Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12322 del 19/05/2010

Cassazione civile sez. I, 19/05/2010, (ud. 20/01/2010, dep. 19/05/2010), n.12322

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

N.A. quale unico erede di A.G.,

elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato MARRA ALFONSO LUIGI, giusta

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope

legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 53478/05 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

13.3.06, depositato il 22/09/2006;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/01/2010 dal Consigliere Relatore Dott. DIDONE Antonio;

E’ presente il P.G. in persona del Dott. APICE Umberto.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

1.- La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. e’ del seguente tenore: “ N.A. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al Tribunale di Nola, avente ad oggetto il riconoscimento di somme dovute dall’INPS a titolo di indennita’ di accompagnamento, proposto con ricorso del 30 maggio 2001, accolto con sentenza del 7 ottobre 2004. La Corte d’appello di Roma, con decreto del 22 settembre 2006, fissata la durata ragionevole del giudizio dinanzi al Tribunale in anni due e mesi sei, riteneva violato il relativo termine per mesi undici e liquidava il danno non patrimoniale, in difetto di circostanze che ne dimostravano l’insussistenza, in Euro 800,00 per ciascun anno di ritardo, quindi, in complessivi Euro 750,00, condannando altresi’ il Ministero della giustizia a pagare le spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 580,00.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso N. A., affidato a quindici motivi; ha svolto attivita’ difensiva il Ministero della giustizia.

Osserva:

1.- Con i primi nove motivi e’ denunciata erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 par. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonche’ della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; artt. 112 e 132 c.p.c.) e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni:

a) questioni relative alla efficacia della CEDU nell’ordinamento interno ed all’efficacia vincolante per il giudice nazionale della giurisprudenza della Corte EDU (sostanzialmente riproposta in tutti i motivi, richiamando sentenze della Corte europea e di questa Corte;

in tutti i motivi e’ anche reiterata la tesi della vincolativita’ del parametro temporale e di liquidazione del danno stabiliti dalla Corte EDU; nel primo riassuntivamente, in buona sostanza, sono indicati gli argomenti poi ribaditi negli altri mezzi) ed e’ formulato il seguente quesito “la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU ?” (primo motivo).

b) Questioni relative alla durata ed al periodo di tempo di riferimento per la liquidazione del risarcimento (peraltro, nonostante la formulazione di specifici quesiti in ordine a questi profili, sono svolti su di essi argomenti anche nei motivi sintetizzati sub e), poiche’ il ricorso ribadisce e reitera le stesse questioni, piu’ volte, in modo logicamente non coerente).

L’istante deduce che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in due anni per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo ed un anno per la fase di legittimita’, non sarebbe applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza e sono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: “e’ corretto determinare (…) la durata ragionevole del processo in anni due per il primo grado e in un anno e mezzo per il giudizio di appello, ovvero qual e’ la durata ragionevole del presente processo ?” (secondo motivo); “il periodo da considerare ai fini della liquidazione dell’”equo indennizzo” di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 par. 1 CEDU va considerato in relazione al tempo eccedente la ragionevole durata e quindi il solo ritardo (in applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lett. a), ovvero all’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza CEDU sent. 11/10/2004 e 29/03/2006), dovendosi integrare ed applicare la normativa della CEDU, sopranazionale a quella nazionale ?” (terzo motivo) e (richiamando alcune sentenze della Corte EDU e ribadendo il vincolo derivante dalla CEDU), “una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato per l’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza di Strasburgo) ovvero solo per il periodo eccedente tale durata (come previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lett. a)”(quinto motivo);

c) Questioni concernenti la quantificazione del danno (anche dette questioni, benche’ oggetto dei quesiti sub e), sono reiterate nei motivi sintetizzati sub b), poiche’ il ricorso ribadisce e reitera le stesse questioni).

Secondo l’istante, il decreto sarebbe carente di motivazione nel punto concernente la quantificazione del danno in misura diversa da quella di Euro 1.000,00 – 1.500,00 ed e’ dedotto che, accertata la violazione del termine di ragionevole durata, e’ vincolante il parametro fissato dalla Corte EDU; inoltre, nelle cause aventi ad oggetto la materia previdenziale dovrebbe essere liquidato un bonus di Euro 2.000,00.

