Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12365 del 23/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/06/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 23/06/2020), n.12365

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. Antonella Antonella – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11780/2015 proposto da:

V.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato STEFANO VITI, che

la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MUZIO CLEMENTI 68, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO DE

ANGELIS, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7926/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/10/2014, R.G.N. 2947/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte d’appello di Roma ha confermato il rigetto della domanda di V.M.A. di risarcimento del danno conseguente a demansionamento ed a condotte asseritamente mobbizzanti tenute dalla datrice di lavoro Università Cattolica del Sacro Cuore;

2. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso V.M.A. sulla base di otto motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso;

3. entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del c.c.n.l. 14.3.2002 per il personale dipendente dalla sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, segnatamente dell’Allegato 1 recante la declaratoria delle categorie e dei profili professionali, nonchè errata applicazione dell’art. 2103 c.c.. Sulla premessa che le mansioni espletate nel periodo (1 novembre 1990/22 febbraio 1998) in cui la lavoratrice aveva prestato la propria attività presso l’Istituto di Semeiotica Medica erano proprie del profilo professionale di inquadramento – assistente amministrativo dell’Area, categoria C – assume l’errore della Corte di merito per avere ritenuto la equipollenza con i compiti svolti presso il detto Istituto delle mansioni svolte negli uffici di successiva assegnazione, – mansioni che assume proprie della figura di coadiutore amministrativo corrispondente alla inferiore categoria B.

2. con il secondo motivo di ricorso, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2,32 e 41 Cost., falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 9,D.Lgs. n. 81 del 2008, censura la sentenza impugnata per avere escluso la configurabilità del mobbing nelle condotte della parte datoriale con riferimento ai sette procedimenti disciplinari attivati a partire dall’anno 1998, confluiti nella irrogazione di sole tre sanzioni disciplinari, dato questo che – sostiene – avrebbe dovuto essere apprezzato dalla Corte di merito, anche sul piano logico e presuntivo, quale espressione dell’atteggiamento vessatorio della parte datrice di lavoro;

3. con il terzo motivo di ricorso deduce omesso esame di un punto controverso, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalla circostanza che otto procedimenti disciplinari attivati a carico della lavoratrice si erano conclusi senza l’adozione di sanzione;

4. con il quarto motivo di ricorso, deducendo violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, censura la sentenza impugnata per incongruità della motivazione in base alla considerazione che le circostanze sulle quali il giudice di appello aveva ritenuto di non ammettere la prova orale, in quanto pacifiche, erano idonee a sorreggere l’accertamento relativo alla esistenza di condotte mobbizzanti in danno della lavoratrice ed al demansionamento di talchè non appariva giustificata la conferma della statuizione di rigetto della domanda;

5. con il quinto motivo deduce violazione degli artt. 2,32,41 Cost. e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 9,D.Lgs. n. 81 del 2008. Sul presupposto che le circostanze ritenute non contestate dalla Corte di merito consentivano di ritenere integrata la condotta mobbizzante della datrice di lavoro assume l’errore di diritto della sentenza impugnata la quale, nell’escludere la configurabilità di condotte interanti mobbing, aveva fatto riferimento ad una nozione non coerente con l’elaborazione a riguardo del giudice di legittimità;

6. con il sesto motivo di ricorso deduce omesso esame di un punto controverso, lamentando la omessa pronunzia sulla istanza di ammissione della consulenza tecnica d’ufficio;

7. con il settimo motivo di ricorso (per errore indicato come quinto) deduce omessa pronunzia sul motivo di gravame relativo al rigetto della istanza di produzione dell’avviso di ricevimento della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione;

8. con l’ottavo motivo di ricorso (per errore indicato come sesto) deduce errata e falsa applicazione dell’art. 2938 c.c. e degli artt. 416 e 420 c.p.c., argomentando dalla tempestività della istanza di produzione formulata in prime cure dopo che l’Università convenuta, nella memoria di costituzione di primo grado, aveva eccepito la prescrizione dei crediti azionati dalla V.;

9. il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di pertinenza con le effettive ragioni della decisione sulla questione inverstita;

9.1. la sentenza di appello, dopo avere premesso che le attività che la lavoratrice assumeva di avere svolto presso l’Istituto di Semeiotica erano inquadrabili in un livello superiore a quello di appartenenza ed avere evidenziato che tali attività non potevano essere prese in considerazione in quanto non oggetto del procedimento e non risultando alcun accertamento relativo al loro effettivo svolgimento, ha ritenuto esservi corrispondenza tra la declaratoria relativa al profilo di formale inquadramento della lavoratrice e le attività da questa espletate nel periodo dedotto, alla stregua delle stesse allegazioni formulate in domanda;

9.2. il motivo in esame non si confronta specificamente con le ragioni alla stregua delle quali il giudice di seconde cure ha escluso che nel periodo dedotto la V. avesse svolto compiti inferiori a quelli corrispondenti al formale inquadramento, come sopra ricostruite; parte ricorrente sviluppa, infatti, le proprie censure dando per scontato l’accertamento dello svolgimento, presso l’Istituto di Semeiotica, di compiti corrispondenti a quelli dedotti in ricorso e della loro riconducibilità al livello attribuito; nulla argomenta per contrastare l’affermazione del giudice di seconde cure in ordine all’assenza di accertamento del concreto espletamento di tali compiti nè per inficiare l’ulteriore affermazione relativa alla riconducibilità delle mansioni espletate dalla V., nel periodo successivo a quello nel quale era addetta all’Istituto di Semeiotica dell’Università, alle mansioni di formale inquadramento secondo quanto evincibile dalle declaratorie collettive;

