Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12286 del 17/05/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 17/05/2017, (ud. 24/02/2017, dep.17/05/2017),  n. 12286

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 23730/2010 R.G. proposto da:

Sidermontaggi S.p.A., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Salvatore

Capomacchia e Cesare Persichelli, con domicilio eletto in Roma, via

Crescenzio, n. 29, presso lo studio dell’Avv. Cesare Persichelli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, Via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli

Venezia Giulia, n. 119/06/09 depositata il 27 luglio 2009.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24 febbraio 2017

dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

uditi gli Avv.ti Salvatore Capomacchia e Cesare Persichelli;

udito l’Avvocato dello Stato Pio Marrone;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso chiedendo il

rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Sidermontaggi S.p.A. proponeva ricorso avanti la C.T.P. di Udine avverso tre avvisi di accertamento con cui l’Ufficio, sulla base di un p.v.c. redatto dalla Guardia di Finanza in data 12/12/2003, con riferimento agli anni 1999, 2000 e 2001, aveva rettificato la base imponibile a fini Iva e Irap, disconoscendo gli effetti di alcuni contratti di appalto di manodopera in quanto stipulati in violazione del divieto posto dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, ed aveva altresì escluso, ai soli fini Irap, che alla società, già beneficiaria di un provvedimento di esenzione decennale Ilor per ampliamento, potesse in alcuna misura continuare a spettare la medesima agevolazione – nel passaggio al nuovo regime impositivo – a ciò ostando, secondo l’amministrazione, nel caso concreto, una corretta interpretazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 17, comma 1.

Il ricorso era parzialmente accolto dalla adita C.T.P. in relazione a tale ultimo tema di lite.

2. Con sentenza depositata in data 27/7/2009 la C.T.R. del Friuli Venezia Giulia rigettava il gravame proposto dalla contribuente e accoglieva invece quello dell’Ufficio, affermando la piena legittimità degli avvisi accertamento, anche con riferimento alla esclusa operatività nel caso di specie del beneficio della pregressa esenzione Ilor.

3. Avverso tale decisione la società contribuente propone ricorso articolando cinque motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente deduce violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. respinto l’eccezione di inutilizzabilità degli elementi contenuti nel p.v.c. redatto in data 12/12/2003 richiamato dagli avvisi di accertamento, in quanto acquisito in violazione dei doveri di correttezza, collaborazione e buona fede previsti dallo statuto dei diritti del contribuente: violazione discendente – secondo la ricorrente – dall’essere essere stata destinataria l’anno prima di una verifica generale, relativa ai medesimi periodi d’imposta, conclusasi con la redazione di un p.v.c. in data 19/4/2002 nel quale erano stati presi in esame, senza che fossero riscontrate irregolarità nè contestate violazioni, gli stessi rapporti contrattuali oggetto della successiva verifica.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza e del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per inosservanza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, per avere la C.T.R. disposto d’ufficio l’acquisizione del suddetto p.v.c., non depositato ritualmente in atti dall’Agenzia gravata del relativo onere.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. ritenuto comprovata la sussistenza di mere somministrazioni di manodopera, in luogo di regolari contratti d’appalto di servizi, omettendo però di indicare, al di là di mere astratte affermazioni, gli elementi concreti in grado di sorreggere detto convincimento.

Rileva che in particolare nessun elemento direttamente attinente alle modalità operative dei rapporti intercorsi con le ditte appaltatrici viene citato in sentenza, limitandosi la Commissione a indicare solo alcune caratteristiche soggettive di queste ultime, l’assenza di sedi e l’inadempimento degli obblighi fiscali, per desumerne in via presuntiva l’assenza di una adeguata organizzazione imprenditoriale.

