Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12346 del 15/06/2016

Cassazione civile sez. lav., 15/06/2016, (ud. 16/03/2016, dep. 15/06/2016), n.12346

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6549-201 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA, C.F. (OMISSIS), in persona del

Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE

DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI

PORTOGHESI, 12;

– ricorrente –

contro

A.M., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

avverso la sentenza n. 33/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 25/01/2011 r.g.n. 76/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2016 da Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 25 gennaio 2011) rigetta gli appelli riuniti proposti dall’Università degli Studi di Pavia avverso due sentenze del Tribunale di Pavia le quali –

accogliendo parzialmente i ricorsi anch’essi riuniti di due numerosi gruppi di medici specializzandi – hanno condannato la suddetta Università a corrispondere ai ricorrenti, sull’importo delle borse di studio annualmente percepite, l’incremento annuale calcolato in base al tasso programmato di inflazione, oltre agli interessi legali (per tutto il periodo successivo al 1992 e fino al 31 dicembre 2005, come precisato nella sentenza d’appello).

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, ha, fra l’altro, affermato la sussistenza della legittimazione passiva dell’Università degli Studi di Pavia (unico Ente chiamato in giudizio), sull’assunto secondo cui le prestazioni in oggetto si sono ivi svolte e lì sono stati conclusi i relativi contratti, che hanno determinato il sorgere dell’obbligo di remunerazione degli specializzandi.

2.- Il ricorso dell’Università degli Studi di Pavia domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; gli originari ricorrenti non svolgono attività difensiva in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1.- Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1.- Con il primo motivo si denuncia il difetto di legittimazione passiva dell’Università degli Studi di Pavia ricorrente, mentre con gli altri due motivi si contestano, rispettivamente, le statuizioni con le quali la Corte d’appello di Milano: a) ha riconosciuto il diritto alla integrale rivalutazione delle borse di studio in oggetto, in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte (secondo motivo); b) ha respinto l’eccezione di prescrizione della difesa dell’Università, affermando che per il credito alla rivalutazione de quo opera l’ordinario termine di prescrizione decennale (terzo motivo).

2 – Esame delle censure.

2.- Il primo motivo di ricorso è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

2.1.- Per costante giurisprudenza di questa Corte – assurta al rango di “diritto vivente” in materia di legittimazione la situazione dell’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa va distinta da quella della titolarità della situazione giuridica sostanziale nel rapporto dedotto in giudizio. Inoltre, è jus receptum che la carenza di legittimazione ad agire (o a contraddire), è rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, anche d’ufficio dal giudice, avendo carattere processuale, mentre, per contro, la questione della titolarità del rapporto (tanto attiva che passiva) attiene al merito della decisione e quindi alla fondatezza della domanda in concreto proposta.

Di conseguenza – prima della recente sentenza delle Sezioni Unite 16 febbraio 2016, n. 2951 – l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di questa Corte riteneva che configurandosi la contestazione della titolarità del rapporto controverso come una questione che attiene al merito della lite e rientrando nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, doveva formare oggetto di una eccezione in senso stretto da introdurre nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2008, n. 355; Cass. 6 marzo 2008, n. 6132; Cass. 15 settembre 2008, n. 23670; Cass. 5 agosto 2010, n. 18207; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2091).

Con la suddetta sentenza n. 2951 del 2016 le Sezioni Unite hanno affermato l’infondatezza della tesi della giurisprudenza maggioritaria nella parte secondo tale tesi, dall’esatta affermazione dell’attinenza al merito della suindicata questione si fa derivare la sua ricomprensione nel potere dispositivo delle parti e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, traendosene la conseguenza che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità costituisca un’eccezione in senso stretto.

Le Sezioni unite hanno, quindi, stabilito che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso non deve costituire oggetto di una eccezione in senso stretto ma può essere fatta valere pure oltre i termini previsti per tali eccezioni, può quindi anche essere oggetto di motivo di appello, perchè l’art. 345 c.p.c., comma 2, prevede il divieto di “nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”, mentre tale carenza è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa. Essa pertanto può essere proposta in ogni fase del giudizio, compreso il giudizio di cassazione, solo nei limiti di tale giudizio e sempre che non si sia formato il giudicato sul punto.