10. il secondo motivo di ricorso è inammissibile;

10.1. la denunzia di violazione di norma di diritto formulata con il primo motivo non è articolata in conformità del mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto le critiche alla sentenza impugnata non investono il significato e la portata applicativa delle norme richiamate in rubrica ma la ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, in relazione alla quale si lamenta il mancato utilizzo del ragionamento presuntivo. Premesso che tale omissione è denunziabile non come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cioè come omesso esame di un fatto secondario (dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale) purchè decisivo (Cass. n. 17720 del 2018), si rileva che anche a voler ricondurre le critiche formulate all’ambito del mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, stante la non vincolatività della configurazione formale in rubrica del vizio denunziato (Cass. n. 12690 del 2018, Cass. n. 14026 del 2012), le stesse si rivelano inidonee alla valida censura della decisione sia in quanto non fanno emergere alcuna implausibilità o illogicità del ragionamento decisorio derivante dalla mancata valorizzazione di un elemento di valenza indiziaria e non decisivo quale il rapporto tra il numero dei procedimenti disciplinari e le effettive sanzioni irrogate, sia per ragioni che si andranno ad evidenziare nell’esame del motivo successivo. Come chiarito da questa Corte spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (Cass. n. 8023 del 2009, Cass. n. 15737 del 2003);

11. parimenti inammissibili le censure articolate con il terzo motivo in quanto non conformi alla configurazione del mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo attualmente vigente, applicabile ratione temporis; il fatto storico del quale si denunzia la omessa considerazione, infatti, oltre a non essere evocato nel rispetto degli oneri di indicazione e trascrizione imposti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (non viene, infatti, trascritto o riportato per riassunto il contenuto delle lettere di contestazioni della cui omessa valutazione parte ricorrente si duole in rapporto alla dedotta mancata adozione dei correlativi provvedimenti disciplinari) risulta comunque esaminato giudice di appello nel pervenire al rigetto della domanda. La questione del numero (superiore) di procedimenti disciplinari rispetto alle sanzioni effettivamente applicate (una soltanto, secondo il giudice di appello tre, secondo la ricorrente) è stata presa, infatti, espressamente presa in considerazione dalla Corte di merito che non ha ritenuto di riconnettervi alcuno specifico significato probatorio nel senso preteso dall’odierna ricorrente (sentenza, pag. 6);

12. il quarto motivo di ricorso è infondato;

12.1. La motivazione meramente apparente – che la giurisprudenza parifica, quanto alle conseguenze giuridiche, alla motivazione in tutto o in parte mancante – sussiste allorquando pur non mancando un testo della motivazione in senso materiale, lo stesso non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico-giuridico alla base del decisum. E’ stato, in particolare, precisato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. Un. 22232 del 2016), oppure allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105 del 2017) oppure, ancora, nell’ipotesi in cui le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. n. 20112 del 2009). Tali carenze, che l’odierna parte ricorrente assume sulla base di considerazioni del tutto generiche ed assertive, non sono riscontrabili nella sentenza in esame della quale sono agevolmente ricostruibili, nella loro concatenazione fattuale e giuridica, i percorsi argomentativi che hanno indotto la Corte di merito ad escludere il demansionamento e la esistenza di condotte mobbizzanti in danno della lavoratrice.

12.2. Escluso che, come, invece, sembra prospettare parte ricorrente la ritenuta pacificità delle circostanze capitolate, in relazione alle quali non è stata ammessa la prova orale, possa di per sè sola, in via automatica, implicare l’accertamento delle denunziate condotte mobbizzanti e di demansionamento, rifluendo, per tale sola ragione, il rigetto della domanda a riguardo, nell’ambito della incongruità o illogicità di motivazione, è da evidenziare che, comunque, le circostanze in questione sono state complessivamente prese in considerazione dal giudice di appello il quale ha dato atto che gli spostamenti in questione erano avvenuti nel rispetto dell’art. 2103 c.c., che ulteriori elementi addotti dalla ricorrente erano assolutamente generici, che era stato smentito dalla V. medesima l’assunto della inidoneità (in relazione alle sofferte claustrofobia e forofobia) della stanza n. 197, nella quale si trovava la postazione di lavoro ecc. (v. sentenza pag. 6 e sg.);

13. il quinto motivo di ricorso è inammissibile in quanto non verte sul significato e sulla portata applicativa delle norme delle quali denunzia violazione ma investe, in concreto, l’accertamento di fatto alla base del decisum il quale, secondo quanto già sopra osservato (v. paragrafo 11) poteva essere incrinato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto decisivo e controverso, non concretamente prospettata dall’odierna ricorrente;

14. il sesto motivo di ricorso è infondato; vi è stato, infatti, implicito rigetto della richiesta di consulenza tecnica di ufficio; il suo accoglimento sarebbe, infatti, risultato incompatibile con l’assenza di riscontro della dedotta illegittimità della condotta datoriale e con il conseguente rigetto di ogni pretesa risarcitoria nei confronti della Università datrice di lavoro;

15. il settimo e l’ottavo motivo di ricorso sono inammissibili per violazione del divieto di novum in quanto riferiti a questioni non espressamente trattate dal giudice di appello e delle quali non è allegata e dimostrata la avvenuta rituale deduzione nella fase di merito;

15.1. trova, quindi, applicazione la condivisibile giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di ricorso per cassazione, qualora una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. n. 20694 del 2018, Cass. n. 1435 del 2013, Cass. n. 20518 del 2008, Cass. n. 22540 del 2006); i motivi di ricorso, infatti, devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio;

16. in base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto;

17. le spese di lite sono regolate secondo soccombenza;

18. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente principale alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 5.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori, come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2020

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