Lamenta che, di contro, la Commissione regionale ha trascurato le argomentazioni di segno opposto con le quali essa appellante aveva evidenziato che: le lavorazioni venivano svolte presso l’ABS di (OMISSIS), senza che fossero necessarie apposite sedi; per la tipologia di opere svolte, non era necessario alcun apparato organizzativo al di fuori di un modesto corredo di strumenti; il potere direttivo degli operai non era in capo a Sidermontaggi S.p.A.; gli importi addebitati in fattura non coincidevano con il costo del lavoro dipendente ma erano maggiorati dall’utile dell’appaltatore; il rapporto era formalizzato in regolari contratti di appalto acquisiti in giudizio.

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19 e D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, per avere la C.T.R. attribuito rilievo anche ai fini fiscali alla presunta violazione del divieto di intermediazione di manodopera operante invece – assume – esclusivamente sul piano giuslavoristico.

Sostiene la ricorrente che, quand’anche venisse comprovata la presunta violazione del divieto, questa comunque non farebbe venir meno l’esecuzione di una prestazione di servizio, fosse anche illecita, da parte di un soggetto passivo d’imposta secondo la legge Iva, suscettibile pertanto di detrazione, considerato peraltro che gli importi fatturati non coincidevano con il costo del lavoro dipendente ma comprendevano anche una maggiorazione pari all’utile dell’appaltatore.

Analogamente, con riferimento all’Irap, rileva la ricorrente che, quand’anche i contratti di appalto fossero da considerare illeciti sul piano civilistico, rimarrebbe comunque il fatto che mai la società ha assunto il personale dipendente della ditta appaltatrice, nè ha loro corrisposto le retribuzioni.

5. Con il quinto motivo la società contribuente denuncia infine – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 17, comma 1.

Ribadendo l’interpretazione di tale norma posta a base, in parte qua, del ricorso introduttivo e disattesa invece della sentenza impugnata sostiene che “la misura del 43% (che… rappresentava il limite di godimento dell’esenzione dall’imponibile Ilor…) dovrà essere applicata alla parte di valore della produzione rilevante ai fini Irap riferibile alla realtà territoriale. Se tale valore della produzione riferibile alla realtà territoriale che gode dell’esenzione si quantifica, nel caso di specie, nell’81,92%, allora a tale percentuale del valore della produzione dovrà applicarsi l’aliquota del 43%” (che fissa il limite dell’esenzione).

In altre parole, secondo la ricorrente, “una volta determinato nel suo ammontare, così come previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5, esso (l’imponibile Irap) dovrà essere abbattuto della stessa percentuale di esenzione in precedenza prevista”.

6. Il primo motivo di ricorso è inammissibile e, comunque, infondato.

La censura, invero, si limita a ipotizzare genericamente una violazione del principio di collaborazione e buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria senza compiutamente illustrare le ragioni per cui tale violazione dovrebbe ritenersi nel caso di specie perpetrata – e, peraltro, con gli effetti invalidanti invocati – in ragione della mera circostanza dell’essere stati i medesimi rapporti di appalto già oggetto, l’anno precedente, di altro processo verbale di constatazione.

Varrà peraltro rimarcare che la L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 2, tutela l’affidamento del contribuente che si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria, limitando comunque gli effetti di tale tutela alla sola esclusione delle sanzioni e degli interessi, senza incidere in alcun modo sull’obbligazione tributaria (diversamente dall’art. 11 della medesima legge, il quale, nel disciplinare il caso in cui il contribuente si sia adeguato ad un esplicito responso dell’Amministrazione finanziaria, motivatamente espresso in esito alla particolare procedura dell’interpello, prevede la nullità degli atti impositivi che siano in contrasto con l’esito dell’interpello), (v. Cass. 10 settembre 2009, n. 19479).

Nel caso di specie si versa evidentemente al di fuori di tali ipotesi, non potendo predicarsi alcun affidamento tutelabile derivante dal mero fatto che da una prima verifica della Guardia di Finanza non sia esitata alcuna azione accertativa dell’amministrazione finanziaria, avviata invece solo in seguito, all’esito di ripetuta verifica sia pure relativa ai medesimi anni e rapporti. Rilevato anzitutto che non si trae dal sistema alcuna preclusione al riguardo, è appena il caso di osservare che la mera inerzia dell’amministrazione all’esito di un primo controllo non è certo equiparabile alla manifestazione di indicazioni positive da parte della amministrazione medesima circa la legittimità di determinati comportamenti, senza dire che anche tale positiva indicazione avrebbe l’effetto previsto dalla citata norma solo con riferimento ai comportamenti posti in essere dal contribuente successivamente ad essa.

