Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12317 del 19/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 19/05/2010, (ud. 14/04/2010, dep. 19/05/2010), n.12317

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CASSA ITALIANA DI PREVIDENZA E ASSISTENZA DEI GEOMETRI LIBERI

PROFESSIONISTI, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GREGORIO VII

n. 108, presso lo studio dell’avvocato SCONOCCHIA BRUNO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CINELLI MAURIZIO,

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIMA 15,

presso lo studio dell’avvocato VERINO MARIO ETTORE, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati MASO GABRIELE, RONFINI

LUIGI, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 990/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/07/2006 R.G.N. 338/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/04/2010 dal Consigliere Dott. IANNIELLO Antonio;

udito l’Avvocato SCONOCCHIA BRUNO;

udito l’Avvocato VERINO MARIO ETTORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il geom. S.R., iscritto all’albo di categoria dal 7 agosto 1956 e alla Cassa geometri dall’1 gennaio 1962, aveva chiesto in data 12 marzo 1996, invocando la Delib. Cassa n. 383 del 1994, la retrodatazione di tale ultima iscrizione, ai sensi della L. n. 990 del 1955, art. 2 riconosciuta con nota del 12.12.96 dalla Cassa, la quale, con successiva lettera del 17.12.96, aveva comunicato l’erogazione al S., nel frattempo cancellatosi dall’albo, della pensione, tenendo conto della retrodatazione.

Successivamente, la Cassa, con nota del 18 settembre 1998, aveva comunicato al S. la revoca della retrodatazione della pensione, valutata come illegittima ai sensi della L. n. 335 del 1995, art. 3 procedendo quindi alla relativa riliquidazione, col recupero delle somme corrisposte in piu’ e con la restituzione al S. dei contributi versati per la retrodatazione.

Promosso dal S. giudizio per ottenere l’annullamento della revoca della retrodatazione o, in via subordinata, il risarcimento dei danni subiti a causa del comportamento della Cassa, il Tribunale di Treviso – con sentenza del 19 febbraio 2003, confermata, su appello della Cassa, dalla Corte d’appello di Venezia con sentenza depositata il 19 luglio 2006 e notificata il 5 settembre successivo – ha respinto la domanda svolta in via principale e condannato la Cassa di previdenza e assistenza dei geometri liberi professionisti a pagare a S.R. la somma di Euro 8.521,54, a titolo di risarcimento dei danni subiti a causa del comportamento dell’ente.

Avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia propone ora ricorso per Cassazione la Cassa predetta, affidandolo a quattro motivi.

Ha resistito alle domande il geometra S.R. con rituale controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Col primo motivo di ricorso, la Cassa deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1337 e 1338 c.c. dell’art. 97 Cost., del D.Lgs. 30 aprile 1994, n. 509, artt. 2 e 3, della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 12 nonche’ il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Al riguardo, sostiene l’erroneita’ della qualificazione del comportamento della Cassa nei termini di responsabilita’ ex art. 1339 c.c. laddove: a) la delibera del 1994 della Cassa e le successive vicende non sarebbero la manifestazione della autonomia contrattuale ma piuttosto di un potere attinente ad attivita’ di natura pubblica, assoggettata agli stessi principi e regole della previdenza obbligatoria nonche’ all’art. 97 Cost.; b) tali comportamenti sarebbero relativi allo svolgimento di un rapporto previdenziale gia’ in atto, in quanto automaticamente costituitosi con l’inizio da parte del S. dell’attivita’ professionale alle condizioni di legge;

c) d’altronde non potrebbe qualificarsi come violativo di obblighi di buona fede un comportamento dovuto, in quanto diretto a ricondurre a legittimita’ attivita’ di natura pubblica; d) in ogni caso, all’epoca del riconoscimento del diritto alla retrodatazione si aveva ragione di dubitare che il principio di irricevibilita’ dei contributi prescritti, posto dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 55, comma 2 si riferisse unicamente all’INPS; inoltre anche il chiarimento proveniente dalla L. n. 335 del 1995, art. 3 era stato definitivamente precisato dalla Cassazione a partire dalle sentenze n. 1140 del 2001 e n. 330 del 2002.

Le censure in diritto concludono con la formulazione del seguente quesiti di diritto: “Dichiarare che la revoca da parte dell’ente previdenziale, previa approvazione degli organi vigilanti, del provvedimento normativo col quale il medesimo aveva precedentemente attribuito agli iscritti la facolta’ di chiedere l’accreditamento ai fini previdenziali di periodi contributivi prescritti (c.d.

retrodatazione) e dei provvedimenti individuali conseguenti, per accertata illegittimita’ sopravvenuta, rappresenta un atto dovuto, il quale in quanto tale, non integra comportamento generatore di responsabilita’ per danni e che comunque le iniziative in proposito assunte dall’Ente non sono inquadrabili negli schemi di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. e non ne producono pertanto i relativi effetti”.

