Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12342 del 10/05/2021

Cassazione civile sez. lav., 10/05/2021, (ud. 19/02/2020, dep. 10/05/2021), n.12342

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13090-2016 proposto da:

ASPROL SICILIA SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dagli avvocati MARIO MANZO, ANNA MARIA SERIO;

– ricorrente –

contro

M.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato VINCENZO AVANZATO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1536/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 28/12/2015 R.G.N. 1356/2013.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che il Tribunale di Agrigento, con la sentenza n. 1048/2012, ha respinto il ricorso proposto da M.G., nei confronti di Asprol-Sicilia Soc. Cooperativa Agricola p.A., diretto ad ottenere la condanna della società a corrispondergli la somma complessiva di Euro 52.967,09 a titolo di differenze retributive, compenso per lavoro straordinario e trattamento di fine rapporto per l’attività lavorativa asseritamente svolta alle dipendenze della società dal 10.12.1996 al 31.5.2006, “con prestazione dell’attività, fino all’1.1.2002, dalle 8.30 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.30, dal lunedì al venerdì e, per il restante periodo, dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 18.30, dal lunedì al venerdì, e tutti i sabati dalle 9.00 alle 13.00”;

che la Corte di Appello di Palermo, con sentenza depositata il 28.12.2015, in parziale accoglimento del gravame interposto dal M., avverso la pronunzia di prima istanza, ha condannato la società appellata a corrispondere all’appellante, la complessiva somma netta di Euro 5.715,83, comprensiva di rivalutazione monetaria ed interessi calcolati al 24.10.2015, oltre alla ulteriore rivalutazione monetaria ed agli interessi dalla data predetta fino al saldo, per differenze retributive relative al periodo intercorrente tra “la formalizzazione del rapporto sino all’attribuzione del livello quarto” ed altresì per la differenza maturata a titolo di trattamento di fine rapporto, confermando per il resto la sentenza impugnata e compensando “per due terzi le spese processuali di entrambi i gradi del giudizio con condanna dell’appellata alla rifusione, in favore dell’appellante, della restante parte, liquidata in Euro 1.000,00 per il primo grado ed in Euro 1.200,00 per il secondo, a titolo di compensi, oltre oneri di legge”;

che per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Asprol-Sicilia Soc. Cooperativa Agricola p.A. articolando sei motivi;

che M.G. ha resistito con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il ricorso, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2 e art. 345 c.p.c., comma 1, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si lamenta che la decisione assunta dalla Corte distrettuale sia violativa delle norme citate, in quanto la domanda inerente alle differenze retributive tra la quarta categoria, in cui il M. era stato inquadrato per promozione dall’1.1.2000, e la quinta categoria di assunzione (1.1.1998), sarebbe stata avanzata soltanto in sede di gravame, in cui si afferma che “all’appellante spetti l’inquadramento nella quarta categoria fin dalla data di inizio rapporto in relazione al contenuto intrinseco delle mansioni svolte”; 2) la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè la sentenza impugnata sarebbe affetta da vizio di ultrapetizione, avendo liquidato il TFR per gli anni 1998-1999 per intero e non per la differenza tra il quarto livello, rivendicato solo in appello, ed il quinto livello “in cui il M. era stato effettivamente inquadrato e pagato anche relativamente al TFR”; 3) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere la Corte di merito esaminato le note autorizzate depositate dalla società, in cui venivano sollevate critiche alla c.t.u. in ordine al quantum debeatur; 4) la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “per vizio di motivazione così radicale per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ed illogicità manifesta da comportare la nullità della sentenza” in cui, da un lato, si afferma che “Sulla base di risultanze probatorie non appaiono provati nè la preesistenza del rapporto di lavoro da epoca antecedente a quella in cui lo stesso era stato formalizzato, nè l’asserito svolgimento di lavoro straordinario”, mentre, dall’altro, si osserva che “Di contro, deve ritenersi che all’appellante spetti l’inquadramento nella quarta categoria fin dalla data di inizio rapporto in relazione al contenuto intrinseco delle mansioni svolte”; 5) la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 del CCNL 13.11.1996 per i quadri e gli impiegati delle aziende agricole, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di secondo grado fatto erroneamente retroagire l’inquadramento nella quarta categoria sin dalla data di assunzione, in difetto di “qualsiasi previsione normativa in tal senso”; 6) la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e art. 92 c.p.c., comma 2, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere i giudici di secondo grado compensato erroneamente, nella misura di due terzi, le spese di lite di entrambi i gradi di merito, mentre, dato anche l’esito del giudizio di prima istanza, sarebbe stato equo compensare integralmente le spese del primo grado e di circa il 90% quelle del secondo grado;

che il primo motivo non è fondato; al riguardo, è da premettere che la proposizione in appello di una domanda nuova e diversa da quella fatta valere in primo grado si configura “allorquando la causa petendi dedotta, essendo fondata su circostanze ed elementi non prospettati in precedenza, importi il mutamento di fatti costitutivi del diritto azionato in giudizio ed introduca nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione che alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia” (v., ex plurimis, Cass. nn. 17176/2014; 16298/2010; 20265/2005); nella fattispecie, invece, dal ricorso introduttivo del giudizio di primo grado del M. (prodotto dalla società ricorrente unitamente al ricorso di legittimità), si evince con chiarezza che il lavoratore aveva formulato la domanda (riproposta in sede di gravame) relativa al riconoscimento delle differenze retributive tra il quarto ed il quinto livello, specificando di avere svolto, dal momento dell’assunzione, sempre le medesime mansioni, nonostante, inizialmente, fosse stato inquadrato nel quinto livello e, solo successivamente, al momento della promozione, nel quarto. Pertanto, all’evidenza, non si è in presenza di una domanda nuova, rimanendo la causa petendi fondata sulle stesse circostanze e sugli stessi elementi prospettati in precedenza e ritualmente riproposti in appello;

