Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12245 del 19/05/2010

Cassazione civile sez. trib., 19/05/2010, (ud. 19/01/2010, dep. 19/05/2010), n.12245

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito A. – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AHRGND HOUSE coop. a r.l., in persona del legale rappresentante

D.F.R., elettivamente domiciliata in Roma in

viale Regina Margherita n. 262/264, presso l’avv. D’Andria Cataldo

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro in

carica, e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato

e domiciliati presso la sua sede in Roma, in via dei Portoghesi n.

12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio

n. 77/15/02, depositata il 28 novembre 2002.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19

gennaio 2010 dal Relatore Cons. Dr. Antonio Greco;

Uditi l’avv. Cataldo D’Andria per la ricorrente e l’avvocato dello

Stato Guida Letizia per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di indagini penali svolte dal Centro repressioni frodi della Guardia di finanza nei confronti di cooperative giornalistiche sulla presunta illecita richiesta dei contributi per l’editoria determinati, ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 250, in funzione dei costi sostenuti negli ultimi due anni e della tiratura di copie delle riviste, l’ufficio IVA di Roma, sulla base di un pubblico verbale di constatazione della Guardia di finanza del 25 settembre 1996, notificava alla Abrond House, società cooperativa a r.l., avviso di rettifica con il quale contestava di aver indebitamente detratto dalla dichiarazione per l’anno 1992 l’imposta, pari a L. 41.868.000, relativa a fatture emesse dalla Editoriale Cover srl per operazioni in tutto o in parte inesistenti.

Il ricorso della società contribuente, che lamentava la carenza di motivazione dell’atto, la violazione del divieto di ammissione della prova testimoniale nel processo tributario e l’eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti – derivato dalla mancata conoscenza dei processi di lavorazione e di ideazione necessari per la realizzazione di una rivista specializzata nel settore musicale – era rigettato in primo grado.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza in epigrafe, adita in appello dalla Abrond House, che insisteva nei motivi formulati con l’atto introduttivo, rigettava il gravame.

Riteneva infatti legittima la motivazione dell’atto di accertamento per relatianem al p.v.c. della Guardia di finanza; non ravvisava violazione del divieto di ammissione della prova testimoniale posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 nella presenza, tra gli elementi dedotti a sostegno della pretesa erariale, di dichiarazioni rese da persone estranee alla società; considerava la ritenuta inesistenza delle operazioni fatturate basata su argomentazioni e fatti prevalenti e convincenti, rilevabili anche nella richiesta di rinvio a giudizio delle singole persone coinvolte nel procedimento penale promosso per l’acquisizione illegale dei contributi per l’editoria di cui alla L. n. 250 del 1990.

In ordine al carattere fittizio delle operazioni documentate dalle fatture, in particolare, poneva in luce come i rapporti commerciali esistenti tra i soggetti appartenenti al Gruppo Bassoli, organizzatore e promotore delle dette attività, fossero significativi, ma con esborsi irrilevanti ed in assenza di denaro sufficiente a garantire l’assolvimento delle operazioni contratte;

come la società ricorrente, malgrado avesse un capitale sociale irrilevante ed una perdita di esercizio nell’anno della costituzione, aveva rivelato, per l’anno in contestazione, una sorprendente capacità operativa di circa 2,7 miliardi, sino a giungere nel 1994 a circa 5 miliardi; come fosse stato riscontrato dai bilanci l’utilizzo sistematico di compensazioni rilevanti per garantire alle cooperative richiedenti i contributi un ammontare notevole di maggiori costi ed un virtuale pareggio di bilancio.