1.1.- I motivi dal decimo al quindicesimo denunciano violazione dell’art. 6, 1 CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 91 e 92, 112 e 132 c.p.c., delle tariffe professionali, nonche’ difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5, artt. 112 e 132 c.p.c.), nella parte concernente la liquidazione delle spese del giudizio e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni: a) la liquidazione delle spese – nonche’ la decurtazione della nota spese, operata in difetto di motivazione – incide sul diritto della parte e dell’avvocato e le stesse devono essere poste a carico del soccombente, specie nel giudizio nel quale vi e’ una parte debole (sono richiamate alcune sentenze della Corte EDU) ed e’ formulato il seguente quesito di diritto “e’ legittimo, con riferimento alla fattispecie che ci occupa, un accoglimento della domanda con liquidazione di spese insufficiente o parziale compensazione delle spese, anche in considerazione dell’art. 1 prot.

add CEDU direttamente applicabile al caso di specie ?” (motivo 10);

b) nella specie dovrebbe aversi riguardo alle tariffe per il giudizio innanzi alla Corte EDU e, comunque, non alla tariffa concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, poiche’ questa Corte, in alcune sentenze (richiamate) avrebbe escluso che quello in esame sia riconducibile a detta categoria di procedimenti, con conseguente applicabilita’ della tabella B 1^ per i diritti e della tabella A 3^ per gli onorari” ed e’ formulato il seguente quesito di diritto “alla fattispecie concreta e con riguardo alle spese di lite, premesso che trattasi di un procedimento ordinario contenzioso (e non di v.g.) vanno applicate le tariffe professionali per i procedimenti ordinari contenziosi (e non quelli di volontaria giurisdizione) ?” (motivo 11) ed il decreto sarebbe, comunque carente di motivazione sul capo della liquidazione delle spese (motivo 12) e si sarebbe posto in contrasto con le quantificazioni operate da questa Corte (sono indicate alcune somme senza indicazione delle sentenze) ed e’ formulato il seguente quesito “le spese liquidate dal giudice di primo grado sono sufficienti in relazione all’attivita’ svolta, alle tariffe professionali vigenti, alla nota spese ed alle liquidazioni eseguite dalla Corte di cassazione ?” (motivo 13);

si sostiene che emergerebbe chiara la violazione di legge ed e’ formulato il seguente quesito «puo’ il giudice, nel liquidare le spese ed in presenza di nota spese specifica, disattendere la stessa liquidando spese, diritti ed onorari inferiori a quelli richiesti e comunque escludere o ridurre alcune delle voci tariffarie indicate nella nota spese ?” (motivo 14) e sul punto e’ denunciato anche difetto di motivazione riportando nel ricorso la nota spese depositata nel giudizio innanzi alla Corte d’appello (motivo 15).

2.- I motivi indicati nel 1, che possono essere esaminati congiuntamente, perche’ logicamente connessi.

In linea preliminare va peraltro evidenziata la manifesta ^r inammissibilita’ delle argomentazioni (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, non correlate alla ratio decidendi del decreto, che ha in parte accolto la domanda. Analoga conclusione si impone in ordine alle deduzioni che contengono generiche affermazioni sulla diretta applicabilita’ delle sentenze della Corte di Strasburgo, formulate in modo del tutto inconferente e scollegato con la motivazione del decreto.

Posta questa premessa, si osserva: a) relativamente alle questione sub a), ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtu’ del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004). In termini analoghi e’ il principio enunciato dalla Corte costituzionale, che, contrariamente all’assunto dell’istante, che si palesa percio’ manifestamente erroneo, ha affermato che al giudice nazionale «spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio’ sia permesso dai testi delle norme. Qualora cio’ non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilita’ della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimita’ costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1” (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla “non applicazione” della norma interna, in virtu’ di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.

In questi termini e’ il principio che puo’ essere enunciato in relazione al quesito posto con il primo motivo.

b) In ordine alle questioni sintetizzate sub b), e’ manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilita’ di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato, identificato nella specie, con argomentazioni talora anche scarsamente chiare, in quello sopra indicato. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessita’ della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonche’ quello di ogni altra autorita’ chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificita’ del caso che egli e’ chiamato a valutare. La violazione del principio della ragionevole durata del processo va dunque accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005; n. 21391 del 2005; n. 1094 del 2005; n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004).