Per quel che interessa nel presente giudizio dai suddetti principi si desume che, nella specie, quella oggetto del primo motivo di ricorso non una è questione di legittimazione passiva processuale – come tale attinente all’esistenza del dovere del convenuto di subire il giudizio instaurato dall’attore con una determinata prospettazione del rapporto oggetto della controversia, indipendentemente dall’effettiva sussistenza della titolarità del rapporto stesso ma è una questione di merito con la quale l’Università convenuta deduce la propria estraneità a quel rapporto, ossia la mancanza di detta titolarità.

2.2.- Nella prospettazione dell’Università di Pavia ricorre, pertanto, una peculiare – e residuale – situazione in cui gli attori, nel proporre la domanda contro l’ente convenuto, hanno preteso l’adempimento di un obbligo che dichiaratamente non gravava sul convenuto (vedi, fra le tante: Cass. 10 gennaio 2008, n. 355; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2091 cit.).

Come risulta anche dalla sentenza ora impugnata, nel presente giudizio, l’Avvocatura dello Stato ha tempestivamente evidenziato, fin dal primo grado, il difetto di legittimazione (sostanziale) passiva dell’Università, facendo valere l’irritualità del rapporto giuridico processuale costituitosi secondo la prospettazione dei ricorrenti.

2.3.- La tesi dell’Università ricorrente è fondata.

Infatti, come si dirà di seguito, nel presente giudizio si è effettivamente venuta a determinare una situazione nella quale –

tanto più dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 2951 del 2016 cit.

– l’erronea individuazione della parte titolare, dal lato passivo, del rapporto controverso e quindi capace processualmente a stare in giudizio, può essere proposta dalla parte interessata in ogni fase del giudizio, compreso il giudizio di cassazione, ed è verificabile e rilevabile di ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio – compreso quello di cassazione, salvo il limite del giudicato sul punto, qui non è riscontrabile – sempre che risulti dagli atti di causa (vedi per tutte: Cass. 2 dicembre 2011, n. 25813;

Cass. 16 marzo 2009, n. 6348; Cass. 13 ottobre 2009, n. 21703;

nonchè Cass. sentenze n. 914 del 1988; n. 5024 del 1995).

2.4.- Va, infatti, sottolineato che:

a) i ricorrenti hanno proposto in primo grado le loro domande contro

l’Università degli Studi di Pavia – e solo contro tale Ente – quando già all’epoca (anno 2007) era evidente, in base al quadro comunitario, legislativo e giurisprudenziale pertinente, che in tal modo pretendevano l’adempimento di un obbligo dichiaratamente non gravante sull’Ateneo convenuto;

b) infatti, già all’epoca era noto il principio per cui la pretesa del singolo di ottenere il risarcimento del danno subito per la mancata attuazione di una direttiva comunitaria del tipo di quella in oggetto – in violazione degli allora vigenti artt. 5 e 189 del TCE prevedenti l’obbligo degli Stati membri di adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione dei doveri derivanti dal diritto comunitario (di cui agli attuali artt. 4, par. 3, TUE, art. 291 TFUE e art. 288 TFUE, quest’ultimo specificamente per le direttive) – può farsi valere soltanto nei confronti dello Stato-persona, come si desume dai Trattati UE, essendo solo questo l’unico soggetto responsabile della suddetta inerzia (l’indirizzo è pacifico, tra le più risalenti vedi, per tutte: Cass. 11 ottobre 1995, n. 10617; Cass. 19 luglio 1995, n. 7832; Cass. 5 ottobre 1996, n. 8739);