7. E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso.

Il vizio processuale con esso dedotto, interferendo in materia rimessa al potere dispositivo delle parti (allegazione dei fatti e deduzione delle prove rappresentative degli stessi), integra una mera nullità relativa, la cui contestazione è rimessa alla esclusiva iniziativa della parte interessata, che è tenuta a denunciarla nella prima udienza o nel primo atto difensivo utile (art. 157 c.p.c., comma 2) e ben può anche rinunciarvi espressamente o tacitamente (art. 157 c.p.c., comma 3).

Tale risulta essere stato, nella specie, il comportamento processuale concludente della società che, in seguito alla ordinanza istruttoria emessa dalla C.T.R. e alla conseguente acquisizione al giudizio del p.v.c. richiamato dall’atto impositivo, anzichè eccepire tempestivamente la nullità dell’atto istruttorio, vi ha puramente e semplicemente dato seguito producendo il documento richiesto, così dunque accettando il contraddittorio con la parte pubblica sul materiale probatorio acquisito e rinunciando, pertanto, per facta concludentia a far valere l’originario vizio di legittimità (v. Cass. 16/10/2015, n. 20972)

8. E’ infondato anche il terzo motivo.

La sentenza impugnata offre motivazione adeguata dell’espresso convincimento circa la configurabilità nella specie di mere somministrazioni di manodopera e di contro generica si appalesa la censura svolta dalla ricorrente, volta più propriamente a sollecitare una nuova e diversa valutazione nel merito del materiale acquisito.

Vengono prospettati, in realtà, non dei fatti controversi, in riferimento ai quali la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ma delle mere questioni o argomentazioni.

Diversamente da quanto genericamente dedotto nel motivo in esame, i giudici d’appello non hanno omesso la valutazione di alcuno degli elementi probatori offerti dall’Ufficio (e in ogni caso la ricorrente non individua con precisione alcun elemento specifico offerto dall’Ufficio e non considerato dai giudici d’appello), onde ciò di cui si duole la ricorrente non è l’omessa considerazione di fatti decisivi, bensì la valutazione di tali fatti in maniera diversa da quella auspicata.

In proposito, è appena il caso di osservare che, secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, posto che, diversamente opinando il motivo di ricorso in esame si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (v. tra le tante Cass. 29/07/2011, n. 16655; Cass. 25/05/2006, n. 12446; Cass. 20/04/2006, n. 9233; Cass. 27/04/2004, n. 8718).

9. Anche il quarto motivo è destituito di fondamento.

Questa Corte ha in argomento affermato, con riferimento alla disciplina anteriore al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, applicabile nella fattispecie ratione temporis, e con indirizzo qui pienamente condiviso al quale si intende dare continuità, che, in tema di divieto d’intermediazione di manodopera, ai sensi della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, u.c., nel testo vigente ratione temporis, i lavoratori occupati in violazione dello stesso sono alle dipendenze dell’appaltante o interponente che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni, sul quale ricadono, in via esclusiva, gli obblighi retributivi, previdenziali, assicurativi e normativi del datore di lavoro, ivi compresi quelli del sostituto d’imposta per le ritenute d’acconto sulle retribuzioni, sicchè la fatturazione di tali prestazioni da parte dell’intermediario non legittima l’appaltante o interponente a detrarre l’Iva relativa o a dedurre tali costi ai fini della determinazione del reddito imponibile, mancando alla base un valido rapporto contrattuale con l’intermediario (Cass. 17/10/2014, n. 22020), ciò comportando che nemmeno l’appaltante può portare in deduzione ai fini Irap, quale componente negativa di reddito, le spese per il personale dipendente, ai sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 5, comma 3 (Cass. 20/10/2016, n. 21289; v. anche, con riferimento agli obblighi del sostituto d’imposta, di cui al D.P.R. 22 settembre 1973, n. 600, art. 23, per le ritenute d’acconto sulle retribuzioni, Cass. 31/05/2013, n. 13748; Cass. 15/02/2013, n. 3795).