In tal senso e’ orientata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98) e che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimita’. Ed e’ questo parametro che va osservato, dal quale e’ tuttavia possibile discostarsi, purche’ in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nella L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez.un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate). In questi termini e’ il principio che puo’ essere enunciato in relazione al quesito posto con il secondo motivo. Nel caso di specie, la Corte di merito si e’ mantenuta ampiamente entro lo standard della Corte europea, indicando come ragionevole la durata di due anni e mezzo.

Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuita’, la precettivita’, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo:

mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale e’, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale e’ influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversita’ di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007). In questi termini e’ il principio che puo’ essere enunciato in relazione ai quesiti posti.

c) In ordine alle questioni concernenti la quantificazione dell’indennizzo, manifestamente infondato e’ il motivo attinente alla determinazione del danno non patrimoniale, giacche’ la somma liquidata per anno di ritardo dalla Corte d’appello di Roma (Euro 800,00) non si discosta dai parametri elaborati dalla Corte europea e recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte. Infatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come la valutazione dell’indennizzo per danno non patrimoniale resti soggetta – a fronte dello specifico rinvio contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2 – all’art. 6 della Convenzione, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni effettuate in casi similari dal Giudice europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facolta’ di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purche’ in misura ragionevole (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1340). In particolare, detta Corte, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 proposto da R.P. e sul ricorso n. 64897/01 Z.), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo, ferma restando la possibilita’ di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarita’ della fattispecie, quali l’entita’ della posta in gioco e il comportamento della parte istante (cfr., ex multis, Cass., Sez. 1^, 26 gennaio 2006, n. 1630). La Corte di merito, nel discostarsi ragionevolmente dalla soglia minima di Euro 1.000,00 ad anno di ritardo, ha dato rilievo alla entita’ della posta in gioco e alla scarso ritardo.

Non puo’ essere seguita la censura in ordine al mancato riconoscimento del bonus di Euro 2.000,00, giacche’ ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, non puo’ ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui va riconosciuta una somma forfetaria nel caso di violazione del termine nei giudizi aventi particolare importanza, fra cui anche la materia del lavoro o previdenziale; da tale principio, infatti, non puo’ derivare automaticamente che tutte le controversie di tal genere debbano considerarsi di particolare importanza, spettando al giudice del merito valutare se, in concreto, la causa di lavoro abbia avuto una particolare incidenza sulla componente non patrimoniale del danno, con una valutazione discrezionale che non implica un obbligo di motivazione specifica, essendo sufficiente, nel caso di diniego di tale attribuzione, una motivazione implicita (Cass., Sez. 1^, 14 marzo 2008, n. 6898).

I motivi attinenti alle spese possono essere esaminati congiuntamente, perche’ logicamente connessi. Essi non colgono nel segno.

In linea preliminare, va evidenziata la manifesta inammissibilita’ delle censure (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, in quanto non correlate alla ratio decidendi del decreto e che in nessun modo tengono conto della fattispecie, con cui: si fa riferimento ai presupposti della compensazione, nella specie non disposta; alla deduzione che la Corte territoriale avrebbe applicato la tariffa per i procedimenti di volontaria giurisdizione, mancando ogni accenno al riguardo ed evincendosi dal quantum liquidato il riferimento alla tariffa nella parte stabilita per i procedimenti contenziosi; alla astratta deduzione in ordine alla ammissibilita’ della riduzione delle spese dedotte nella nota, svincolate da ogni riferimento al caso di specie. Posta questa premessa, le questioni poste vanno risolte facendo applicazione dei seguenti principi, gia’ enunciati da questa Corte:

la L. n. 89 del 2001 non reca nessuna specifica norma in ordine al regime delle spese all’esito dello svolgimento del processo camerale di cui agli artt. 3 e 4 e, in virtu’ del richiamo ivi effettuato, si applicano sul punto le norme del codice di rito, avendo anche il legislatore dimostrato attenzione a questo profilo, esonerando il ricorrente dal contributo unificato (L. n. 89 del 2001, art. 5 bis e, successivamente, D.Lgs. n. 115 del 2002, artt. 10 e 265) (Cass. n. 23789 del 2004);

le disposizioni dell’art. 91 c.p.c. e segg. in tema di spese processuali trovano applicazione, in linea generale, nel procedimento camerale nel caso in cui questo statuisca su posizioni soggettive in contrasto, come accade nella specie, senza che nessun ostacolo all’applicazione di detta normativa provenga dalla Convenzione CEDU, ovvero dal Protocollo aggiuntivo (Cass. n. 12021 del 2004), restando esclusa l’applicazione analogica delle disposizioni sulle spese vigenti per i procedimenti innanzi alla Corte di Strasburgo (Cass. n. 1078 del 2003);

