Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12287 del 17/05/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 17/05/2017, (ud. 24/02/2017, dep.17/05/2017),  n. 12287

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 23733/2010 R.G. proposto da:

Sidermontaggi S.p.A., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Salvatore

Capomacchia e Cesare Persichelli, con domicilio eletto in Roma, via

Crescenzio, n. 29, presso lo studio dell’Avv. Cesare Persichelli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, Via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli

Venezia Giulia, n. 120/06/09 depositata il 27 luglio 2009.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24 febbraio 2017

dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

uditi gli Avv.ti Salvatore Capomacchia e Cesare Persichelli;

udito l’Avvocato dello Stato Pio Marrone;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso chiedendo il

rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Sidermontaggi S.p.A. proponeva ricorso avanti la C.T.P. di Udine avverso due avvisi di accertamento con cui l’Ufficio, sulla base di un p.v.c. redatto dalla Guardia di Finanza in data 12/12/2003, con riferimento agli anni 2000 e 2001, aveva ad essa contestato l’omessa effettuazione e il mancato versamento di ritenute d’acconto sui redditi di lavoro dipendente, con conseguente recupero delle imposte non trattenute e non versate e l’applicazione delle sanzioni conseguenti alle mancate dichiarazioni del sostituto d’imposta. Ciò in ragione del disconoscimento degli effetti di alcuni contratti di appalto di manodopera in quanto stipulati in violazione del divieto posto dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369 , art. 1.

Il ricorso era rigettato dalla adita C.T.P..

2. Con sentenza depositata in data 27/7/2009 la C.T.R. del Friuli Venezia Giulia rigettava il gravame proposto dalla contribuente, affermando la piena legittimità degli avvisi accertamento.

3. Avverso tale decisione la società contribuente propone ricorso articolando quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la società contribuente deduce violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. respinto l’eccezione di inutilizzabilità degli elementi contenuti nel p.v.c. redatto in data 12/12/2003 richiamato dagli avvisi di accertamento, in quanto acquisito in violazione dei doveri di correttezza, collaborazione e buona fede previsti dallo statuto dei diritti del contribuente: violazione discendente – secondo la ricorrente – dall’essere essere stata destinataria l’anno prima di una verifica generale, relativa ai medesimi periodi di imposta, conclusosi con la redazione di un p.v.c. in data 19/4/2002 nel quale erano stati presi in esame, senza che fossero riscontrate irregolarità nè contestate violazioni, gli stessi rapporti contrattuali posti ad oggetto della successiva verifica.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza e del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per inosservanza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, per avere la C.T.R. disposto d’ufficio l’acquisizione del suddetto p.v.c., non depositato ritualmente in atti dall’Agenzia gravata del relativo onere.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. ritenuto comprovata la sussistenza di mere somministrazioni di manodopera, in luogo di regolari contratti d’appalto di servizi, omettendo però di indicare, al di là di mere astratte affermazioni, gli elementi concreti in grado di sorreggere detto convincimento.

Rileva che in particolare nessun elemento direttamente attinente alle modalità operative dei rapporti intercorsi con le ditte appaltatrici viene citato in sentenza, limitandosi la Commissione a indicare solo alcune caratteristiche soggettive di queste ultime, l’assenza di sedi e l’inadempimento degli obblighi fiscali, per desumerne in via presuntiva l’assenza di una adeguata organizzazione imprenditoriale.

Lamenta che, di contro, la Commissione regionale ha trascurato le argomentazioni di segno opposto con le quali essa appellante aveva evidenziato che: le lavorazioni venivano svolte presso l’ABS di (OMISSIS), senza che fossero necessarie apposite sedi; per la tipologia di opere svolte, non era necessario alcun apparato organizzativo al di fuori di un modesto corredo di strumenti; il potere direttivo degli operai non era in capo a Sidermontaggi S.p.A.; gli importi addebitati in fattura non coincidevano con il costo del lavoro dipendente ma erano maggiorati dall’utile dell’appaltatore; il rapporto era formalizzato in regolari contratti di appalto acquisiti in giudizio.

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19 e D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, per avere la C.T.R. attribuito rilievo anche ai fini fiscali alla presunta violazione del divieto di intermediazione di manodopera operante invece – assume – esclusivamente sul piano giuslavoristico.

Sostiene la ricorrente che, quand’anche venisse comprovata la presunta violazione del divieto, questa comunque non farebbe venir meno l’esecuzione di una prestazione di servizio, fosse anche illecita, da parte di un soggetto, quale l’appaltatore, unico a corrispondere effettivamente le retribuzioni ai dipendenti impiegati nella prestazione medesima.

5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile e, comunque, infondato.

La censura, invero, si limita a ipotizzare genericamente una violazione del principio di collaborazione e buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria senza compiutamente illustrare le ragioni per cui tale violazione dovrebbe ritenersi nel caso di specie perpetrata – e, peraltro, con gli effetti invalidanti invocati – in ragione della mera circostanza dell’essere stati i medesimi rapporti di appalto già oggetto, l’anno precedente, di altro processo verbale di constatazione.

