Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1232 del 21/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/01/2021, (ud. 11/01/2021, dep. 21/01/2021), n.1232

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28150/2015 R.G. proposto da:

Vibac s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via XX settembre n. 1, presso lo

studio dell’avv. Eugenio della Valle, che la rappresenta e difende

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 462/22/15 della Commissione tributaria

regionale del Piemonte, depositata in data 23 aprile 2015;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11 gennaio

2021 dal Consigliere Fraulini Paolo.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Commissione tributaria regionale del Piemonte ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto l’impugnazione proposta dalla Vibac s.p.a. avverso l’avviso n. (OMISSIS), relativo ad accertamento di maggior reddito a fini Irap per l’anno di imposta 2006.

2. La CTR ha rilevato che, in tema di determinazione della corretta applicazione della normativa fiscale sui prezzi di trasferimento di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7 (in prosieguo, breviter, Tuir), l’Erario ha il solo onere di provare che le transazioni contestate sono avvenute all’interno di un gruppo di società, spettando al contribuente di fornire la prova della “normalità” del prezzo fissato rispetto alle condizioni di mercato. Ha, poi, soggiunto che il valore normale è quello praticato in condizioni di libera concorrenza. Da tali premesse, il giudice di secondo grado ha dedotto che, nel caso di specie, pacifico essendo il collegamento societario tra la ricorrente e le società estere, la giustificazione fornita per dimostrare la “normalità” del prezzo della cessione delle royalties della controllante sul marchio dei prodotti da distribuire a opera delle sue controllate estere non era congrua: essa, infatti, si identificava con la necessità di garantire alle controllate straniere una maggiore competitività sul mercato di riferimento, come conseguenza di un eccesso di domanda. Ma tale esigenza, se giustificabile in un orizzonte temporalmente limitato, non ne giustificava il mantenimento senza limite finendo, in tal caso, per creare una distorsione alla libera concorrenza. Tanto determinava la legittimità dell’avviso impugnato, che aveva corretto in aumento la percentuale della cessione delle royalties sul fatturato ricavato dalle controllate estere. Sotto altro profilo, la CTR riteneva illegittima la pretesa della contribuente di escludere, dalla base di calcolo su cui computare le royalties, il fatturato relativo alle vendite effettuate dalle due collegate estere ad altra società del gruppo.

3. Per la cassazione della citata sentenza Vibac s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi; l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

i. Il ricorso lamenta:

a. Primo motivo: “Nullità della sentenza per mancanza assoluta di motivazione sotto il profilo della contraddittorietà e della illogicità manifesta (con conseguente motivazione apparente): violazione dell’art. 111 Cost., del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62”, deducendo l’irriducibile contrasto motivazionale determinato da affermazioni tra loro inconciliabili e contrastanti in tema di determinazione del valore normale della percentuale delle royalties dovuto per l’utilizzo del marchio.

b. Secondo motivo: “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9 e art. 110, commi 2 e 7, e del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, deducendo l’erroneità della pronuncia impugnata per aver ritenuto che la riduzione sul prezzo delle royalties, nel caso di specie, non potesse essere riconducibile al canone di normalità previsto dalla normativa denunciata come lesa.

c. Terzo motivo: “Violazione e falsa applicazione del TUIR, art. 9 e art. 110, commi 2 e 7, nonchè del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, deducendo l’erroneità della pronuncia impugnata, laddove ha ritenuto di negare la legittimità della pretesa della contribuente di escludere, dalla base di calcolo su cui computare le royalties, il fatturato relativo alle vendite effettuate dalle due collegate estere ad altra società del gruppo.

2 L’Agenzia delle Entrate argomenta nel controricorso l’inammissibilità dell’impugnazione avversa, di cui chiede comunque il rigetto.

3. Il ricorso va respinto.

4. Il primo motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (Sentenza n. 22232 del 03/11/2016) la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. Tali essendo i confini definitori della fattispecie, nel caso che ne occupa la CTR ha identificato in motivazione la ragione del proprio convincimento; l’eventuale contraddittorietà delle affermazioni, come in sostanza denuncia la censura in esame, non può condurre alla nullità della pronuncia, se non nei casi in cui non sia in alcun modo possibile comprendere la ratio decidendi. Tale circostanza è, tuttavia, estranea al caso di specie, potendo la correttezza delle argomentazioni espresse in motivazione essere censurata con altri rimedi previsti dall’art. 360 c.p.c., ciò che, peraltro, è esattamente avvenuto anche nel caso di specie.