dalla CEDU non discende un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l’equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione, dovendosi escludere che l’assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali, e quindi al principio della soccombenza, possa integrare un’attivita’ dello Stato che “miri alla distruzione dei diritti o delle liberta’” riconosciuti dalla Convenzione o ad “imporre a tali diritti e liberta’ limitazioni piu’ ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione” (Cass. n. 18204 del 2003);

la configurazione del procedimento disciplinato dalla L. n. 89 del 2001 quale procedimento contenzioso comporta l’applicabilita’ della Tab. A-4^ e della Tab.B-1^. In questi termini sono i principi che possono essere enunciati in riferimento ai quesiti qui in esame.

Inoltre, va ricordato che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che censura in sede di legittimita’ la liquidazione delle spese processuali e’ tenuta ad indicare in modo specifico ed autosufficiente quali siano le voci della tabella forense non applicate dal giudice del merito, elencando in dettaglio le prestazioni effettuate, per voci ed importi, cosi’ consentendo al giudice di legittimita’ il controllo di tale error in iudicando, pena l’inammissibilita’ del ricorso (Cass. n. 17059 del 2007; n. 8160 del 2001), senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti (Cass. n. 3651 del 2007; n. 2626 del 2004). La doglianza richiede, inoltre, che dall’erronea applicazione delle voci della tariffa applicata sia conseguita la lesione del principio dell’inderogabilita’ ed il ricorrente non puo’, dunque, limitarsi alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilita’ della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, in quanto, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, tenuto conto della natura del vizio, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonche’ le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. n. 14744 del 2007; n. 9082 del 2006; n. 13417 del 2001).

Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto, posto che il ricorrente ha dedotto che il decreto avrebbe erroneamente individuato le voci della tariffa forense applicabili, omettendo del tutto di indicare che cio’ avrebbe comportato la violazione del principio di inderogabilita’, procedendo sia alla specifica indicazione dell’attivita’ svolta (in punto di numero di udienze in camera di consiglio alle quali ha partecipato, di atti depositati) sia alla trascrizione delle singole voci per le quali cio’ sarebbe accaduto (con specifica indicazione per ciascuna di esse della corrispondente voce della tariffa ritenuta applicabile e non, come e’ accaduto, mediante la mera trascrizione nel ricorso della nota spese).

Pertanto, il ricorso puo’ essere trattato in camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge”.

2.- Il Collegio condivide solo parzialmente le conclusioni della relazione e le argomentazioni che le sorreggono e che conducono al rigetto del ricorso.

Invero, quanto alle censure relative alle spese va evidenziato che il ricorrente ha allegato al ricorso copia della parcella depositata dinanzi alla Corte territoriale.

In applicazione dei principi richiamati nella relazione, la considerazione che il decreto ha liquidato i diritti in Euro 150,00, pur non esplicitamente richiamando la Tab. A-7^, 50-B e la Tab. B-3^- 75 rende palese la fondatezza della censura, dovendo invece applicarsi la Tab. B-1^ (per i diritti) e la Tab. A-4^ per gli onorari, ovviamente relativamente alle sole voci per le quali e’ stata documentata l’attivita’ svolta.

Entro questi limiti i mezzi possono essere accolti.

Il decreto va quindi cassato limitatamente al capo concernente le spese e la causa decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, mediante la liquidazione delle spese dovute per il giudizio di merito, in applicazione delle regole sopra indicate.

Le spese di legittimita’ vanno compensate per due terzi, sussistendo giusti motivi, stante il limitato e parziale accoglimento del ricorso.

PQM

LA CORTE accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna l’Amministrazione a corrispondere alla parte ricorrente le spese del giudizio:

che determina per il giudizio di merito nella somma di Euro 50,00 per esborsi, Euro 280,00 per diritti e Euro 445,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore del difensore antistatario; che compensa in misura di 2/3 per il giudizio di legittimita’, gravando l’Amministrazione del residuo 1/3 e che determina per l’intero in Euro 330,00 di cui euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore del difensore antistatario.

Cosi’ deciso in Roma, il 20 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2010

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