Rilevava che il Centro repressioni frodi della Guardia di finanza, nello svolgimento delle dette indagini disposte dall’autorità giudiziaria, aveva ritenuto che la società contribuente, come le altre società cooperative editoriali dello stesso gruppo, era stata costituita con l’utilizzo di prestanome quali amministratori, sondaci e soci, al fine di “fatturare operazioni inesistenti, aumentando fittiziamente i costi di gestione delle testate, a volte mai editate o editate con tirature inferiori a quanto dichiarato, per acquisire illecitamente i contributi”, e che molti degli amministratori, sindaci e soci avevano “dichiarato di avere accettato cariche sociali su espressa richiesta dei coniugi B.; di non aver mai posto in essere alcuna atività inerente alla carica sociale; ed altri, come i componenti del collegio sindacale, avevano riconosciuto che l’attività di controllo dei dati di bilancio era stata eseguita in maniera difforme dalla legge”.

Osservava come tra le attività la voce preminente era relativa ai “contributi dovuti dallo Stato”, sino al 2002 non concessi e comunque non ancora erogati, con conseguente “eccezionale dipendenza finanziaria della ricorrente, a causa dell’elevato indebitamento che si protrae ed aumenta per gli anni assoggettati a verifica”, e ricordava cerne nella richiesta di rinvio a giudizio era stato riscontrato che, al fine di dimostrare falsamente il requisito della preventiva diffusione quinquennale della pubblicazione, la rivista Flash, edita dalla contribuente, era “stata stampata con una copertina, applicandola a copie pubblicate in epoca successiva al periodo di riferimento”, con la conseguenza che si era “verificato che nelle riviste in questione erano stati descritti e commentati eventi musicali verificatisi posteriormente alla data di pubblicazione indicata in copertina”.

In tale quadro generale, secondo la sentenza impugnata, “l’accertamento è legittimo, trattandosi di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia ed anche della contabilità, per cui la ricorrente ha l’onere di fornire una giustificazione razionale, credibile e documentabile”.

Premesso poi che le doglianze circa il travisamento dei fatti da parte dei verificatori non erano state “oggetto del possibile e consentito contraddittorio da instaurare con i militari verificatori, da inserire nel pvc”, osservava, in ordine alle due fatture indirizzate alla Editoriale Gover, società del gruppo, dalla Shirley Ferrines & Associates, peraltro non firmate, prodotte con il ricorso per dimostrare che i servizi forniti dalla detta, società del gruppo erano reali, che era invece emersa, dal p.v.c. redatto nei confronti della Editoriale Gover, “la sostanziale inesistenza delle operazioni in trattazione, perchè la società non annota, nel registro IVA e sul libro giornale, le fatture dei collaboratori esteri”, con una sola eccezione. Inoltre, non erano stati rilevati esborsi a favore della detta Shirley, nè che questa avesse attivato procedure per la riscossione coattiva del cospicuo credito vantato, anche per gli anni successivi.

Quanto alle “lavorazioni presso terzi e c/diversi”, rilevava la sufficienza, insieme agli altri fatti esposti, per confermare la legittimità dell’operato dell’ufficio, del “riscontro analitico dell’attività svolta, fatto dalla Guardia di finanza, in comparazione testimoniale con esercenti attività analoghe, in rapporto al prezzo massimo praticato per le stesse composizioni”, in quanto non era illogico “ritenere gli operatori interpellati dalla Guardia di Finanza – anche se deputati a svolgere servizi diversi, ma direttamente collegati a differenti fasi operative (prestampa successiva al lavoro di fotocopia) – al corrente dei prezzi praticati dal mercato per i servizi resi dall’Editoriale Gover. Il valore indiziario di tali dichiarazioni, nonchè la incongruenza dei valori esposti, supportato dai fatti e dalle vicende già richiamate, si salda con il rilievo che, in sede di verbale, i rappresentanti della ricorrente, a fronte di questi rilievi, non sollevarono alcuna riserva o contestazione”.

Nei confronti della decisione la cooperativa contribuente propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi ed illustrato con successiva memoria.

Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate resistano con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Premesso che il giudizio penale concernente la richiesta dei contributi all’editoria di previsti dalla L. n. 250 del 1992 – cui fa riferimento la sentenza impugnata – si è “concluso con una sentenza del Tribunale di Rara, sezione dei Giudici per le indagini preliminari, nella quale è stato dichiarato il non luogo a procedere per l’insussistenza del fatto”, col primo motivo la ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, commi 1 e 2 e dell’art. 2700 cod. civ..

Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ.)”, censura la sentenza impugnata per aver considerato “legittimo l’accertamento fondato su un p.v.c. il quale, lungi dal contenere quanto espressamente richiesto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 2 ha soltanto determinato delle presunzioni dalle quali sono state ricavate altre presunzioni”, e deduce “l’inammissibilità di un p.v.c. (e la conseguente illegittimità dell’atto impositivo che sullo stesso si fonda) in un caso in cui … i verificatori non hanno fornito agli uffici prove documentali sulle quali basare la pretesa erariale, ma hanno semplicemente tratto conclusioni sulla base di presunzioni, fornendo agli uffici mere opinioni”. Le contraddizioni in cui cadrebbe la sentenza impugnata deriverebbero “direttamente dalle contraddizioni di un atto che ha creduto di poter trovare la propria motivazione in un p.v.c. che non fornisce prove documentali, ma testimonianze, presunzioni, deduzioni e giudizi su cui mai l’Ufficio avrebbe potuto trovare la motivazione delle proprie pretese”.

Il motivo è infondato.

Costituisce principio costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, in materia di IVA, in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, grava su di essa l’onere di provare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà non sono state mai poste in essere.

Ma, se l’amministrazione fornisca validi elementi e fornisca attendibili riscontri indiziari, alla stregua del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2 per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni, anche solo parzialmente, fittizie, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indebiti, e perciò di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non assumendo rilievo la propria buona fede (ex multis, Cass. n. 15395 e n. 2847 del 20081).

Con il secondo motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, nonchè della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 10 e 12. Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5)”, osserva che le illazioni e le congetture espresse dalla Guardia di finanza nella prima parte, infondata, del pubblico verbale di constatazione posto a base dell’accertamento, non trovino corrispondenza nella seconda parte dello stesso p.v.c., la quale si limiterebbe a “rilevare l’incongruità del servizio di fotocomposizione e fotocomposizione indici analitici ricevuto dalla Abrond House relativamente alla nota testata Tutti Frutti edita dalla società”, erroneamente indicata come Flash, che, a detta dei verificatori, avrebbe portato all’indebita detrazione di L. 41.868.000 di IVA contestata con l’avviso impugnato. A fondamento di tale incongruità sarebbe la testimonianza resa alla Guardia di finanza dal S., amministratore di una tipografia cui le società del gruppo della ricorrente si rivolgevano per la prestampa e la stampa delle riviste, e che quindi non svolgeva il servizio di fotocomposizione. L’utilizzo di tale testimonianza sarebbe stato illegittimo da una parte perchè questa era stata resa da un soggetto che rende servizi diversi dalla fotocomposizione, e che perciò non poteva conoscerne il prezzo, e dall’altra perchè, pur non essendo stata la detta testimonianza oggetto di alcuna ulteriore verifica, era stata assunta quale unica prova dell’incongruità del prezzo del servizio, perchè troppo alto.

Il motivo è infondato, in quanto nel processo tributario, gli elementi indiziari, come la dichiarazione del terzo acquisita dalla guardia di finanza nel corso di ispezioni e verifiche, concorrono a formare il convincimento del giudice, se confortati da altri elementi di prova; se rivestono i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ., essi danno luogo a presunzioni semplici (del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54), generalmente ammissibili nel contenzioso tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale Cass. n. 9402 del 2007). Nella specie, il terzo, fornitore di un servizio nella realizzazione del prodotto editoriale della contribuente, ancorchè non addetto alla specifica lavorazione in contestazione, va ragionevolmente ritenuto tutt’altro che ignaro dei valori di mercato degli altri servizi resi a monte e a valle della specifica attività svolta.

