Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12368 del 20/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 20/05/2010, (ud. 18/01/2010, dep. 20/05/2010), n.12368

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

P.M., B.R., O.G., T.

G., C.A., tutti elettivamente domiciliati in ROMA,

VIALE CARSO 23, presso lo studio dell’avvocato DE LIBERATO FRANCESCA,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARRELLI

DANIELA, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITA’ E RICERCA in persona del

Ministro pro tempore e CENTRO SERVIZI AMMINISTRATIVI di SIENA in

persona del rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che li rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 720/2008 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE del

13.5.08, depositata il 21/05/2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/01/2010 dal Consigliere Relatore Dott. CURCURUTO Filippo;

E’ presente il P.G. in persona del Dott. RENATO FINOCCHI GHERSI.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che:

La Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza qui impugnata, ha rigettato la domanda di P.M. e degli altri attuali ricorrenti, docenti di scuola media superiore, volta ad ottenere il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità della loro collocazione nella graduatoria provinciale permanente per gli anni scolastici 2002/2004, per effetto dell’attribuzione di un punteggio aggiuntivo ad altra categoria di docenti, con conseguente collocazione dei ricorrenti in posizioni meno favorevole.

La Corte di merito nell’esporre le ragioni che l’avevano condotta a ritenere la propria giurisdizione ha qualificato come contrattuale il danno lamentato, notando però che il carattere non concorsuale della vicenda portava ad escludere la giurisdizione del g.a..

La Corte ha quindi osservato che la contestata attribuzione di punteggi ad altre categorie di docenti non poteva considerarsi illegittima e che nè il Ministero nè il CSA avrebbero potuto sottrarsi all’applicazione delle leggi, dei regolamenti e dei singoli DM in materia.

I ricorrenti chiedono la cassazione della sentenza con ricorso per tre motivi, illustrato anche da memoria.

La parte intimata resiste con controricorso.

Il primo motivo di ricorso denunzia omessa valutazione di circostanza determinante. A norma dell’art. 366 bis c.p.c., poichè nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. Sez. Un, 1 ottobre 2007, n. 20603 e numerosissime altre conformi).

Nel motivo in esame non può dirsi in realtà che tale momento di sintesi sia chiaramente espresso. Tuttavia, anche volendo considerare come tale l’affermazione, fatta in apertura del motivo, secondo cui la sentenza meriterebbe censura “per aver ritenuto che la circostanza che il danno fosse stato prodotto da provvedimenti di legge e/o regolamenti e/o decreti ministeriali esonerava il CSA ed eventualmente il Ministero da qualsiasi responsabilità” sicchè sarebbe stato totalmente pretermesso l'”esame di una circostanza determinante e cioè dell’assimilabilità del soggetto che emanò i singoli provvedimenti a quello che li applicò” si deve osservare quanto segue. Anzitutto, il riferimento alla emanazione di “provvedimenti” da parte del Ministero è, evidentemente, del tutto improprio in relazione alle regole di fonte legislativa.

Quanto alla necessaria applicazione dei regolamenti e dei DM l’osservazione della Corte di merito è pienamente corretta ove si consideri che la sentenza ha ritenuto gli uni e gli altri pienamente legittimi, sicchè la circostanza che nel caso di specie vi fosse coincidenza fra il soggetto cui risaliva la norma subprimaria o il provvedimento amministrativo e il soggetto che doveva applicarli, nella prospettiva della sentenza in esame, non ha alcun rilievo, ed è stata coerentemente e non omissivamente, trascurata.

In ogni caso, che l’amministrazione cui risalga un atto regolamentare o provvedimentale sia poi tenuta ad applicarlo fin quando esso non sia annullato (anche eventualmente in sede di autotutela) è principio del tutto pacifico, sicchè la sentenza che ad esso ha fatto riferimento non sembra meritare censura sul punto.

La diversa opinione espressa nella memoria, secondo la quale “la Corte d’Appello non poteva – come ha fatto – scrivere che il Centro Servizi Amministrativi (articolazione locale del Ministero dell’Istruzione pure convenuto e costituito) non poteva sottrarsi all’applicazione dei decreti ministeriali e far derivare da ciò un esonero da responsabilità “sicchè la questione non consentirebbe la trattazione camerale, non sembra idonea ad arricchire il dibattito sul piano argomentativo, l’unico che in questa sede abbia rilievo.

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e si conclude con il seguente quesito: “dica la Corte se il comportamento della Pubblica amministrazione consistente nell’applicare provvedimenti illegittimi violando le regole di correttezza e buona amministrazione, possa o meno costituire fonte di responsabilità ex art. 2043 c.c.”.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in termini tali da costituire una sintesi logico – giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una “regula iuris” suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia. (Cass. 7197/2009; sostanzialmente negli stessi termini, Cass. S.U. 26020/2008).

Il quesito sopra riportato ha carattere del tutto generico, sostanzialmente non correlato ai termini della controversia e non corrisponde quindi a quanto previsto dal cit.art. del codice di rito.

Il terzo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza in relazione alla necessità di pronunziare justa alligata et probata e si conclude con il seguente quesito: “dica la Corte se il giudice di appello possa decidere o meno questioni non prospettategli dalle parti”.

Anche tale quesito si presta alle considerazioni svolte a proposito del secondo motivo di ricorso. I rilievi svolti al riguardo nella memoria non possono in alcun modo indurre a diversa conclusione. Essi non dimostrano affatto che i due quesiti sopra riportati sono – come dovrebbero essere – strettamente collegati alla fattispecie concreta e idonei, in tal senso, ad esprimere una regula juris suscettibile di ulteriore applicazione, per tale dovendosi intendere non una regola del tutto astratta e quindi applicabile solo dopo il necessario confronto con i fatti (quale in termini quasi paradigmatici è quella espressa in particolare nel secondo quesito, che altro non è se non un diverso modo di fraseggiare l’art. 112 c.p.c. in relazione al giudizio di appello) ma una vera e propria regola del caso, suscettibile di conferma in relazione a casi futuri simili a quello in relazione al quale essa è stata espressa.

In conclusione, data l’inammissibilità delle censure in esso contenute, il ricorso va rigettato, con condanna della parte ricorrente alle spese.

PQM

rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti alle spese in Euro 30,00 oltre ad Euro 2000,00 per onorari, nonchè accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2010

 

 

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