Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12314 del 07/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 07/06/2011, (ud. 27/04/2011, dep. 07/06/2011), n.12314

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Z.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MORGAGNI 22,

presso lo studio dell’avvocato SANDULLI MICHELE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FANFANI PAOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASSA DI RISPARMIO DI CARRARA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI,

rappresentata e difesa dagli avvocati MAZZONI ALBERTO, PAOLO TOSI,

CAMILLO PAROLETTI, RICCARDO DIAMANTI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1325/2008 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 28/01/2008 R.G.N. 144/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/04/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato DIAMANTI RICCARDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi

del ricorso, assorbiti gli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato in data 28 gennaio 2009, Z.A. – ex dipendente della s.p.a. Cassa di Risparmio di Carrara con mansioni di coordinatore dell’ufficio finanza – chiede, con sei motivi, la cassazione della sentenza pubblicata il 28 gennaio 2008, con la quale la Corte d’appello di Genova aveva confermato la decisione di primo grado di rigetto delle sue domande di impugnazione del licenziamento disciplinare comunicatogli dalla Cassa il primo dicembre 2000.

La Corte territoriale aveva infatti accertato come sussistenti operazioni anomale finanziarie compiute dallo Z. in contrasto con la volontà dei clienti e violando la speciale disciplina in tema di intermediazione finanziaria di cui al capo 2^ del Titolo 2^ del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 allora vigente.

La Cassa di risparmio resiste alle domande con rituale controricorso.

Ambedue le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Col primo motivo di ricorso, Z.A. denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 l’omessa motivazione della sentenza relativamente alla mancata sospensione del processo – ai sensi dell’art. 295 c.p.c. e dell’art. 211 disp. att. c.p.p. in relazione all’art. 654 c.p.p. – da lui richiesta a verbale all’udienza di discussione nel giudizio di appello e comunque rilevabile d’ufficio.

In ordine ai medesimi fatti materiali indicati dalla datrice di lavoro come giusta causa del licenziamento sarebbe stato infatti allora pendente avanti al Tribunale di Massa un processo penale a carico del ricorrente, in concorso col direttore generale della società e il suo vice, per truffa aggravata.

2 – Col secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 295 c.p.c. e dell’art. 211 disp. att. c.p.p. in relazione all’art. 654 c.p.p., per non avere la Corte sospeso il processo civile, nonostante la conoscenza dell’esistenza del processo penale indicato e l’apposita richiesta in sede di discussione da parte della difesa del ricorrente.

3 – Col terzo motivo, la difesa del ricorrente deduce la “violazione dell’art. 654 c.p.p. -Factum superveniens.”.

Con esso il ricorrente invoca nel presente giudizio civile il “giudicato esterno” rappresentato dall’eventuale futuro passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale penale di Massa, sezione distaccata di Carrara, depositata l’11 marzo 2008 (quindi successivamente alla decisione di secondo grado e prima della notifica del ricorso per cassazione), la quale aveva assolto lo Z. e i suoi coimputati dal reato indicato, con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”.

4 – Col quarto motivo viene denunciata la violazione dell’art. 2119 c.c. sotto il profilo del difetto di immediatezza della contestazione.

La relativa censura era stata respinta dal giudice di appello, sulla base dell’assunto che i vertici della Banca (Consiglio di amministrazione e presidente) erano venuti a conoscenza dei fatti contestati nel novembre solo nel settembre precedente, mentre solo al direttore generale e al suo vice erano noti, in ragione del fatto che questi si erano resi partecipi delle irregolarità riscontrate.

Viceversa, secondo il ricorrente, il giudice penale nella sentenza di assoluzione indicata avrebbe accertato che Presidenza e CDA della Banca conoscevano e comunque non potevano non conoscere l’esistenza delle operazioni anomale contestate e anzi avrebbe ipotizzato che essi avessero facilitato questo sistema atipico perchè convinti delle utilità che la Cassa ne avrebbe tratto.

Anche quanto alla tipologia delle operazioni anomale, il Tribunale penale avrebbe ritenuto che si trattasse di semplici operazioni di “pronto contro termine”, seppure anomale, in ordine alle quali sarebbe mancata la prova della loro dannosità per i clienti.

In conclusione, alla luce degli accertamenti del giudice penale, idonei a divenire giudicato esterno nel presente giudizio, risulterebbe anzitutto che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice civile d’appello, la contestazione era tardiva.

5 – Col quinto motivo di ricorso, Z.A. deduce la violazione dell’art. 2119 c.c., per inesistenza dei fatti addebitatigli, sotto il profilo del difetto di prova.

Ulteriore conseguenza degli accertamenti citati del giudice penale sarebbe il fatto che il comportamento del ricorrente, lungi da costituire inadempimento dei propri obblighi, era stato posto invece in essere in esecuzione del dovere di obbedienza agli organi superiori e comunque in buona fede; esso pertanto non potrebbe essere ritenuto dal giudice civile costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

6 – Infine, col sesto motivo la sentenza impugnata viene censurata per violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 2106 c.c., per difetto di proporzionalità nella valutazione dei fatti addebitati, sempre alla luce degli accertamenti compiuti dal giudice penale di Massa.

