Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12268 del 14/06/2016

Cassazione civile sez. I, 14/06/2016, (ud. 25/05/2016, dep. 14/06/2016), n.12268

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11405/2010 proposto da:

COMUNE DI S’ANTIMO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI 30, presso

l’avvocato GIOVAN BATTISTA SANTANGELO, rappresentato e difeso dagli

avvocati CARMELA MAISTO, VINCENZO MORMILE, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.S.A. S.R.L. MANAGEMENT SERVICE AGENCY IN LIQUIDAZIONE, (C.F.

(OMISSIS)), in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA AJACCIO 14, presso l’avvocato ARTURO

LEONE, rappresentata e difesa dagli avvocati GIULIANA VOSA, PAOLO

VOSA, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2722/2009 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 17/09/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/05/2016 dal Consigliere Dott. MARIA GIOVANNA C. SAMBITO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato PETRONE MIRIAM, con delega,

che si riporta al ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di quella Città aveva condannato il Comune di S. Antimo al risarcimento del danno subito dalla S.r.l. MSA – Management Service Agency, per l’illegittima occupazione e l’irreversibile trasformazione di un’area per effetto della realizzazione dell’opera pubblica, nonchè alla corresponsione dell’indennità di occupazione. La Corte partenopea ha affermato, per quanto interessa, che: a) la Società attrice era legittimata a pretendere il risarcimento, per avere acquistato l’area occupata, unitamente ai crediti scaturenti dalla procedura espropriativa, allora in corso, per scrittura privata dell’11.9.90, e successivi atti di precisazione, circostanza nota al Comune che aveva emesso il decreto di espropriazione, poi annullato, proprio in danno di detta Società; b) le censure relative all’affermata legittimità della procedura espropriativa erano infondate, essendo stati annullati, con sentenza del giudice amministrativo intervenuta nelle more del giudizio, i decreti di occupazione ed espropriazione, ricorrendo, quindi, il caso della c.d. occupazione usurpativa; c) secondo il certificato di destinazione urbanistica, l’area -che in base al vincolo espropriativo era destinata a verde pubblico attrezzato-ricadeva in “zona bianca” non potendo, perciò, tenersi conto dell’originaria qualificazione del suolo come agricolo, e dovendo invece applicarsi il criterio dell’edificabilità di fatto, carattere edificatorio che ricorreva nella specie, tenuto conto che nelle aree limitrofe sorgevano edifici per civile abitazione e che nella zona vi era la presenza di infrastrutture primarie; d) la valutazione del CTU, fondata su rogiti per immobili aventi caratteristiche similari, era congrua e le censure del tutto generiche; e) erano dovuti gli interessi e la rivalutazione a decorrere dal 31.1.1999, in quanto il maggior danno di cui all’art. 1224 cpv. c.c., era presunto secondo il principio affermato nella sentenza n. 19499 del 2008 delle SU della Cassazione, e dello stesso avrebbe dovuto tenersi conto in sede esecutiva.

Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso il Comune di S. Antimo con cinque mezzi, ai quali resiste la MSA Srl con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, si deduce, in riferimento alla statuizione sub a) della narrativa, la violazione della L. n. 2359 del 1865; L. n. 865 del 1971; L. n. 2248 del 1865, all. E; L. n. 10 del 1977, L. n. 158 del 1991; D.L. n. 325 del 1992; L. n. 662 del 1996; art. 100 c.p.c. e degli artt. 2697, 2704, 2644, 832, 934 e 2043 c.c., oltre che vizio di motivazione. Il ricorrente afferma che la circostanza che il decreto di espropriazione sia stato emesso in danno dell’odierna controricorrente è irrilevante, essendo il provvedimento stato annullato dal giudice amministrativo, e poichè, in base ai principi applicabili in tema di occupazione usurpativa, era intervenuto l’acquisto a titolo originario del diritto di proprietà del fondo a seguito dell’ultimazione dei lavori, id est alla data del 26.3.1990, la controparte non poteva averlo acquistato successivamente (22.10.1991) o divenire cessionaria del relativo credito risarcitorio, con conseguente carenza di legittimazione attiva. Peraltro, la Società non poteva far valere il suo titolo d’acquisto, che era stato integrato con atti successivi, di cui non era stata provata ex adverso l’intervenuta trascrizione nei registri immobiliari, e che erano perciò, inopponibili ad esso Comune.