10. E’ infine infondato anche l’ultimo motivo.

Il D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 17, comma 1, così dispone: “per i soggetti che alla data di entrata in vigore del presente decreto hanno acquisito il diritto a fruire di uno dei regimi di esenzione decennale a carattere territoriale dell’imposta locale sui redditi nel rispetto delle condizioni e dei requisiti previsti dalle singole leggi di esonero, il valore prodotto nel territorio della regione ove è ubicato lo stabilimento o l’impianto cui il regime agevolativo si riferisce, determinato a norma degli artt. 4 e 5, è ridotto per il residuo periodo di applicabilità del detto regime di un ammontare pari al reddito che ne avrebbe fruito”.

Il senso di tale disposizione “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” (primo canone di interpretazione della legge ex art. 12 preleggi, comma 1) appare univocamente quello di stabilire che l’agevolazione di cui il soggetto passivo aveva acquisito il diritto sotto il vigore della precedente imposta locale sui redditi si riflette con riferimento alla nuova imposta solo attraverso la riduzione della nuova base imponibile di importo corrispondente all’imponibile che, secondo la precedente imposta, avrebbe beneficiato della previste esenzione.

Si consideri al riguardo che la frase complessa, nella quale linguisticamente si struttura la disposizione, ruota attorno alla seguente centrale proposizione: “il valore prodotto… determinato a norma degli artt. 4 e 5… è ridotto di un ammontare pari al reddito che… avrebbe fruito” (di uno dei regimi di esenzione decennale a carattere territoriale dell’imposta locale sui redditi nel rispetto).

Ciò di per sè è già sufficiente a evidenziare, senza possibilità di equivoci, che l’agevolazione prevista con riferimento alla nuova imposta opera non già sul piano del calcolo dell’imposta medesima (ad esempio attraverso l’abbattimento dell’aliquota) bensì su quello della determinazione della base imponibile, attraverso la “riduzione” della stessa.

La norma, in altre parole, individua il meccanismo di tale agevolazione attraverso una sottrazione, nella quale il primo elemento (minuendo) è rappresentato dal “valore prodotto nel territorio della regione ove è ubicato lo stabilimento o l’impianto cui il regime agevolativo si riferisce, determinato a norma degli artt. 4 e 5” (si tratta dunque di una base imponibile Irap, ancorchè riferita a un ristretto ambito territoriale, e non del reddito che sarebbe stato imponibile secondo la vecchia imposta); il secondo elemento (sottraendo) è invece rappresentato da “un ammontare pari al reddito che ne avrebbe fruito”, ossia da un valore da calcolare alla stregua dei diversi presupposti della vecchia imposta, univoco in tal senso apparendo l’uso del condizionale “avrebbe fruito”.

Le modalità attraverso cui giungere a tale riduzione scontano così inevitabilmente la diversità dei presupposti della nuova imposta rispetto a quelli della precedente alla quale essa è subentrata; diversità che per converso rende insostenibile, anche sul piano dell’interpretazione sistematica oltre che, per quanto visto, di quella letterale, l’opposta interpretazione proposta dalla ricorrente secondo cui la norma in esame altro non farebbe che estendere sic et simpliciter la stessa esenzione quale prevista per l’Ilor – nella stessa misura, negli stessi limiti e con lo stesso meccanismo di calcolo – alla nuova imposta, nonostante la diversità della base imponibile (cfr. Cass. 07/05/2010, n. 11164 che, muovendo da tale interpretazione della norma, ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato il ricorso del contribuente per l’inesistenza, nel caso esaminato, di un reddito Ilor positivo su cui calcolare l’esenzione e dunque per l’impossibilità di operare la sottrazione di tale valore dalla nuova base imponibile Irap).

11. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2017

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