Con le memorie ex art. 378 c.p.c., le parti ribadiscono le proprie tesi difensive, anche sulla base dello sviluppo che nel frattempo ha avuto il processo penale indicato dal ricorrente.

La sentenza del Tribunale penale di Massa è stata infatti impugnata da due imputati e dalla parte civile (la Cassa) e la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’appello degli imputati a norma dell’art. 593 c.p.p. e, accogliendo l’appello della parte civile, ha ritenuto la responsabilità civile degli imputati in ordine ai fatti contestati, condannandoli a risarcire i danni conseguenti alla Banca.

Su ricorso per cassazione degli imputati, questa Corte con sentenza della seconda sezione penale n. 44039/10, rilevando che l’art. 593 c.p.p., sulla base del quale erano stati dichiarati inammissibili gli appelli degli imputati, era stato dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale, ha in ragione di ciò annullato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Genova per un nuovo giudizio.

Il ricorso è infondato.

Quanto al primo motivo, va dichiarata l’inammissibilità di una deduzione di vizio motivazionale in ordine a questioni processuali, quale quella relativa alla omessa pronuncia su di una domanda o di una eccezione.

In ogni caso, la Corte territoriale ha implicitamente respinto l’istanza di sospensione del processo formulata dalla difesa dell’appellante, come risulta chiaramente dal contenuto della sentenza, che infatti utilizza nelle proprie valutazioni le risultanze istruttorie acquisite nel processo civile, ivi comprese quelle che le parti hanno rappresentato come emergenti dal processo penale allora in corso, escludendo pertanto correttamente il carattere pregiudiziale di quest’ultimo ai fini considerati.

Ed invero, questa Corte ha anche di recente ribadito (cfr. ad es.

Cass. 21 dicembre 2010 n. 25822 – ord.) il principio ormai ricorrente in sede di giurisprudenza civile di legittimità, secondo il quale “la sospensione del giudizio civile (non riguardante il risarcimento di danni) in attesa della definizione di un processo penale, in base a quanto dispongono l’art. 295 c.p.c., l’art. 654 c.p.p. e l’art. 211 disp. att. c.p.p., presuppone che una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato oggetto dell’imputazione penale un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile e sempre a condizione che la sentenza che sia per essere pronunciata nel processo penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile. Per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del processo penale non basta quindi che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto di imputazione nel giudizio penale” (cfr. Cass. S.U. n. 13682/2001 e poi le sentt. nn. 15641/09,10054/09,1095/07, 27787/05).

Applicando la regola enunciata al caso in esame, si rileva che anche se i fatti materiali oggetto del processo penale per truffa aggravata nei confronti dello Z. fossero gli stessi contestati come giusta causa di licenziamento, non ne deriverebbe certamente che l’effetto giuridico dedotto nel processo civile (legittimità o meno del licenziamento per giusta causa, con le ulteriori conseguenze di legge) sia da ritenere collegato normativamente alla commissione del reato di truffa aggravata oggetto del processo penale.

Da ciò deriva la correttezza della decisione della Corte territoriale di non sospendere il giudizio civile avanti a sè pendente e quindi l’infondatezza anche del secondo motivo di ricorso.

Dal principio richiamato, che deriva dall’abbandono da parte dell’Ordinamento processuale della regola della prevalenza del giudizio penale su quello civile e dall’istaurazione di un sistema di quasi completa autonomia e separazione tra i due ambiti, consegue altresì, nella situazione descritta, il potere – dovere del giudice civile di procedere ad un autonomo accertamento dei fatti rilevanti ai fini degli effetti civili azionati nel giudizio avanti a lui pendente, diversi ed autonomi dagli effetti che rilevano in ambito penale e da essi non vincolati, anche in caso di coincidenza di detti fatti materiali (nel medesimo senso, cfr. altresì, Cass. nn. 1095707, 13544/06, 15477/05, 14875/04 età).

L’applicazione di questa regola della autonomia dei due giudizi, qui ribadita dal collegio, comporta altresì l’infondatezza degli ulteriori motivi di ricorso, che fondano sugli accertamenti compiuti dal giudice penale (e da questo del resto ritenuti in maniera difforme nel primo e nel secondo grado di un giudizio non ancora definitivamente concluso).

Tali accertamenti del giudice penale hanno infatti ad oggetto fatti che il giudice civile ha autonomamente valutato all’interno del più ampio materiale istruttorio raccolto e tale valutazione non è stata specificatamente contestata dal ricorrente con riguardo a tale più complesso spettro di risultanze istruttorie.

Lo Z. si è infatti limitato, al riguardo, a richiamare gli accertamenti e le valutazioni del giudice penale, erroneamente ritenuti costituire un giudicato esterno vincolante in quella sede, tali quindi da imporre al giudice civile una diversa valutazione del requisito della immediatezza della contestazione disciplinare nonchè dei fatti contestati e infine dell’effettivo ruolo rivestito nella vicenda dal ricorrente, ritenuta non dissimile da quello di altri dipendenti destinatari di sanzioni di natura esclusivamente conservativa del rapporto di lavoro mentre i giudici civili l’avevano diversamente valutata.

In base alle considerazioni svolte, il ricorso è infondato e va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, effettuato, unitamente alla relativa liquidazione, in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla Cassa le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 160,00 esborsi ed Euro 3.500,00, oltre accessori di legge, per onorari.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2011

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