Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12241 del 09/05/2019

Cassazione civile sez. III, 09/05/2019, (ud. 05/02/2019, dep. 09/05/2019), n.12241

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7390/2017 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO MARIO, 13,

presso lo studio dell’avvocato SAVERIO COSI, che la rappresenta e

difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

INTESA SANPAOLO SPA, in persona del Procuratore P.B.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI VILLA GRAZIOLI 15, presso

lo studio dell’avvocato BENEDETTO GARGANI, che la rappresenta e

difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23172/2016 del TRIBUNALE di ROMA, depositata

il 12/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

05/02/2019 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO.

Fatto

RILEVATO

che:

T.G. ha chiesto, affidandosi ad un ricorso articolato su tre motivi e notificato a mezzo p.e.c. il 23/03/2017, la cassazione della sentenza n. 23172 del 12/12/2016 del Tribunale di Roma (addotta come notificatale il 25/01/2017), di rigetto dell’appello da lei proposto contro l’accoglimento – da parte del Giudice di pace della Capitale con sentenza n. 39528/14 – dell’opposizione dispiegata dalla spa Intesa Sanpaolo all’esecuzione ai suoi danni intentata in base ad ordinanza di assegnazione di crediti ex art. 553 c.p.c., pronunciata in esito a procedura esecutiva n. 24082/02 r.g.e. del Tribunale di Roma;

in particolare, era stata proposta opposizione dalla banca, quale terza assegnata, all’esecuzione comunque intrapresa ai suoi danni dalla creditrice assegnataria in forza di ordinanza di assegnazione emessa molti anni prima e mai comunicata ad essa terza assegnata, sul presupposto del carattere non integrale del pagamento intercorso, per di più oltre dieci giorni dalla notifica contestuale di titolo e precetto, sia per la dedotta erroneità della misura della ritenuta d’acconto applicata, sia per l’omessa corresponsione degli interessi e di alcune voci di precetto;

resiste con controricorso l’intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

è preliminare e decisivo (in tali espressi sensi, su controversia in larga parte analoga tra le stesse parti e caratterizzata da identiche modalità di formulazione del ricorso, se non pure sovrapponibile a quella odierna: Cass. Sez. U. 30/11/2018, nn. 30754 e 30755) il rilievo per cui la ricorrente non riporta in maniera comprensibile la sequenza dei fatti di causa rilevanti;

infatti, il testo del ricorso, nella parte riservata all’esposizione sommaria dei fatti di causa, consta della riproduzione scannerizzata dell’ordinanza di assegnazione, di un precetto con annessa relata di notifica, nonchè, alla pagine 7 ed alle prime quattro righe della successiva, di una laconica quanto incompleta esposizione di alcune circostanze del giudizio di primo e di secondo grado;

inoltre, il ricorso non riporta affatto, nè con completezza e neppure nella pur consentita formula riassuntiva, le ragioni della decisione di primo grado e, soprattutto, le ragioni della decisione di appello, limitandosi ad affermare che il proprio appello è stato respinto per poi passare direttamente alla esposizione ed illustrazione dei propri motivi di ricorso per cassazione;

a sua volta, la lettura dei tre motivi (il primo, di “violazione e falsa applicazione degli artt. 37 – 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1 – in ordine alla questione dell’applicazione della ritenuta di acconto”; il secondo, di “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo all’art. 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”; il terzo, di “violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116 c.p.c. – artt. 2697 – 1181 c.c., D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, della L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 11, commi 5, 6 e 7, nonchè nel D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, art. 33, comma 4) in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Omessa valutazione di una circostanza determinante”) non consente la piena comprensione di quelli – e, mediante quelli, delle vicende processuali – senza attingere all’esterno del ricorso, cioè alla sentenza d’appello o al controricorso;

l’intero ricorso è quindi inammissibile per difetto della sommaria esposizione dei fatti di causa, il che esime dal dover esaminare, e perfino dal dover in questa sede riportare o meglio ricostruire il contenuto dei motivi di ricorso, in quanto a questo scopo si dovrebbe come detto attingere aliunde;