c) in particolare, per quanto riguarda la direttive comunitarie, era più che fermo l’indirizzo secondo cui le disposizioni di una direttiva non attuata hanno efficacia diretta nell’ordinamento dei singoli Stati membri – sempre che siano incondizionate e sufficientemente precise e lo Stato destinatario sia inadempiente per l’inutile decorso del termine accordato per dare attuazione alla direttiva, come accade nella specie – ma limitatamente ai rapporti tra le autorità dello Stato inadempiente ed i soggetti privati (cosiddetto efficacia verticale), e non anche nei rapporti interprivati (cosiddetto efficacia orizzontale), non potendo di per sè creare obblighi a carico di soggetti diversi dallo Stato inadempiente (vedi, per tutte: Cass. 27 febbraio 1995, n. 2275; Cass. 22 novembre 2000, n. 15101; Cass. 23 gennaio 2002, n. 752; Cass. 25 febbraio 2004, n. 3762; Cass. 9 novembre 2006, n. 23937; Cass. 14 settembre 2009, n. 23971);

d) del resto, tale orientamento era – ed è – del tutto conforme a quanto la Corte di giustizia UE ha affermato da sempre (vedi, tra le più risalenti: CGUE, sentenze 26 febbraio 1986 in causa C-152/84 e 19 novembre 1991 in cause riunite C-6/90 e C-9/90);

e) inoltre, all’epoca dell’introduzione del presente giudizio, la giurisprudenza di questa Corte era anche già consolidata nel senso che le Università, dopo la riforma introdotta dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, non possono essere più configurate come organi dello Stato, essendo divenute enti pubblici autonomi, sotto i profili didattici e scientifici nonchè organizzativi, finanziari, contabili, statutari e regolamentari (Cass. 5 novembre 1999, n. 12346; Cass. 5 dicembre 2002, n. 17311; Cass. SU 10 maggio 2006, n. 10700; Cass. 29 luglio 2008, n. 20582; Cass. 21 aprile 2010, n. 9495; Cass. 1 giugno 2012, n. 8824);

f) pertanto, all’Università ricorrente non poteva essere ascritta alcuna responsabilità per il pagamento delle somme richieste, tenuto conto che, già sulla base della giurisprudenza della CGUE e dei Trattati, era chiaro che l’obbligo di attuazione e recepimento delle direttive comunitarie in materia di specializzandi doveva farsi ricadere soltanto sullo Stato – di cui le Università non erano più da considerare organi o amministrazioni per effetto della L. n. 168 del 1989 (diversamente da quel che accadeva nel precedente regime) –

essendo da escludere che le direttive in argomento fossero idonee a dispiegare un’efficacia orizzontale nei confronti di ente diverso dall’Amministrazione centrale dello Stato;

g) era anche pacifica la mancanza di un rapporto di lavoro o di una forma di parasubordinazione durante il corso di specializzazione, trattandosi di prestazioni non rivolte ad un vantaggio per l’Università, ma alla formazione teorica e pratica degli stessi specializzandi ai quali alla fine del corso viene rilasciato un attestato ed un titolo abilitante (vedi, per tutte: Cass. 18 giugno 1998, n. 6089);

h) d’altra parte, l’Università convenuta avrebbe dovuto essere considerata priva di legittimazione passiva pure alla stregua di quanto disposto dal D.Lgs. n. 257 del 1991 ove è stabilito che i compensi per cui è controversia sono finanziati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla base di un decreto interministeriale adottato dal MIUR e dai Ministri delle Salute e dell’Economia e che la corresponsione materiale, da parte delle Università, delle borse di studio presuppone la ripartizione ed assegnazione in favore degli Atenei dei fondi previsti dalla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 6, comma 2, con D.M. tesoro, su proposta dei Ministri dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica e della Sanità;

i) ne consegue che, nella vicenda in oggetto, pure nel momento in cui il giudizio è stato introdotto l’assenza di legittimazione sostanziale in capo all’Università non poteva certamente considerarsi “particolarmente ardua, se non aleatoria” (Cass. SU 29 maggio 2012, n. 8516), ma era indubbia, potendo, caso mai, nutrirsi delle incertezze solo sulla identificazione dell’Amministrazione centrale statale da convenire in giudizio (Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, Ministero della Salute, Ministero dell’Economia e Finanze ovvero Presidenza del Consiglio dei Ministri);

