrente, come supplente annuale, abbia svolto la medesima attività di insegnamento che avrebbe prestato se fosse stato immesso nei ruoli e assunto a tempo indeterminato;

che, del resto, anche in questa sede il Ministero, ha sostenuto l’esistenza di condizioni oggettive a suo dire idonee a giustificare la diversità di trattamento facendo leva su circostanze che prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni e delle funzioni esercitate, le quali sole potrebbero legittimare la disparità;

che, infatti, il MAECI ha principalmente fatto riferimento alle differenti modalità di reclutamento rispettivamente previste per le due categorie di personale di cui si tratta – rilevando che solo per i docenti a tempo indeterminato la modalità principale di assunzione è il superamento di pubblico concorso, in conformità con l’art. 97 Cost. – e ribadendo che il personale a tempo indeterminato deve affrontare notevoli spese abitative e per la famiglia essendo tenuto a spostarsi all’estero per un lungo periodo, mentre il personale supplente ha una prospettiva di lavoro all’estero per periodi brevi, pari al massimo ad un anno scolastico;

che, pertanto, il ricorrente nulla ha dedotto con riferimento alle ragioni richiamate nella citata clausola 4, che attengono alle condizioni di lavoro previste per i due tipi di rapporto in comparazione, le quali non possono che essere considerate “simili o identiche” e quindi da trattare allo stesso modo, come ritenuto dalla Corte d’appello;

che va pure sottolineato che, come precisa anche la Corte territoriale, nel presente giudizio si discute di trattamenti di tipo indennitario corrisposti per il disagio del trasferimento all’estero – disagio che si verifica per entrambe le categorie di docenti di cui si tratta – e non di retribuzione, nè di carriera;

che, pertanto, non è pertinente il richiamo fatto dal MAECI nella memoria depositata ex art. 380-bis.1 c.p.c., alla sentenza della Corte di Giustizia UE 20 settembre 2018, C- 466/17, Motter perchè tale pronuncia ha esaminato la questione – che qui non viene in considerazione – della ricostruzione della carriera al momento della conclusione del contratto a tempo indeterminato e, in questo ambito ha ipotizzato una eventuale discriminazione alla rovescia in danno dei dipendenti di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso pubblico rispetto ai docenti a tempo determinato, in caso di applicazione del medesimo sistema di computo dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato;

che va aggiunto che la soluzione del rigetto del presente ricorso risulta pure conforme alla sentenza della CGUE (Seconda Sezione), 20 giugno 2019, C-72/18, Daniel Ustariz Arostegui, ove è stato affermato il seguente principio: “la clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che riserva il beneficio di un’integrazione salariale agli insegnanti assunti nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto funzionari di ruolo, con esclusione, in particolare, degli insegnanti assunti a tempo determinato come impiegati amministrativi a contratto, se il compimento di un determinato periodo di servizio costituisce l’unica condizione per la concessione di tale integrazione salariale”;

che questa sentenza si è occupata di un particolare di un beneficio salariale – mentre nel nostro caso si contende di un trattamento indennitario aggiuntivo – ma, nella relativa controversia, per giustificare la diversità di trattamento tra le due categorie di insegnanti prese in considerazione si è fatto riferimento alla modalità di accesso all’impiego, analogamente a quanto sostenuto del presente giudizio dal Ministero ricorrente;

che, pertanto, assumono qui rilievo i seguenti principi affermati dalla CGUE nella citata sentenza:

a) una condizione generale e astratta secondo cui un dipendente deve possedere un certo status (nella specie: di funzionario e, in generale, di vincitore di un concorso) per beneficiare di una certa condizione di lavoro (come quella di cui al procedimento principale), senza che vengano prese in considerazione, segnatamente, la natura particolare delle mansioni da svolgere nè le caratteristiche inerenti ad esse, non rappresenta una ragione oggettiva, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro, idonea a giustificare una simile differenza di trattamento (punto 44);

b) infatti, secondo una giurisprudenza costante della CGUE, la nozione di “ragioni oggettive” richiede che la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono il rapporto di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda a una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria (punto 40);

c) tali elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti alle medesime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (sentenze del 13 settembre 2007, Del Cerro Alonso, C307/05, punto 53; del 22 dicembre 2010, Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C 456/09, punto 55; nonchè 5 giugno 2018, Grupo Norte Facility, C-574/16, punto 54).

d) per contro, il riferimento alla mera natura temporanea del lavoro non è conforme a tali requisiti e non può dunque costituire di per sè una ragione oggettiva, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro; infatti, ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro sia sufficiente a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato svuoterebbe di ogni sostanza gli obiettivi della direttiva 1999/70 nonchè dell’Accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare il mantenimento di una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato (CGUE, sentenza 8 settembre 2011, Rosado Santana, C-177/10, punto 74 e giurisprudenza ivi citata);

e) allo stesso modo, è da escludere che l’interesse pubblico di per sè connesso alle modalità di accesso alla funzione pubblica possa giustificare una differenza di trattamento (vedi, in tal senso: sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C-96/17, punto 46);

f) ne consegue che l’esclusione degli impiegati amministrativi a contratto dal beneficio dell’integrazione salariale di cui si tratta potrebbe essere giustificata solo se le caratteristiche inerenti allo status dei funzionari fossero da considerare realmente determinanti per la concessione di tale beneficio, mentre, nella specie l’integrazione salariale di cui al procedimento principale risulta essere concessa ai funzionari per il solo svolgimento del periodo di servizio richiesto e non incide sulla loro posizione nell’ambito della carriera professionale (punti 46 e 47);

g) infine l’argomento della sussistenza di una differenza nella natura dei compiti dei funzionari di ruolo tale da giustificare il trattamento preferenziale di cui questi ultimi beneficiano rispetto agli impiegati amministrativi a contratto non risulta supportato da alcun elemento concreto e preciso e, in ogni caso, una simile differenza potrebbe essere rilevante solo se il beneficio in oggetto avesse lo scopo di ricompensare l’assolvimento di compiti che potrebbero essere esercitati unicamente dai funzionari, a esclusione degli impiegati a contratto a tempo determinato. Tuttavia, la circostanza che i periodi di lavoro svolti in base a contratti a tempo determinato di diritto pubblico sono interamente presi in considerazione al momento della nomina in ruolo di un impiegato a contratto tende a contraddire la tesi secondo cui un impiegato a contratto non avrebbe potuto esercitare i compiti dei funzionari prima della nomina in ruolo (vedi, per analogia: ordinanza del 22 marzo 2018, Centeno Melendez, C-315/17, punto 75);

che, quindi, anche dalla citata recente sentenza della CGUE 20 giugno 2019, C-72/18, Daniel Ustariz Arostegui, risultano ribaditi i principi – cui la giurisprudenza di questa Corte si è uniformata – che portano al rigetto del ricorso del MAECI;

che le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza;

che nulla va disposto con riguardo al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, non potendo tale normativa trovare applicazione nei confronti dello Stato e delle Amministrazioni ad esso parificate, le quali, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo, come accade per l’Amministrazione ricorrente (vedi, per tutte, in tal senso: Cass. SU 8 maggio 2014, n. 9938; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5000,00 (cinquemila/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2020

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