5. Il secondo e il terzo motivo, che per la loro intima connessione possono essere unitamente considerati, sono infondati. Questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 5645 del 02/03/2020), in tema di tema di reddito di impresa, in fattispecie analoga alla presente in cui si controverteva di diritti di licenza sui marchi infragruppo, ha affermato il condivisibile principio, che va espressamente ribadito, secondo cui il valore “normale” della transazione commerciale infragruppo di cui al Tuir, art. 9, comma 3, va determinato in base al metodo del prezzo di rivendita (“Resale Price Method”), in aderenza ai criteri della circolare del n. 32/9/2267 del 1980 e del rapporto OCSE del 1995. Più in particolare, si è affermato che il capitolo V della circolare in esame, relativo alle cessioni dei beni immateriali (come il marchio di impresa) prevede, in linea generale, che anche per tale tipo di transazione l’indagine dell’Amministrazione deve ispirarsi al principio del prezzo di libera concorrenza, “che sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti”. Tuttavia, in ragione dell’unicità del bene trasferito, che difficilmente consente l’individuazione di transazioni comparabili, la medesima circolare, pur non escludendo che in alcuni casi possa trovare applicazione uno dei criteri base adottati per le cessioni dei beni materiali (confronto, rivendita o costo maggiorato), evidenzia che non va trascurato che un contratto di licenza dipende essenzialmente dalle previsioni del risultato che potrà essere conseguito dal licenziatario nel territorio cui si riferisce il diritto di sfruttamento e che è, dunque, necessaria l’elaborazione di metodi sussidiari di valutazione, sempre ispirati al principio del prezzo di libera concorrenza, ossia al prezzo che sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti. In ordine alla determinazione del canone concernente l’utilizzazione di beni immateriali, nella circolare si osserva che esso risente notevolmente delle caratteristiche specifiche del settore economico al quale il diritto immateriale si riferisce e che, in genere, esso viene commisurato percentualmente al fatturato del licenziatario, per cui il riferimento a tali indici costituisce un valido dato iniziale per l’accertamento del “valore normale”.

6. In via altrettanto generale, va evidenziato come la compatibilità delle normative interne degli Stati membri dell’Unione Europea con la libertà di stabilimento, è stata di recente oggetto della sentenza della Corte di giustizia UE 8 ottobre 2020, in causa C558/19 (caso imprese Pizzarotti), nella quale si è affermato che il principio per cui la disciplina sui prezzi di trasferimento prevista in uno Stato membro comporta una restrizione alla libertà di stabilimento, che può essere giustificata solo con l’obiettivo di garantire la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri; si è, poi, aggiunto che la limitazione è proporzionata solo se il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali che giustifichino la scelta compiuta. Tali principi, previsti evidentemente in una fattispecie intracomunitaria, non trovano immediata applicabilità alla presente controversia, atteso che nella fattispecie si tratta di comparare le legislazioni di uno Stato comunitario con quelle di Stati extracomunitari (Usa e Canada).

7. In ogni caso, va rilevato che la regola di giudizio del canone di normalità del prezzo di fissazione della transazione, come il relativo onere probatorio, sono stati chiariti da questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 5645 del 02/03/2020, cit.; id. n. 18392 del 18/9/2015): il Tuir, art. 110, comma 7, non integra una disciplina antielusiva, in senso proprio, perchè non prevede che l’amministrazione finanziaria debba provare il presupposto della maggiore fiscalità nazionale ed è, perciò, applicabile anche in difetto di prova del conseguimento di un concreto vantaggio fiscale da parte del contribuente. Pertanto, tale disciplina, essendo finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing, cioè dello spostamento di imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti, non richiede di provare, da parte dell’amministrazione, la funzione elusiva, ma solo l’esistenza di “transazioni” tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c. ed in tema di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dello stesso decreto, art. 9, comma 3 (Cass. n. 18392 del 2015, cit.; Cass. n. 7493 del 15/4/2016; Cass. n. 13387 del 30/6/2016; Cass. n. 27018 del 15/11/2017; Cass. 9673 del 19/4/2018; Cass. n. 28335 del 7/11/2018).

8. Tuttavia, come sopra argomentato, ove si tratti di transazioni infragruppo, occorre tenere presente che la logica della direzione e del coordinamento tra imprese controllate e collegate può far assumere alle “ragioni commerciali” giustificatrici della fissazione del “normale” prezzo di cessione un connotato affatto peculiare. La citata “sentenza Pizzarotti” precisa, in proposito, che le ragioni commerciali ben potrebbero identificarsi nella “posizione” del soggetto all’interno del gruppo societario.