Varrà peraltro rimarcare che la L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 2, tutela l’affidamento del contribuente che si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria, limitando comunque gli effetti di tale tutela alla sola esclusione delle sanzioni e degli interessi, senza incidere in alcun modo sull’obbligazione tributaria (diversamente dall’art. 11 della medesima legge, il quale, nel disciplinare il caso in cui il contribuente si sia adeguato ad un esplicito responso dell’Amministrazione finanziaria, motivatamente espresso in esito alla particolare procedura dell’interpello, prevede la nullità degli atti impositivi che siano in contrasto con l’esito dell’interpello), (v. Cass. 10 settembre 2009, n. 19479).

Nel caso di specie si versa evidentemente al di fuori di tali ipotesi, non potendo predicarsi alcun affidamento tutelabile derivante dal mero fatto che da una prima verifica della Guardia di Finanza non sia esitata alcuna azione accertativa dell’amministrazione finanziaria, avviata invece solo in seguito, all’esito di ripetuta verifica sia pure relativa ai medesimi anni e rapporti. Rilevato anzitutto che non si trae dal sistema alcuna preclusione al riguardo, è appena il caso di osservare che la mera inerzia dell’amministrazione all’esito di un primo controllo non è certo equiparabile alla manifestazione di indicazioni positive da parte della amministrazione medesima circa la legittimità di comportamenti, senza dire che anche tale positiva indicazione avrebbe l’effetto previsto dalla citata norma solo con riferimento ai comportamenti posti in essere dal contribuente successivamente ad essa.

6. E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso.

Il vizio processuale con esso dedotto, interferendo in materia rimessa al potere dispositivo delle parti (allegazione dei fatti e deduzione delle prove rappresentative degli stessi), integra una mera nullità relativa, la cui contestazione è rimessa alla esclusiva iniziativa della parte interessata, che è tenuta a denunciarla nella prima udienza o nel primo atto difensivo utile (art. 157 c.p.c., comma 2) e ben può anche rinunciarvi espressamente o tacitamente (art. 157 c.p.c., comma 3).

Tale risulta essere stato, nella specie, il comportamento processuale concludente della società che, in seguito alla ordinanza istruttoria emessa dalla C.T.R. e alla conseguente acquisizione al giudizio del p.v.c. richiamato dall’atto impositivo, anzichè eccepire tempestivamente la nullità dell’atto istruttorio, vi ha puramente e semplicemente dato seguito producendo il documento richiesto, così dunque accettando il contraddittorio con la parte pubblica sul materiale probatorio acquisito e rinunciando, pertanto, per facta concludentia a far valere l’originario vizio di legittimità (v. Cass. 16/10/2015, n. 20972)

7. E’ infondato anche il terzo motivo.

La sentenza impugnata offre motivazione adeguata dell’espresso convincimento circa la configurabilità nella specie di mere somministrazioni di manodopera e di contro generica si appalesa la censura svolta dalla ricorrente, volta più propriamente a sollecitare una nuova e diversa valutazione nel merito del materiale acquisito.

Vengono prospettati, in realtà, non dei fatti controversi, in riferimento ai quali la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ma delle mere questioni o argomentazioni.

Diversamente da quanto genericamente dedotto nel motivo in esame, i giudici d’appello non hanno omesso la valutazione di alcuno degli elementi probatori offerti dall’Ufficio (e in ogni caso la ricorrente non individua con precisione alcun elemento specifico offerto dall’Ufficio e non considerato dai giudici d’appello), onde ciò di cui si duole la ricorrente non è l’omessa considerazione di fatti decisivi, bensì la valutazione di tali fatti in maniera diversa da quella auspicata.

In proposito, è appena il caso di osservare che, secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, posto che, diversamente opinando il motivo di ricorso in esame si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (v. tra le tante Cass. 29/07/2011, n. 16655; Cass. 25/05/2006, n. 12446; Cass. 20/04/2006, n. 9233; Cass. 27/04/2004, n. 8718).

8. Anche il quarto motivo è destituito di fondamento.

Questa Corte ha in argomento affermato, con riferimento alla disciplina anteriore al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, applicabile nella fattispecie ratione temporis, e con indirizzo qui pienamente condiviso al quale si intende dare continuità, che, in tema di divieto di intermediazione di manodopera, ai sensi della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, u.c., nel testo vigente ratione temporis, i prestatori di lavoro occupati in violazione di esso sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore appaltante o interponente che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni, ed al quale incombono, oltre che gli obblighi di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, anche gli obblighi fiscali del datore di lavoro; ne consegue che a carico del medesimo soggetto, in ragione di detto rapporto, sussistono gli obblighi del sostituto d’imposta, di cui al D.P.R. 22 settembre 1973, n. 600, art. 23, per le ritenute d’acconto sulle retribuzioni (Cass. 31/05/2013, n. 13748; Cass. 15/02/2013, n. 3795; v. anche, con riferimento all’Iva e all’Irap, Cass. 17/10/2014, n. 22020; Cass. 20/10/2016, n. 21289).

9. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.500 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2017

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