Col terzo motivo la ricorrente, denunciando “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 13 e 14, art. 19, comma 1 e art. 21, comma 7. Omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5)”, si duole che il giudice d’appello, dopo aver trasposto nella sentenza impugnata l’ipotesi ricostruttiva degli organi verificatori, abbia finito col legittimare un avviso di accertamento fondato unicamente su elementi indiziari, suffragando la tesi erariale della “incongruità” dei corrispettivi pattuiti tra le parti a fronte delle prestazioni rese, laddove “il valore normale dei corrispettivi” costituirebbe elemento rilevante, ai fini della determinazione della base imponibile, esclusivamente per le fattispecie individuate nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 13, comma 2, lett. c).

Con il quarto motivo, denunciando “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis. Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5)”, censura la sentenza assumendo che essa avrebbe richiamato in modo inconferente e fuorviante il principio recato dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, comma 1 ponendo “l’accento sulla simmetria che sussisterebbe tra l’obbligo del contribuente di motivare le scelte apparentemente non in linea con i criteri di gestione economica della propria attività e l’obbligo di motivazione degli atti che grava sull’Amministrazione finanziaria”.

Non si comprenderebbe, infatti, quali siano le operazioni addebitabili ad essa ricorrente volte ad aggirare un obbligo o un divieto previsto dall’ordinamento tributario.

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati, in quanto, nell’ipotesi di inesistenza, e segnatamente di parziale fittizietà, di operazioni, il dubbio e la contestazione dell’ufficio, confortata nella specie da un quadro di indizi articolato, in ordine alla concordanza ed alla complessiva consistenza dei quali il giudice d’appello ha fornito ampia motivazione, ha ad oggetto proprio la corrispondenza dei valori formalmente indicati con quelli effettivi. Ai fini dell’accertamento dell’imposta dei redditi, del resto, è stato in più occasioni affermato il principio secondo cui “rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa; pertanto, la deducibilità dei costi esposti in bilancio non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere o libri sociali o contratti e che sia irrilevante la divergenza tra il valore effettivo e il valore ivi iscritto o riportato” (Cass. n. 11240 del 2002 e n. 4554 del 2010).

Con il quinto motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 6, (TUIR).

Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5)”, assume che l’odierno contesto non sia relativo all’esistenza o meno dei servizi resi dall’agenzia americana Shirley Ferrini alla Editoriale Cover e da quest’ultima alla Abrond House, bensì alla incongruità di costi per “fotocomposizione”. In proposito, comunque, va affermata l’esistenza dei costi da quelle fatture documentati, essendo erroneo far discendere, come nella sentenza impugnata, l’inesistenza delle operazioni e la conseguente indeducibilità dei costi dalla mancata annotazione nel libro giornale e nel registro IVA. Ciò in quanto, da una parte le fatture emesse dall’agenzia americana sarebbero state correttamente annotate nel libro giornale, e, dall’altra, per la residenza estera della società erogatrice del servizio, la prestazione sarebbe fuori campo IVA per assenza dell’elemento territoriale, sicchè le relative ricevute non dovevano essere registrate nel registro IVA, bensì solo nel libro giornale. Sarebbe stata poi provata “la corrispondenza fra le prestazioni rese dalla Shirley Ferrini alla Editoriale Cover e quelle rese da quest’ultima alle società cooperative, quali appunto l’odierna ricorrente”, sicchè “i servizi in parola devono considerarsi esistenti e i giudici” di merito avrebbero potuto chiedere alla parte di integrare la prova con documentazione ulteriore oltre a quella già allegata in atti di causa.

Il motivo è in parte inartmissibile, con riguardo alle contestazioni concernenti la mancata annotazione, perchè, come è formulato, si presenta privo del requisito dell’autosufficienza, ed in parte infondato, in quanto l’evidenziato riscontro del mancato pagamento di quei servizi conferma la natura fittizia, e nella sostanza elusiva, delle operazioni.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 4200, di cui Euro 200 per spese vive, oltre al c.u., accessori di legge e spese generali.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2010

 

 

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