2. Col sesto motivo (secondo la numerazione del ricorrente), il Comune censura la statuizione sub b) di parte narrativa per violazione della L. n. 2359 del 1865; della L. n. 865 del 1971; L. n. 2248 del 1865, All. E, L. n. 10 del 1977; L. n. 158 del 1991, D.L. n. 325 del 1992; L. n. 662 del 1996; art. 100 c.p.c. e degli artt. 2697, 2704, 832, 934 e 2043 c.c., oltre che per vizio di motivazione e per omessa pronuncia sul secondo e terzo motivo d’appello. La Corte territoriale, lamenta il ricorrente, ha ritenuto ricorrere l’ipotesi dell’occupazione usurpativa nonostante il Tribunale avesse accolto la domanda volta al conseguimento del risarcimento da occupazione acquisitiva, e nonostante non fosse stato proposto sul punto appello incidentale dalla danneggiata. I motivi d’appello, coi quali aveva dedotto l’incompetenza a decidere sulla domanda volta al riconoscimento dell’indennità d’occupazione e sulla legittimità della procedura espropriativa avrebbero, dunque, dovuto essere esaminati.

3. I motivi, da valutarsi congiuntamente, per comodità espositive e per la loro connessione, presentano profili d’inammissibilità ed infondatezza. 3.1. Anzitutto, essi deducono (al pari di tutti i restanti motivi) la violazione delle plurime discipline menzionate nei titoli (senza che siano neppure indicate le disposizioni, in tesi violate) ma non svolgono poi alcuna specifica censura in riferimento a tutte le normative enunciate; deducono il vizio di motivazione su profili di diritto (in quanto il primo nega la legittimazione in riferimento al momento dell’asserito passaggio della proprietà del bene, ed il secondo la violazione del giudicato interno); il primo introduce, inoltre, nuovi temi d’indagine (relativi alla trascrizione dei titoli d’acquisto della danneggiata) ed il sesto è totalmente generico rispetto al contenuto delle difese dalla Secietà, laddove, dall’esame delle conclusioni della comparsa di costituzione d’appello (quali trascritte nel controricorso), emerge esser stata nuovamente riproposta la domanda volta alla restituzione del bene e comunque al risarcimento di tutti i danni, già avanzata in prime cure, e accolta dal Tribunale mediante risarcimento per equivalente liquidato in misura piena, non avendo il primo giudice ritenuto applicabile, nella specie, il criterio di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis. 3.2. Le doglianze sono poi contraddittorie tenuto conto che, nel primo motivo, il ricorrente afferma trattarsi di un caso di occupazione c.d. usurpativa, mentre sostiene nel sesto –

infondatamente, come si è detto-, esser passata in giudicato la sussistenza di un caso di occupazione acquisitiva, invocando, persino, il criterio riduttivo di cui della L. n. 359 del 1992, menzionato art. 5 bis, comma 7 bis, dichiarato illegittimo con sentenza della Corte Cost. n. 349 del 2007.

3.3. Va peraltro rilevato che, con la sentenza n. 735 del 2015, le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto l’istituto dell’occupazione acquisitiva non conforme con il principio enunciato dalla CEDU secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”, e, perciò, superando il pregresso indirizzo conservativo dell’istituto, lo hanno esattamente equiparato a quello della c.d. occupazione usurpativa, affermando che, in entrambi i casi, resta esclusa l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, e va riconosciuto al proprietario, rimasto tale nonostante la manipolazione illecita del bene da parte dell’amministrazione, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione ecc), oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.. Trattandosi, in entrambi i casi di un’ipotesi d’illecito permanente, lo stesso viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente. Richiesta che è stata, appunto, avanzata dall’acquirente del bene in virtù dei titoli d’acquisto indicati dallo stesso ricorrente (che, peraltro, disponevano la cessione del credito al relativo controvalore). 3.4. L’omessa pronuncia sui motivi d’appello è dunque insussistente, essendo stati correttamente ritenuti assorbiti, per effetto della statuizione demolitoria del Giudice Amministrativo.