Il vizio di motivazione della sentenza e’ argomentato sotto plurimi profili: 1) per non avere argomentato in maniera adeguata la ritenuta qualificazione come trattative delle attivita’ censurate; 2) per avere qualificato come negligente e contraria a buona fede l’interpretazione assunta dalla Cassa con la Delib. n. 383 del 1994, omettendo di considerare: 2.1 che tale delibera era stata emanata prima della legge del 1995 che l’aveva resa illegittima; 2.2 che la Cassa aveva comunque cercato di attenuare le conseguenze dell’annullamento della delibera del 1994 offrendo agli assicurati la possibilita’ di riscattare gli anni in questione.

2 – Col secondo motivo la sentenza della Corte d’appello viene censurata per violazione la L. 24 ottobre 1955, n. 990, art. 2, l’art. 2697 c.c. e l’art. 112 c.p.c. nonche’ per vizio di motivazione.

La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che l’ulteriore requisito per l’iscrizione alla cassa era, negli anni di cui alla retrodatazione, l’esercizio della libera professione con carattere di continuita’, trascurando di pronunciarsi su di una specifica eccezione proposta in proposito dalla Cassa nella memoria di costituzione di primo grado.

Comunque l’assunto della Corte si baserebbe su di una interpretazione errata della L. 24 ottobre 1955, n. 990, art. 2, lett. a, la quale non imporrebbe l’iscrizione d’ufficio dei geometri professionisti iscritti all’albo ove fossero anche iscritti nei ruoli dell’imposta sulla ricchezza mobile per reddito professionale, ma unicamente l’iscrizione obbligatoria di tali professionisti.

Quanto al vizio di motivazione, esso consisterebbe nel fatto che la Corte non si sarebbe avveduta che la norma di cui alla L. n. 990 del 1955, art. 2 cui aveva fatto riferimento, e’ irrilevante in sede di valutazione della responsabilita’ per danni della Cassa.

Quesito di diritto: “Dichiarare che il professionista non poteva fare ragionevole affidamento sulla retribuzione e quindi sulla possibilita’ di anticipare il pensionamento, non avendo fornito la prova di entrambi gli elementi costitutivi del diritto richiesti dalla norma di legge vigente all’epoca, invocata nel ricorso e apprezzata dalla sentenza de qua”.

3 – Col terzo motivo, la Cassa deduce la violazione degli art. 1226 e 1227 c.c. e vizio di motivazione nella liquidazione dei danni.

Infatti la Corte non avrebbe tenuto conto che il danno si era prodotto esclusivamente per il comportamento del S. che per oltre quaranta anni aveva taciuto alla Cassa la situazione che gli avrebbe dato diritto all’iscrizione e non aveva assolto al versamento dei relativi contributi. Inoltre egli aveva liberamente scelto di non aderire alla offerta della cassa di riscattare i periodi in questione.

Inoltre, la Corte territoriale non avrebbe dovuto liquidare in maniera equitativa il danno, in quanto esso sarebbe stato determinabile nel suo preciso ammontare: avendo infatti deciso il professionista di abbandonare la professione pur di ottenere il pensionamento anticipato, il parametro per la liquidazione del danno avrebbe dovuto essere non l’ipotetico ammontare dei compensi che avrebbe percepito se avesse continuato l’attivita’ professionale, ma unicamente la pensione che gli sarebbe spettata con la retrodatazione.

Quesito di diritto: “Dichiarare che nella specie trova applicazione l’art. 1227 c.c. e che il danno poteva essere provato nel suo preciso ammontare dovendosi assumere a riferimento l’importo atteso dall’operazione (maggiore trattamento pensionistico) di retrodatazione, poi non conseguito per effetto della revoca della delibera autorizzatoria e che dunque l’importo attribuito a titolo di risarcimento, in quanto parametrato al reddito professionale e’ stato calcolato per eccesso”.

4 – Con l’ultimo motivo di ricorso, la Cassa deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale utilizzato, in sede di accertamento della responsabilita’ per danni della Cassa, un argomento esposto dall’originario ricorrente unicamente per sostenere la domanda svolta in via principale, respinta dal giudice di primo grado e non riproposta in appello.

La ricorrente conclude pertanto chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguenza di legge.

Il ricorso e’ infondato.