che il secondo motivo non è meritevole di accoglimento, non ricorrendo nella sentenza oggetto del presente giudizio alcun vizio di ultrapetizione. Ed invero, perchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità la violazione dell’art. 112 del codice di rito sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, deve prospettarsi, in concreto, l’omesso esame di una domanda o la pronunzia su una domanda non proposta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 13482/2014; 9108/2012; 7932/2012; 20373/2008); ipotesi, queste, che non si profilano nel caso di specie, in cui i giudici di seconda istanza, ricostruita correttamente l’ipotesi fattuale per cui è causa, ed avuto riguardo alla domanda (proposta in primo grado – ripetesi – e reiterata nell’atto di gravame) relativa alle differenze retributive e di TFR tra i due livelli di cui si tratta, hanno reputato, sulla base degli elementi delibatori a sostegno, che “Non v’è dubbio che l’attività disimpegnata dall’appellante, così come delineata dalle prove assunte, sia perfettamente riconducibile al cennato livello” (il quarto, appunto), “anche ove si consideri che le mansioni disimpegnate sono rimaste immutate pur dopo l’attribuzione formale dell’inquadramento predetto”; ed hanno, altresì, specificato che “Nel corso del giudizio è stata effettuata consulenza tecnica, al fine di quantificare le differenze di trattamento retributivo per il periodo andante dalla formalizzazione del rapporto sino all’attribuzione del livello quarto, nonchè la differenza maturata a titolo di trattamento di fine rapporto”: e, dunque, la parte di TFR liquidata è solo quella relativa alla differenza (e non all’intero) tra le due qualifiche con riferimento al periodo innanzi specificato;

che il terzo motivo è inammissibile, poichè, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata depositata, come riferito in narrativa, il 28.12.2015, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, i motivi di ricorso che denunciano il vizio motivazionale non indicano il fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fanno riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare”, in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della pronunzia per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015) che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche congrue poste a fondamento della decisione impugnata, anche in considerazione del fatto che le censure mosse in sede di appello alla disposta c.t.u. sono state, all’evidenza, superate dai giudici di seconda istanza, i quali hanno dichiarato di “condividere integralmente le conclusioni del C.t.u., in quanto immuni da vizi logici e coerenti con gli accertamenti espletati” (v. pag. 3 della sentenza impugnata);

che il quarto motivo – teso, nella sostanza, ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede, e per il quale valgono anche le considerazioni svolte in ordine al mezzo di impugnazione che precede – non può essere accolto, non potendosi ravvisare alcun “radicale contrasto” (al riguardo, e tra le molte, cfr. Cass. n. 2220/2019) tra il fatto che, “sulla base di risultanze probatorie, non appaiono provati nè la preesistenza del rapporto di lavoro da epoca antecedente a quella in cui lo stesso era stato formalizzato, nè l’asserito svolgimento di lavoro straordinario” e la conclusione cui la Corte di merito è pervenuta circa la spettanza all’appellante “dell’inquadramento nella quarta categoria fin dalla data di inizio rapporto in relazione al contenuto intrinseco delle mansioni svolte”, in quanto, come innanzi, più volte, sottolineato, i giudici di secondo grado hanno riconosciuto al M. solo le differenze retributive e di TFR afferenti al periodo che intercorre tra la formalizzazione del rapporto e l’effettivo riconoscimento del quarto livello, confermando, nel resto (e, quindi, relativamente al rigetto dello straordinario e del riconoscimento della sussistenza del rapporto di lavoro in epoca antecedente alla formalizzazione dello stesso), la sentenza del primo giudice;

che il quinto motivo non è meritevole di accoglimento, poichè le violazioni lamentate attengono all’esegesi (in particolare, dell’art. 12) del CCNL di categoria 13.11.1996, che non è stato prodotto (e neppure indicato nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso per cassazione), nè trascritto per intero, ma solo relativamente ad alcune parti della disposizione che si assume incisa, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014, cit.). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). E, comunque, questo Collegio osserva, al riguardo, che la Corte di Appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il profilo logico-giuridico (v. pag. 3 della sentenza impugnata), è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di legittimità dopo aver vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado in ordine alle mansioni svolte dal lavoratore sin dal momento della formalizzazione del rapporto e la disamina della declaratoria contrattuale (cfr., ex plurimis, Cass. n. 17163/2016);

che il sesto motivo non è fondato, in quanto – anche a prescindere dal fatto che il medesimo è stato sollevato in riferimento al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, che attiene ad un error in procedendo, mentre, evidentemente, si tratta di un error in iudicando -, in materia di spese giudiziali, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., nella formulazione vigente ratione temporis, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 20598/2008, hanno sottolineato che il provvedimento di compensazione totale o parziale delle spese deve “trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purchè, tuttavia, le ragioni giustificatrici siano chiaramente ed inequivocabilmente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito (o di rito)” (cfr., altresì, Cass. nn. 21521/2010; 26466/2011); orbene, la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è rispettosa dei canoni evidenziati dalle Sezioni Unite di questa Corte (relativamente all’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo vigente prima della riforma operata dalla L. n. 69 del 2009 ed applicabile al presente giudizio instaurato in primo grado il 29.5.2007, quindi prima del 4.7.2009 – ai sensi dell’art. 58 della predetta legge), posto che, a pag. 3, si dà conto del fatto che “Il notevole ridimensionamento delle iniziali pretese dell’appellante giustifica la compensazione per due terzi delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio”; e la misura della compensazione rientra in una valutazione di merito, scaturente (in modo del tutto corretto nella fattispecie) dalla valutazione complessiva dell’esito del giudizio;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;

che le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 19 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2021

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