9. La logica dell’interesse del gruppo, come elemento giuridicamente rilevante e diverso rispetto a quello delle singole società appartenenti al gruppo medesimo, è stato già scrutinato dalla giurisprudenza di questa Corte, sia in tema di consolidato fiscale (Sez. 5, Sentenza n. 29302 del 14/11/2018), che di concordato di gruppo (Sez. 1, Sentenza n. 19014 del 31/07/2017), che di liceità di assunzione di obbligazioni estranee all’oggetto sociale (Sez. 1, Sentenza n. 20107 del 07/10/2015). E’ noto, infatti, il dettato normativo che consente di identificare la c.d. “teoria dei vantaggi compensativi”: l’art. 2497 c.c., comma 1, consente alla capogruppo di andare esente dalla responsabilità derivante dall’attività di direzione e coordinamento provando l’esistenza di un risultato complessivo di gruppo che, pur sacrificando l’interesse di una società a esso appartenente, determini comunque un’adeguata compensazione del sacrificio, attraverso la dimostrazione dell’aumento complessivo del valore di gruppo di cui anche la società ora sacrificata si posa in futuro giovare. Tali principi, attinenti al diritto societario, opportunamente richiamati dalla ricorrente nei propri scritti, vanno tuttavia interpretati alla luce delle peculiarità del diritto tributario in tema di arbitraggi fiscali. Invero, la ratio della normativa fiscale interna, sopra richiamata, va rinvenuta nella salvaguardia del principio di libera concorrenza, enunciato nell’art. 9 del Modello di Convenzione OCSE, il quale prevede la possibilità di sottoporre a tassazione gli utili derivanti da operazioni infragruppo che siano state regolate da condizioni diverse da quelle che sarebbero state convenute fra imprese indipendenti in transazioni comparabili effettuate sul libero mercato; si tratta, quindi, di verificare la sostanza economica dell’operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste (Cass. n. 5645 del 2020, id. n. 9615 del 2019; id. 27018 del 2017). Dunque, la policy aziendale, presa di per sè stessa, non è causa di giustificazione necessaria e sufficiente per derogare la regola del valore normale. Siccome il valore normale di una transazione è funzione delle caratteristiche economiche della transazione stessa, la transazione da cui ricavare il valore normale avrà ad oggetto (a) beni e servizi della stessa specie, (b) al medesimo stadio di commercializzazione, (c) nel medesimo tempo e (d) nel medesimo mercato in cui i beni o servizi sono stati acquisiti. Per ottenere il massimo grado di omogeneità possibile, la seconda parte del TUIR, art. 9, afferma che “per la determinazione del valore normale”, si deve fare riferimento, “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi”. La presenza di variegate transazioni commerciali infragruppo coglie appieno il significato estimativo dell’art. 9, così come del modello OCSE. L’adozione del Resale Price Method è auspicata, non solo dalla Circolare 22.9.1980 (n. 32/9/2267), ma anche e soprattutto dal Rapporto OCSE del 1995.

10. Alla luce dei citati principi può ritenersi che nel caso di specie:

a. La pretesa fiscale si basa sull’assunto che il prezzo di cessione del marchio dall’odierna ricorrente alle sue consociate estere sia stato inferiore a quello “normale”, ricavabile da indagine di mercato su operazioni similari.

b. La contribuente si è difesa argomentando che la fissazione del prezzo era avvenuta nell’ambito del perseguimento di una logica di gruppo, finalizzata a consentire alle consociate una più efficace penetrazione nei mercati locali.

c. La CTR ha, sul punto, affermato che la dinamica del gruppo sarebbe ininfluente al fine di giustificare la “normalità” prezzo di trasferimento. Tanto si evince con certezza a pagina cinque della decisione, ove tale affermazione è chiaramente esplicitata.

d. Tale conclusione, per la parte in cui interpreta la normativa applicabile, è conforme ai canoni ermeneutici della fattispecie come sopra individuati, tanto alla luce della normativa che della giurisprudenza in materia, laddove in relazione all’accertamento di merito effettuato sfugge al sindacato di sola legittimità di questa Corte, anche in considerazione che il motivo in esame è limitato alla dedotta violazione del solo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

Il terzo motivo è, parimenti, infondato, posto che anche in relazione alla questione dell’inclusione del fatturato delle cessioni infragruppo tra le società Vifan Usa e Vifan Canada con la società Vibac Canada, pure appartenente al gruppo, la CTR esclude che la natura di appartenenza al gruppo sia in alcun modo rilevante al fine della determinazione del prezzo di cessione. E, in proposito, valgono a sorreggere la correttezza della conclusione raggiunta, le medesime considerazioni sopra esposte in relazione alla confutazione del secondo motivo di ricorso.

11. La soccombenza regola le spese, liquidate come in dispositivo; la parte ricorrente va, altresì, condannata, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto (Cass. S.U., n. 4315 del 20 febbraio 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la Vibac s.p.a. a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese della presente fase di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021

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