manca infatti una chiara e precisa, benchè sommaria, esposizione dei fatti processualmente rilevanti, non avendo la ricorrente riprodotto una pur sintetica narrativa della complessiva vicenda processuale, non consentendo così alla Corte la comprensione della stessa (Cass. Sez. U., nn. 16628/2009 e 5698/2012); infatti il requisito della esposizione sommaria dei ratti consiste in una esposizione che deve garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. Sez. U. n. 11653/2006; per una fattispecie del tutto analoga a quella in esame, v. recentemente Cass. n. 21396 del 2018);

in mancanza di una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), della sintetica esposizione della soluzione accolta dal giudice di merito, nonchè di una chiara illustrazione dell’errore da quest’ultimo commesso e delle ragioni che lo facciano considerare tale, viene addossato alla S.C. il compito, ad essa non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi sottoposti al suo esame, senza un ordine logico, quelli ritenuti rilevanti dallo stesso ricorrente ai fini del decidere (v. recentemente Cass. n. 13312 del 2018, che ha puntualizzato che per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti cor cui sono stati formulati causa petendi e petitum, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata – ed il cui onere ncombe – invece al ricorrente; il requisito non è adempiuto, pertanto, laddove i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado);

si aggiunga che la valutazione in termini di inammissibilità del ricorso, lungi dall’esprimere un formalismo fine a sè stesso, esprime un richiamo al rispetto – oltre che di una precisa disposizione di legge – di uno standard di redazione degli atti che valorizza la stessa qualificata prestazione professionale svolta dall’avvocato, che si traduce nel sottoporre nel modo più chiaro possibile la vicenda processuale e le ragioni del proprio cliente al giucice, nonchè le questioni sottoposte all’attenzione della Corte nel ricorso in cassazione in particolare;

a ciò si aggiunga che neppure è possibile nel caso di specie, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità del ricorso, recuperare in maniera sufficientemente chiara la necessaria sommaria esposizione dei fatti di causa attraverso la lettura dei motivi (v Cass. n. 17036 del 2018, che evidenzia come non sia necessario che tale esposizione costituisca parte a sè stante del ricorso ma è indispensabile, ancorchè sufficiente, che essa risulti in maniera chiara dal contesto dell’atto, attraverso lo svolgimento dei motivi);

il ricorso presenta infatti, anche all’interno della trattazione riservata all’esposizione dei motivi, l’inserimento non giustificato di svariate porzioni, scannerizzate e riprodotte, degli atti processuali del giudizio di merito, peraltro raramente per esteso, talvolta privi sia di intestazione e di riproduzione integrale, che di rielaborazione sintetica da parte del ricorrente, che di alcuna chiara individuazione della rilevanza dei passi riprodotti nell’economia delle tesi esposte dalla ricorrente, il che rende, nella sua integralità, incomprensibile il mezzo processuale;

gli stessi motivi non sono autonomamente comprensibili, e non sarebbero stati neppure riassumibili a mero scopo illustrativo senza l’ausilio fornito dal testo della sentenza, al quale tuttavia non si può attingere per decidere il ricorso se quest’ultimo non sia in grado di fornire autonomamente la chiave di comprensione della vicenda processuale e della motivazione della sentenza impugnata, per poi muovere ad essa una critica ragionata ed ancorata ai motivi;

la pronuncia, in limine, di inammissibilità (del tutto conforme a Cass. Sez. U. 30/11/2018, nn. 30754 e 30755), esime la Corte dal dover esaminare, e finanche dal dover riportare i motivi di ricorso: ed il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, disattese le altre richieste formulate dalla ricorrente per non farsi queste carico talvolta invocando comparazioni con altri precedenti – delle ragioni di rito già illustrate nelle dette sentenze delle Sezioni Unite, che superano evidentemente le obiezioni ancora mosse dall’odierna ricorrente e privano di ammissibilità pure la singolare richiesta di intervenire ai sensi dell’art. 363 c.p.c.;

le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in relazione al valore dichiarato della controversia; e, poichè il ricorso per cassazione è stato proposto dopo il 30 gennaio 2013 e la ricorrente risulta soccombente, ella è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater (poichè il credito azionato non attiene a controversie di lavoro o previdenziali, per avere ad oggetto il compenso del difensore del titolare di crediti esenti e non estendendosi allora al primo l’esenzione spettante ratione materiae al secondo).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019

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