Va premesso che, essendo stato proposto avverso una sentenza pubblicata il 19 luglio 2006 e quindi successivamente alla data del 1 marzo 2006 (e prima del 4 luglio 2009), ad esso e’ applicabile, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. allora vigente, a norma del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 e art. 27, comma 2.

Come e’ noto, secondo tale disposizione del codice di rito “Nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilita’, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilita’, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.

Da cio’ la necessita’, nel caso di specie, di formulare un idoneo quesito di diritto con riferimento alle censure di violazione di legge del ricorso e di esprimere, quanto a quelle di vizio di motivazione, un momento di sintesi omologo a quello del quesito di diritto, che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera di non ingenerare incertezze in ordine al thema decidendum (in questi ultimi termini, cfr., ad es., Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 20603, sez. 3A 7 aprile 2008 n. 8897 e 20 febbraio 2008 n. 4309).

Ne’ il requisito del quesito di diritto o quello della espressione di un momento di sintesi argomentativa del difetto di motivazione possono ritenersi comunque rispettati sulla sola base delle argomentazioni svolte nel corso dell’illustrazione del motivo di ricorso, pena l’inutilita’ della pur innovativa e rigorosa disposizione di legge indicata (in tal senso, cfr., tra le altre, gia’ Cass. 20 giugno 2008 n. 16941).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. 1A, 22 giugno 2007 n. 14682, sez. un. 14 febbraio 2008 n. 3519) l’enunciazione, da parte del ricorrente (anche incidentale ex art. 371 c.p.c.), all’interno di uno dei motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 del nodo essenziale della questione giuridica di cui egli auspica una certa soluzione perseguiva la duplice finalita’ di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui e’ pervenuta la sentenza impugnata e insieme quella di enucleare – con valenza piu’ ampia e percio’ nomofilattica – il corretto principio di diritto al quale ci si deve attenere in simili casi.

In questo senso, il quesito di diritto integra pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso concreto e l’enunciazione del principio giuridico generale.

Per adempiere alla duplice funzione indicata, il quesito di diritto deve anzitutto essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie in giudizio (Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36).

Esso inoltre non puo’ risolversi nella mera generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunciata, del tipo “dica la Corte con la sentenza impugnata se vi e’ stata violazione della norma xy” (Cass. sez. 1A, 25 settembre 2007 n. 19892), cosi’ parafrasando la rubrica del motivo o le relative conclusioni.

Il quesito deve infatti “essere tale da consentire l’individuazione del principio di diritto che e’ alla base del provvedimento impugnato e correlativamente di un diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di cassazione sia idonea a determinare una decisione di segno diverso” (Cass. 22 giugno 2007 n. 14682).

In definitiva, secondo Cass. S.U. (ord.) 5 febbraio 2008 n. 2658, sia pure indicativamente, “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si. domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneita’ sono adeguatamente illustrate nel motivo.

In altri termini, secondo Cass. S.U. 14 febbraio 2008 n. 3519, seguita da sez. 3A, 9 maggio 2008 n. 11535), “il quesito non puo’ consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo ovvero nell’interpello della S. C. in ordine alla fondatezza della censura cosi’ come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Cio’ vale a dire che la Corte di legittimita’ deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico – giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito nel caso in esame e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare”.

Premesso il richiamo delle regole applicabili al ricorso in esame, condivisi da questo collegio e passando all’esame dei motivi del ricorso, si rileva anzitutto, quanto al primo di essi, la non pertinenza e insufficienza del quesito di diritto e l’assenza di un momento di sintesi argomentativa del preteso vizio di motivazione (tra l’altro, nella parte di cui al precedente punto 1, attinente alla interpretazione della legge adottata dalla Corte territoriale e quindi privo di autonoma rilevanza, potendo questa Corte procedere direttamente alla interpretazione della legge indicata – arg. art. 384 c.p.c., u.c.).

Il quesito di diritto formulato al termine del motivo in esame muove infatti in una prima parte dalla considerazione di un comportamento della Cassa (revoca della delibera del 1994) diverso da quello oggetto delle censure dell’originario ricorrente e consistente, secondo questi, nell’averlo indotto in errore relativamente all’esistenza di un suo diritto alla retrodatazione della iscrizione alla Cassa, prima adottando una delibera di carattere generale ammissiva della possibilita’ di tale retrodatazione e poi persistendo nell’attuazione del comportamento conseguente anche oltre la emanazione della L. n. 335 del 1995, ammettendo l’assistito alla retrodatazione nel 1996 ed erogandogli la pensione maggiorata fino al 1998.