4. Col secondo motivo, si deduce la violazione della L. n. 2359 del 1865; L. n. 865 del 1971; L. n. 10 del 1977; L. n. 158 del 1991; D.L. n. 325 del 1992; L. n. 662 del 1996; art. 42 Cost., D.M. n. 1444 del 1968 e degli artt. 2697, 832 e 2043 c.c., oltre che vizio di motivazione, in riferimento alla statuizione sub c) della narrativa.

Il ricorrente afferma che l’area aveva originariamente destinazione agricola (zona E), e per effetto della variante straordinaria del PRG approvata con Delib. CC 20 febbraio 1979, era stata destinata a “verde pubblico attrezzato”. Fermo restando che il certificato di destinazione urbanistica non poteva precludere in sede giurisdizionale l’esatto inquadramento e la determinazione del valore, l’annullamento con efficacia ex tunc, ad opera del giudice amministrativo della seconda destinazione, costituente vincolo a carattere espropriativo, doveva comportare, prosegue il ricorrente, la reviviscenza di quella pregressa. Ciò, a differenza di quanto avviene per la scadenza dei termini di efficacia del vincolo, ed in conformità col principio, affermato da questa Corte secondo cui un’area a destinazione agricola non può esser considerata come edificatoria per la localizzazione in essa dell’opera pubblica.

L’Ente ricorrente afferma, ancora, che la scelta della Corte territoriale di riconoscere al fondo la natura edificatoria contrasta coi principi di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, in base ai quali il riconoscimento di siffatta qualità deriva dalla destinazione impressa ai suoli dallo strumento urbanistico.

5. Il motivo va accolto nei termini che seguono.

5.1. Occorre rilevare che, fermo restando che il P.R.G. del 10.12.1977 aveva destinato la zona in cui l’area ricadeva ad agricoltura, il progetto esecutivo di sistemazione a verde pubblico attrezzato originariamente approvato con Delib. 20 febbraio 1979, n. 567 e costituente vincolo preordinato all’esproprio, è decaduto dopo il decorso di cinque anni, secondo quanto accertato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 6167 del 2007 nel giudizio che ha avuto esito favorevole alla Società: rendendo l’area (e non la zona) priva di regolamentazione urbanistica, come peraltro attestato in seno al certificato di destinazione urbanistica – secondo cui il suolo illegittimamente occupato costituiva una c.d. area bianca – dello stesso Comune, che, in tal modo, infondatamente sconfessa quanto da lui stesso assentito in via amministrativa. 5.2. Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto di dover far ricorso al criterio dell’edificabilità di fatto, che è applicabile quando, come nella specie, l’area resti priva di regolamentazione urbanistica per essere il vincolo di inedificabilità divenuto inefficace per decorso di un quinquennio: ipotesi in cui, come del resto riconosce lo stesso ricorrente, non è consentito far rivivere la condizione urbanistica agricola preesistente, ma si impone il ricorso alla disciplina prevista dalla normativa di cui alla L. n. 10 del 1977, art. 4, u.c. (Cass. n. 9488 del 2014; 10936 del 2008; 21434 del 2007).