l) di qui, l’ulteriore conseguenza che pur avendo l’Università di Pavia deciso di avvalersi del patrocinio autorizzato dell’Avvocatura dello Stato – scelta consentita a tutti gli enti pubblici autonomi ai qual non è applicabile il patrocinio obbligatorio (Cass. SU 10 maggio 2006, n. 10700; Cass. 29 luglio 2008, n. 20582, citate) –

tuttavia non può venire in considerazione l’applicazione della L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 4 che, a certe condizioni, consente la rimessione in termini, finalizzata a consentire la “vocatio in ius” dell’autorità amministrativa effettivamente competente in relazione alla domanda proposta e quindi la corretta instaurazione del contraddittorio, pur essendo, di norma, da escludere che, in tale ipotesi, si possa determinare la “stabilizzazione” – nei confronti dell’ente realmente destinatario della pretesa azionata – degli effetti di un atto giudiziario notificato ad altro soggetto – cui non sia imputabile il rapporto sostanziale dedotto in causa – e del conseguente giudizio instaurato nei confronti di quest’ultimo (fra le tante: Cass. 24 luglio 2003, n. 11473; Cass. 1 aprile 2005, n. 6917 e, di recente: Cass. SU 29 maggio 2012, n. 8516; Cass. 15 febbraio 2011, n. 3709; Cass. 13 gennaio 2015, n. 358);

m) infatti, l’estensione applicativa di tale norma – nata per le Amministrazioni statali anche alle ipotesi di errore verificatosi con riguardo a distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato – affermata, in sede di composizione di contrasto, da Cass. SU 29 maggio 2012, n. 8516 – trae origine dalla condivisibile preoccupazione di “non limitare la tutela giurisdizionale delle pretese vantate nei confronti della pubblica amministrazione” (di cui agli artt. 24 e 111 Cost.) “nelle non infrequenti ipotesi…. in cui la concreta individuazione dell’organo investito della rappresentanza dell’amministrazione convenuta ovvero quella del soggetto pubblico passivamente legittimato al giudizio risulti particolarmente ardua, se non aleatoria”;

n) ma, nella specie, tale ultima situazione, come si è detto, non era riscontrabile nei confronti delle Università – pacificamente prive di legittimazione sostanziale passiva – potendo, caso mai riguardare l’individuazione della Amministrazione dello Stato centrale da chiamare in giudizio, visto che solo dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 9147 del 2009, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la legittimazione passiva compete alla Presidenza del Consiglio dei ministri (vedi, per tutte: Cass. 17 maggio 2011, n. 10814 e successiva giurisprudenza conforme).

2.5.- Come si è detto, l’Avvocatura dello Stato ha fatto valere il difetto di legittimazione (sostanziale) passiva dell’Università e l’irritualità del rapporto giuridico processuale costituitosi secondo la prospettazione dei ricorrenti fin dal primo grado del giudizio, ma la relativa eccezione è stata respinta sia dal Tribunale, sia dalla Corte d’appello, ha confermato la statuizione del primo giudice, in ordine alla pertinente eccezione dell’Avvocatura dello Stato ribadita in sede di gravame.

La relativa decisione della Corte territoriale risulta fondata sull’assunto secondo cui, la legittimazione passiva dell’Università deriverebbe “dall’obbligo a carico di tale soggetto… di remunerare i ricorrenti corrispondendo la borsa di studio oggetto di contestazione”, obbligo che sarebbe sorto per effetto dell’avvenuto svolgimento presso l’Ateneo delle prestazioni degli specializzandi e per il fatto che ivi stati conclusi i relativi contratti.

La suddetta motivazione è palesemente contraria non soltanto ai su riportati principi in materia di efficacia delle direttive UE non attuate e della autonomia delle Università rispetto allo Stato (a decorrere dall’entrata in vigore della L. 9 maggio 1989, n. 168), ma non è neppure conforme alla giurisprudenza di questa Corte – che, sul punto, era ormai costante da tempo già all’epoca del giudizio di appello “de quo” – relativa specificamente alla individuazione dei soggetti legittimati passivi nelle controversie che, al pari della presente, hanno ad oggetto le pretese di coloro che hanno frequentato corsi di specializzazione universitaria per conseguire quanto ritenuto di spettanza a titolo di borse di studio e/o dei relativi accessori.

