Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12363 del 23/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/06/2020, (ud. 29/01/2020, dep. 23/06/2020), n.12363

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12673/2015 proposto da:

S.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCO

ATTILIO 5, presso lo studio di SALVATORE MILIZIANO, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIUSEPPE STASSI;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI AGRIGENTO, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ANGELICO 78, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO IELO,

rappresentata e difesa dagli avvocati PIETRO DE LUCA, DOMENICO

CANTAVENERA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1956/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 17/11/2014 R.G.N. 106/2013.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 1956 del 17 novembre 2014, la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della decisione resa dal Tribunale di Agrigento che aveva dichiarato l’illegittimità dei plurimi contratti a tempo determinato stipulati tra S.C. e l’Azienda Sanitaria provinciale di Agrigento ed esclusa la possibilità di conversione del rapporto aveva condannato l’ASL al solo risarcimento del danno -, respingeva tutte le domande proposta dalla S. nei confronti dell’ASP;

2. la Corte territoriale, premessa la conformità al diritto comunitario e specificamente alla clausola 5 della Direttiva n. 70/99/CE, sotto il profilo dell’adeguatezza della misura sanzionatoria alla repressione dell’abuso del ricorso ai contratti a termine, della previsione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, che in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, stabilisce il diritto del lavoratore interessato al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro, riteneva che in base all’art. 36 cit. il risarcimento del danno non si configura quale conseguenza automatica della prestazione resa in violazione di legge ma richiede la prova dell’effettivo pregiudizio subito dal lavoratore;

rilevava che, nello specifico, la ricorrente non avesse allegato e provato alcunchè, essendosi limitata genericamente ad invocare la tutela risarcitoria in funzione alternativa alla conversione;

riteneva, pertanto, che la domanda doveva essere respinta;

3. avverso tale sentenza S.C. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi;

4. l’Azienda sanitaria provinciale ha resistito con controricorso successivamente illustrato da memoria;

5. anche la ricorrente ha depositato memoria (tardiva).

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia error in judicando, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio per non avere il Giudice del gravame valutato l’inammissibilità della eccezione/domanda nuova sull’onere della prova del risarcimento danni, non prospettata in primo grado e proposta per la prima volta in appello;

2. con il secondo motivo di ricorso la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 e della Direttiva n. 99/70/CE sostenendo che la previsione dell’art. 36 cit., come interpretata dal giudice di appello si poneva in contrasto con il diritto comunitario in punto di necessità per lo Stato membro di adottare efficaci misure sanzionatorie destinate a prevenire l’abuso del ricorso al contratto a termine e ribadito la configurabilità “in re ipsa” di un pregiudizio risarcibile;

3. il primo motivo di ricorso è inammissibile sotto plurimi profili;

3.1. in primo luogo esso non è sorretto dall’adeguata ricostruzione della vicenda processuale ed in particolare dalla riproduzione dello specifico contenuto degli atti difensivi delle parti, di primo e secondo grado, destinati, in tesi, a dimostrare il carattere di novità e quindi l’inammissibilità del motivo di gravame dell’Azienda relativo al risarcimento del danno;

a tal fine non soccorre la riproduzione di alcune frasi contenute nella memoria di costituzione di primo grado dell’Azienda atteso che dalla stessa non è possibile cogliere il senso complessivo delle difese spiegate dalla parte convenuta, stante anche la carente ricostruzione del contenuto del ricorso di primo grado;

a tale stregua parte ricorrente non deduce le formulate censure in modo da renderle chiare ed intellegibili in base alla lettura del solo ricorso, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il relativo fondamento (v. Cass. 18 aprile 2006, n. 8932; Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 8 novembre 2005, n. 21659) sulla base delle sole deduzioni contenute nel medesimo, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. ex multis Cass. 10 agosto 2017, n. 19985; Cass. 5 luglio 2016, n. 13679; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984);

3.2. in secondo luogo le censure articolate non appaiono riconducibili al vizio motivazionale denunziato, in quanto intese piuttosto a lamentare il difetto di attività del giudice di appello per avere omesso di rilevare la tardività e quindi la inammissibilità delle censure svolte con l’appello principale;

3.3. in terzo luogo la modalità di formulazione del motivo non risulta neppure coerente con l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella sua attuale formulazione;

come chiarito da questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), il vizio specifico ora denunciabile per cassazione è l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe certamente determinato un esito diverso della controversia);

costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio ‘fattò, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., Sez. Un., 23 marzo 2015, n. 5745);

non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. 14 giugno 2017, n. 14802; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152), gli elementi istruttori, una “moltitudine di fatti e circostanze”, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439);

da tanto consegue che l’asserito difetto di specifica eccezione da parte dell’azienda in relazione alla domanda risarcitoria della lavoratrice non potrebbe essere ricondotto, all’ambito del ‘fatto storicò decisivo, richiesto per la configurabilità del vizio denunziabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

4. le censure sviluppate con il secondo motivo, che investono la statuizione di integrale rigetto della domanda di risarcimento del danno, sono, invece, meritevoli di accoglimento alla luce della pronuncia con la quale le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicchè, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito (Cass., Sez. Un, 15 marzo 2016, n. 5072);

a tale giurisprudenza si ritiene di dare continuità;

5. da tanto consegue che va accolto il secondo motivo e dichiarato inammissibile il primo;

la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’appello di Palermo che, in diversa composizione, provvederà sulla domanda di risarcimento del danno, attenendosi ai principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza sopra richiamata;

6. al giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità;

7. l’accoglimento del ricorso rende inapplicabile il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2020

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