5.3. L’accertata qualificazione come bianca dell’area occupata non comporta, tuttavia, un automatico riconoscimento della sua natura edificabile, dovendo essere apprezzata la ricorrenza di tale carattere in base al criterio dell’edificabilità di fatto, che – a differenza di quanto avveniva prima dell’introduzione della necessità, ex lege n. 10 del 1977, della concessione edilizia per l’edificazione privata,nonchè allo sviluppo degli strumenti urbanistici generali fino a disciplinare l’intero territorio comunale – impone oggi un metodo di valutazione sostanzialmente incentrato sulla verifica della funziolità di detta area in termini di naturale ed armonico completamento di quelle, ad essa contigue, che siano destinate all’edificazione in base alle scelte legislative ed a quelle pianificatorie dei comuni. In altri termini si fonda su di un’indagine che nulla ha a che spartire con quella – secondo cui il terreno della controricorrente era circondato da aree sulle quali sono costruiti edifici ed opere di urbanizzazione – sulla quale la Corte territoriale ha basato la propria valutazione edificatoria (errata perfino negli anni 60), in quanto la valutazione dell’edificabilità di fatto non si risolve nella possibilità di allaccio con le strutture di urbanizzazione primaria – tanto più che dopo la L. n. 94 del 1982, si è formata una diversa concezione delle opere di urbanizzazione indispensabili per rivelare (e consentire) l’edificabilità, ormai comprendenti anche quelle di urbanizzazione c.d. secondaria individuate dal combinato disposto della L. n. 847 del 1964, art. 1, sub c) e art. 4, ma, come si è detto, impone una verifica della funzione di naturale completamento di una zona adibita all’edificazione, che deve, per l’effetto, ispirarsi a criteri funzionali, inevitabilmente condizionati dall’analisi dell’impatto urbanistico ed edilizio che l’opera produce in un contesto più ampio di quello circoscritto alla singola zona in cui è compresa (Cass. nn. 29788 e 28282 del 2008; Cons. St. nn. 2874 del 2000; 920 del 1992; 382 del 1988).

In tale indagine assume rilievo prioritario – a maggior ragione dopo la L. n. 47 del 1985 – l’esame del regime vincolistico sia esso derivante direttamente dalla legge, che dalla pianificazione urbanistica onde stabilire se esso sia o meno preclusivo “al rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata (D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, comma 4): nel cui ambito rientrano, anzitutto, i vincoli di zona (in cui è incluso l’immobile) disposti dalla pianificazione generale, che, come più volte rilevato anche dalla giurisprudenza amministrativa, prescindono della disciplina dettata per le c.d. zone bianche dalla L. n. 10 del 1977, art. 4, u.c. (ora, art. 9, T.U. edilizia) e, non essendo soggetti a decadenza, mantengono intatti i loro effetti strettamente urbanistici fino all’approvazione di un nuovo piano generale (Cass. n. 7251/2014; n. 17069/2012; n. 17557/2009; Cons. St. n. 5199/2006; 5801 e 4232/2005; 1491/1996).

Nessuno di questi principi è stato osservato dalla sentenza impugnata,che pervenendo all’abnorme risultato che tutte le aree bianche interne ad un perimetro urbano (già edificato) siano perciò stesso edificabili,è incorsa anche in una palese violazione della L. n. 10 del 1977, menzionato art. 4. 5.4. Se le ragioni dell’inedificabilità prospettate dal Comune sono frutto di un eguale e contrario automatismo, per cui la norma renderebbe tutte le zone bianche inedificabili, la sussistenza dell’edificabilità di fatto dell’area occupata o l’esclusione del relativo carattere dovrà essere accertata dal giudice del rinvio,attenendosi ai principi esposti e tenendo conto, anzitutto, dell’esistenza di prescrizioni e di vincoli legislativi ed urbanistici interni alla zona nella quale l’area stessa ricade; nonchè – e solo infine, ove la valutazione che precede abbia avuto esito favorevole alla danneggiata – della presenza o meno di altre circostanze ostative di fatto a realizzazioni edilizie (Cass. 22961/2007; 18680/2005; 10265/2004;

9207/1999; 3839/1999; 774/1998) quali: le dimensioni dell’area, l’esaurimento degli indici di fabbricabilità della zona dovuto alle costruzioni già realizzate, la distanza da opere pubbliche, che vengono a completare i presupposti necessari a conferire in astratto natura edificatoria ad un’area e ad incidere proprio sull’edificabilità effettiva, quale attitudine del suolo ad essere sfruttato e concretamente destinato a fini edificatori.

6. L’impugnata sentenza va, pertanto, cassata, restando assorbiti i motivi terzo e quarto relativi alle statuizioni sub d) ed e) della narrativa. Il giudice del rinvio provvederà, inoltre, a statuire sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta i motivi primo e sesto, accoglie il secondo, assorbiti gli altri, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2016

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