2.6.- Tale giurisprudenza ha avuto origine nella importante sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte 17 aprile 2009, n. 9147, la quale sulla base di una approfondita ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha precisato che per effetto dell’omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno.

Di conseguenza, tale sentenza ha statuito che il diritto così qualificato è configurabile soltanto nei confronti dello Stato stesso ed ha quindi ribadito la non azionabilità di tale diritto nei confronti delle Università degli Studi, presso le quali i corsi di specializzazione erano stati seguiti, trattandosi di enti privi della relativa legittimazione sostanziale.

Poco dopo Cass. 22 ottobre 2009, n. 22440, nel sottolineare specificamente l’esclusione della legittimazione passiva delle Università, ha precisato che il diritto alla reintegrazione per equivalente di quanto non fruito per il tardivo adempimento dell’obbligo di dare attuazione delle direttive comunitarie non può essere fatto valere nei rapporti con organismi diversi dall’Amministrazione centrale dello Stato – come le Università – cui non è imputabile alcun comportamento inerte.

Nel corso del tempo tale orientamento si è consolidato, soggiungendosi che la suddetta legittimazione passiva in senso sostanziale, di esclusiva attribuzione dello Stato Italiano, non riferibile alle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita, “neppure con correntemente” (vedi, per tutte: Cass. 17 maggio 2011, n. 10814).

Successivamente, il tema dell’assoluta carenza di legittimazione in senso sostanziale delle Università veniva nuovamente esaminato e ribadito funditus da Cass. 11 novembre 2011, n. 23576 e, quindi, detta carenza è stata riaffermata da numerosissime ulteriori decisioni, tra le quali: Cass. 9 gennaio 2014, n. 307; Cass. n. 1157 del 2013; n. 238 del 2013; nn. 22037, 22036, 22035, 29329, 21720, 21006 del 2012; nn. 24087, 23577, 23558, 17682 del 2011. Alle cui motivazioni si fa rinvio.

2.7.- Tale orientamento – sviluppatosi sulla base di Cass. SU n. 9147 del 2009 cit., la cui ipostazione non è mai stata modificata dalle Sezioni Unite – risulta del tutto conforme al generale canone ermeneutico dell’obbligo degli Stati UE della interpretazione del diritto nazionale in conformità con il diritto comunitario, come interpretato dalla CGUE (vedi, tra le molte, le sentenze della CGUE 5 ottobre 2004, C-397/01-403/01; 22 maggio 2003, C-462/99; 15 maggio 2003, C-160/01; 13 novembre 1990, C-106/89), sistematicamente applicato da questa Corte di cassazione (vedi, tra le tante: Cass. SU 14 aprile 2011, n. 8486; Cass. SU 16 marzo 2009, n. 6316; Cass. 18 aprile 2014, n. 9082; Cass. 30 dicembre 2011, n. 30722; Cass. 16 settembre 2011, n. 19017; Cass. 1 settembre 2011, n. 17966; Cass. 9 agosto 2007, n. 17579; Cass. 19 aprile 2001, n. 5776; Cass. 26 luglio 2000, n. 9795; Cass. 10 marzo 1994, n. 2346; Cass. 13 maggio 1971, n. 1378).

2.8.- Nella sentenza impugnata la Corte territoriale, nel punto relativo alla legittimazione passiva dell’Università, oltre a fare riferimento ai suddetti elementi del tutto irrilevanti, si limita a citare la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte 16 dicembre 2008, n. 29345.

Nella motivazione di tale sentenza – senza specifica argomentazione –

si affermava che “sia i Ministeri che l’Università sono processualmente legittimati dal lato passivo in quanto tenuti, solidalmente, al pagamento del compenso agli specializzandi, assumendo la ripartizione degli adempimenti tra gli enti medesimi una rilevanza esclusivamente interna” (richiamandosi Cass. 18 giugno 2008, n. 16507).