La seconda parte del quesito (“dichiarare… che comunque le iniziative in proposito assunte dall’ente non sono inquadrabili negli schemi di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. e non ne producono pertanto i relativi effetti”) e’ priva di specifico riferimento al comportamento a cui si chiede di applicare il principio enunciato e inoltre e soprattutto non vi sono esplicitate (in realta’ neppure nel corpo del motivo) le ragioni per le quali una qualificazione di tali comportamenti in termini diversi dal richiamo agli artt. 1337 e 1338 c.c. (in tesi, come fatti determinanti eventualmente una responsabilita’ contrattuale della Cassa) sia idonea a determinare una decisione di segno diverso da quella assunta dai giudici di merito e favorevole al ricorrente.

Per tali ragioni e per l’assenza di un momento riassuntivo delle censure attinenti il vizio di motivazione (comunque infondate, quella sub 1 per quanto prima rilevato e quelle sub 2 perche’ il comportamento censurato dall’originario ricorrente non e’ solo la delibera del 1994 e infine in ragione del fatto che il non avere il S. accettato l’offerta della Cassa relativamente al riscatto oneroso degli anni in questione non esclude, in via di principio, la sua eventuale responsabilita’ in ordine alle conseguenze lesive, che con tale offerta essa ha cercato di attenuare), il primo motivo di ricorso e’ inammissibile.

Anche il secondo motivo e’ inammissibile.

La sua portata e’ limitata, attraverso il quesito conclusivo formulato, alla censura del mancato rilievo da parte della Corte territoriale della assenza in giudizio della prova dell’esercizio da parte del S. della libera professione con carattere di continuita’ negli anni cui si riferisce la retrodatazione, secondo quanto la Cassa deduce di avere eccepito nel giudizio di primo grado.

In proposito, va peraltro rilevato che avendo la Corte territoriale dato per scontato il possesso di tale requisito necessario per ottenere la retrodatazione e non deducendo la Cassa di avere sul punto riproposto le proprie eccezioni nel grado di appello, la questione non puo’ essere riproposta in questa sede di legittimita’, essendosi al riguardo formato l’accertamento definitivo del giudice di merito.

Il terzo motivo e’ inammissibile nella prima parte e infondato nel resto.

E’ inammissibile laddove imputa esclusivamente al S. la produzione del danno, in cio’ innovando, come risulta dalla lettura della sentenza impugnata, rispetto alle censure svolte in appello, relative semmai al preteso concorso del comportamento dell’appellato.

E’ infondato in quanto la Corte territoriale ha accertato che il S. si era determinato a cessare l’attivita’ di geometra libero professionista proprio in ragione dell’affidamento ricevuto dalla Cassa, relativamente al riconoscimento, ai fini dell’anzianita’ utile e del trattamento di pensione, degli anni di iscrizione all’albo dei geometri ma non alla relativa cassa di previdenza.

Conseguentemente, il danno riconosciuto al S. e’ stato correttamente liquidato, in maniera necessariamente equitativa, assumendo come parametro di riferimento il reddito professionale che, sulla base dei precedenti, e’ presumibile che l’appellato avrebbe percepito tra il momento della cessazione dell’attivita’ e quello del raggiungimento dell’eta’ pensionabile.

La Cassa pretenderebbe viceversa che venga adottato un parametro riferito al trattamento pensionistico che sarebbe stato erogato all’iscritto se fosse stata riconosciuta definitivamente la richiesta retrodatazione, tesi che ha un presupposto di fatto diverso da quello accertato dai giudici di merito e del quale non risulta (e non viene esplicitato) che siano stati anche solo indicati, nel giudizio di merito, elementi di riscontro.

Infine, anche l’ultimo motivo e’ manifestamente infondato, per difetto del requisito dell’autosufficienza (su cui cfr., anche recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09), espressione della necessaria specificita’ del ricorso per Cassazione, oggi confermata e rafforzata dalla esplicita previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

Deducendo che l’originario ricorrente aveva sviluppato il discorso della necessaria iscrizione di ufficio alla Cassa del S. negli anni indicati all’interno della domanda principale di annullamento della revoca della retrodatazione e non anche con riguardo alla richiesta risarcitoria, mentre la Corte territoriale aveva utilizzato l’argomento per escludere il concorso dell’appellato nella produzione del danno, la ricorrente riproduce infatti il contenuto del ricorso introduttivo a sostegno della domanda principale, ma non anche quello relativo alla domanda risarcitoria subordinata.

Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, come operato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la cassa a rimborsare al S. le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 20,00 per spese ed Euro 2.500,00, oltre accessori, per onorari.

Cosi’ deciso in Roma, il 14 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2010

 

 

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