Orbene è del tutto evidente che tale riferimento, effettuato da parte della Corte d’appello, risulta improprio, per due principali ragioni: a) si tratta di una affermazione contenuta in una sentenza che si è pronunciata in un giudizio instaurato contro le Amministrazioni centrali dello Stato e non nei confronti delle sole Università (al pari di quelli di cui a Cass. SU 4 febbraio 2005 n. 2203 e Cass. SU 28 novembre 2007 n. 24665); b) pertanto, considerati i pacifici effetti della mancata attuazione delle direttive comunitarie in oggetto, quella su riportata non è statuizione dalla quale si possa ricavare la sussistenza di una legittimazione immediata ed esclusiva delle istituzioni universitarie, tanto più alla luce delle successive sentenze n. 9147 del 2009 e n. 22440 del 2009 citate, dalle quali si può ricavare che se la domanda, attinente le borse di studio in oggetto, sia stata formulata non soltanto nei confronti della Amministrazione statale centrale ma contestualmente anche nei confronti delle Università tale coinvolgimento degli Atenei, deve intendersi come mera “denuntiatio litis”, non vale ad attribuire loro la qualità di parte.

2.9.- Per completezza va anche precisato che pure la decisione di merito adottata dalla Corte d’appello – consistente nella condanna dell’Università convenuta a corrispondere ai ricorrenti, sull’importo delle borse di studio annualmente percepite, l’incremento annuale calcolato in base al tasso programmato di inflazione, oltre agli interessi legali (per tutto il periodo successivo al 1992 e fino al 31 dicembre 2005) – non è conforme alla giurisprudenza di questa Corte che, proprio a partire dalle sentenza delle Sezioni Unite 16 dicembre 2008, n. 29345, richiamata dalla Corte territoriale, con consolidati e condivisi indirizzi, ha, in sintesi, stabilito che, in tema di trattamento economico dei medici specializzandi e con riferimento alla domanda risarcitoria per non adeguata remunerazione:

a) l’importo della borsa di studio prevista dal D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6 non è soggetto ad incremento in relazione alla variazione del costo della vita per l’anno 1992, in applicazione di quanto disposto dalla L. 2 dicembre 1995, n. 549, art. 1, comma 33, trattandosi di misura, (vedi, Corte cost., sentenza n. 432 del 1997) non irragionevole nè discriminatoria, perchè riferita ad un arco temporale limitato e coerente rispetto al “corpus” normativo, in cui è stata inserita, volto ad impedire, anche nel settore della sanità, gli incrementi retributivi consequenziali ad automatismi stipendiali;

b) è da escludere il contrasto della predetta sospensione con la Direttiva 82/76/CEE del Consiglio del 26 gennaio 1982 (recepita con il predetto D.Lgs. n. 257 del 1991, in attuazione della L. 29 dicembre 1990, n. 428) in quanto in detta disciplina comunitaria non è rinvenibile una definizione di retribuzione adeguata, nè sono posti i criteri per la determinazione della stessa (vedi: Cass. 26 maggio 2001, n. 11565);

c) la L. 2 dicembre 1995, n. 549, (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), all’art. 1, comma 33, interpretando autenticamente le disposizioni di cui al D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art., commi 5 e 6, convertito, con modificazioni dalla L. 14 novembre 1992, n. 438, ha previsto che le suddette disposizioni debbano essere interpretate nel senso che tra le indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere, da corrispondere nella misura prevista per l’anno 1992 siano comprese le borse di studio di cui al D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6 (vedi: Cass. 13 aprile 2012, n. 5889);

d) in base alla L. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 22, (Legge Finanziaria 2000), la disposizione così interpretata ha continuato ad applicarsi anche nel triennio 1998-2000 e nel triennio 2000-2002;

e) il divieto di periodico aggiornamento delle borse di studio di cui si tratta è stato peraltro ancora confermato dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 36 (Legge Finanziaria 2003), il quale ha disposto che sino alla stipula del contratto annuale di formazione lavoro previsto dal D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, art. 37, la misura delle borse di studio corrisposte ai medici in formazione specialistica, ai sensi del D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, rimane consolidata in quella stabilita dalla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 32, comma 12 (vedi:

Cass. SU 16 dicembre 2008, n. 29345);

e) il legislatore – dettando la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11 con la quale ha proceduto ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo delle citate direttive – ha palesato una precisa quantificazione dell’obbligo risarcitorio da parte dello Stato, valevole con nei confronti di tutte le categorie che, dopo il 31 dicembre 1982, si siano trovate nelle condizioni fattuali idonee all’acquisizione dei diritti previsti dalle direttive comunitarie, senza però essere ricompresi nel D.Lgs. n. 257 del 1991, anche se non erano ricompresi nel citato art. 11;

f) a seguito di tale esatta determinazione monetaria, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive si è sostituita un’obbligazione avente natura di debito di valuta, avente ad oggetto una somma di denaro liquida ma non ancora esogibile, rispetto alla quale – secondo le regole generali di cui agli artt. 1219 e 1224 c.c. – gli nteressi legali possono essere riconosciuti solo dall’eventuale messa in mora o, in difetto, dalla notificazione della domanda giudiziale (Cass. 9 febbraio 2012, n. 1917 e successiva giurisprudenza conforme);

g) il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva 26 gennaio 1982, n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive 16 giugno 1975, n. 75/362/CEE e n. 76/362/CEE, spettante ai soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica negli anni considerati si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11 che ha dato attuazione a tali direttive, senza che possa avere alcuna influenza al riguardo la sopravvenuta disposizione di cui alla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43, – secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento di direttive comunitarie soggiace alla disciplina dell’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato –

trattandosi di norma che, in difetto di espressa previsione, non può che spiegare la sua efficacia rispetto a fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore, cioè al 1 gennaio 2012 (Cass. 9 febbraio 2012, n. 1917; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1850;

Cass. 26 giugno 2013, n. 16104).

2.10.- Pertanto, la Corte d’appello, anzichè riconoscere la rivalutazione monetaria, avrebbe dovuto tenere conto dei suddetti principi, stabilendo l’importo spettante ai ricorrenti, sulla base della normativa applicabile ratione temporis, considerando, in particolare, il contenuto precettivo della L. n. 370 del 1999, art. 11 quale delineato dalla giurisprudenza di questa Corte. In particolare, sulle somme dovute per ciascun anno, determinate alla stregua della L. n. 370 del 1999, art. 11, la Corte milanese avrebbe dovuto riconoscere gli accessori soltanto dalla data dell’eventuale messa in mora o, in mancanza, dalla notificazione della domanda giudiziale (vedi, al riguardo, per tutte: Cass. SU 16 luglio 2008, n. 19499).

4 – Conclusioni.

3.- Detto questo, dato la prioritaria rilevanza del difetto di legittimazione sostanziale passiva dell’Università di Pavia, come denunciato nel primo motivo di ricorso, tale motivo deve essere accolto, con assorbimento degli altri motivi.

Dal suddetto accertamento di erronea instaurazione del contraddittorio discende la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, atteso che la causa non poteva essere proposta nei confronti della suddetta Università, unico ente convenuto in giudizio. E questo toglie in radice ogni possibilità di prosecuzione dell’azione (vedi: Cass. SU 9 febbraio 2012, n. 1912).

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, va dichiarato il difetto di legittimazione passiva dell’Università degli Studi di Pavia, unico ente convenuto in giudizio.

Per quel che riguarda le spese giudiziali, va disposta la compensazione, tra le parti, delle spese dei due gradi di merito, in considerazione della natura delle questioni trattate, mentre le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Cassa senza rinvio la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, dichiara il difetto di legittimazione passiva dell’Università degli Studi di Pavia, unico ente convenuto in giudizio. Compensa, tra le parti, le spese processuali con riguardo ai due gradi di merito del giudizio.

Condanna tutti gli originari ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, complessivi Euro 8000,00 (ottomila/00) per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 16 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2016

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