Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12231 del 06/06/2011

Cassazione civile sez. II, 06/06/2011, (ud. 03/03/2011, dep. 06/06/2011), n.12231

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.C. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA ROCCA FIORITA 189, presso lo studio dell’avvocato AMATO

SALVATORE ANTONIO (deceduto), che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Q.M. C. F. (OMISSIS), Q.N.

(OMISSIS), Q.B. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GUIDO CASTELNUOVO 60 P4 INT6,

presso lo studio dell’avvocato ALFIERI UMBERTO, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato QUICI LINA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1945/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/04/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2011 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO che fa

presente che l’avviso del ricorrente è stato notificato alla parte

personalmente;

udito l’Avvocato Alfieri Umberto difensore dei resistenti che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LETTIERI NICOLA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B., M. e Q.N. proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale era stato loro intimato di pagare L. 26.568.489 all’architetto N.C. a titolo di compenso per prestazioni professionali. Gli opponenti spiegavano altresì domanda riconvenzionale per i danni subiti a causa della non veridicità del progetto redatto dal N. circa la situazione del terreno di essi Q. e dei confinanti.

Con sentenza 24967/2001 l’adito tribunale di Roma, in accoglimento dell’opposizione e della domanda riconvenzionale, condannava il N. al pagamento in favore dei Q. di L. 26.278.000 osservando che i danni subiti dagli opponenti, per gli errori commessi dal professionista nel redigere il progetto commissionatogli, ammontavano – come accertato dal c.t.u. – a L. 37.000.000 per cui, detratto l’importo delle competenze professionali pari a L. 10.722.000 secondo la determinazione del consulente di ufficio, residuava un credito degli opponenti di L. 26.278.000.

Avverso la detta sentenza il N. proponeva appello al quale resistevano i Q..

Con sentenza 22/4/2004 la corte di appello di Roma rigettava il gravame rilevando: che con i tre motivi di appello il N. aveva dedotto: a) che esisteva un accordo con i committenti i quali gli avevano assicurato che le finestre frontiste si riferivano a servizi e non a camere abitabili con conseguente possibilità di realizzare la costruzione in questione a distanza inferiore ai 10 metri; b) che, come chiarito dal c.t.u., sarebbe stato sufficiente un ordine di servizio del direttore dei lavori per traslare il fabbricato di metri 1,30 in tal modo ovviando alla violazione della distanza legale; c) che il tribunale non aveva esaminato le critiche mosse alla relazione del consulente per il calcolo delle competenze professionali ed aveva ignorato la rettifica effettuata dallo stesso c.t.u. in ordine al calcolo delle cubature dell’erigendo edificio; che la censura sub a) non era fondata essendo pacifica l’inosservanza della distanza di metri 10 dalla parete finestrata frontista; che, ai fini del rispetto di tale distanza, andava ritenuta irrilevante la destinazione d’uso dei locali interessati dall’apertura delle finestre; che, comunque, era rimasta indimostrata l’esistenza dell’asserito accordo con i committenti; che quindi il N. non aveva rispettato il necessario parametro di diligenza nell’adempimento dell’obbligazione di risultato; che, con riferimento al motivo sub b), era sufficiente osservare che non era stato possibile la “traslazione”- dell’erigenda costruzione posto che il N. non aveva reso edotti i committenti del vizio progettuale prima della posa in opera dei plinti di fondazione e dell’impostazione dei pilastri; che anche la censura sub c) era da disattendere in quanto il riferimento a presunte carenze ed omissione della c.t.u. peccava di astrattezza con conseguente inammissibilità del motivo;

che il richiamo alla rettifica operata dal consulente in ordine al computo della cubatura era inconferente agli effetti della determinazione del valore del progetto (e, quindi, dell’onorario professionale);

che, infatti, il consulente con la detta precisazione si era limitato ad indicare la volumetria complessiva dell’edificio senza modificare le conclusioni già rassegnate in punto determinazione dell’onorario;

che peraltro i volumi indicati nella prima relazione del c.t.u.

corrispondevano a quelli riportati dallo stesso N. nel conteggio allegato alla parcella vistata dal consiglio dell’ordine.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Roma è stata chiesta da N.C. con ricorso affidato a tre motivi.

B., M. e Q.N. hanno resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso il N. denuncia violazione dell’art. 873 c.c. in relazione al D.M. 24 aprile 1968, n. 1444, art. 9 e al piano particolareggiato per l’applicazione del PRG del Comune di Roma approvato il 36/12/1965. Deduce il ricorrente che secondo quanto disposto dal citato articolo del D.M. n. 1444 del 1968 “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi (metri 10) nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati”. Nella specie il piano particolareggiato prevede all’art. 34 il rispetto della distanza tra facciate con finestre di stanze abitabili. E” quindi evidente l’errore commesso dalla corte di merito nel ritenere non rilevante l’accertamento in ordine all’esistenza nella specie di finestre relative a locali adibiti a stanze abitabili o a servizi.

Il motivo è infondato in quanto il ricorrente non ha considerato che la corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado con la quale il tribunale aveva rilevato che – come sopra riportato nella parte narrativa che precede – “il progetto redatto dall’arch. N. era non veridico circa la situazione del terreno degli opponenti e dei confinanti”: da ciò il danno subito dai committenti poi quantificato dal c.t.u.

Il progetto elaborato dal ricorrente non era quindi valido – tanto che era stato necessaria la redazione di un progetto di variante – indipendentemente dalla destinazione ed utilizzazione dei locali finestrati in questione.

Va peraltro aggiunto che la corte di appello ha anche osservato che “comunque” non era stata dimostrata l’esistenza di un preteso accordo con i committenti i quali avrebbero assicurato al N. che “le finestre frontiste si riferivano a servizi”. Tale rilevante e decisivo punto della sentenza impugnata non ha formato oggetto di censure da parte dei ricorrente.

Deve infine evidenziarsi che, come è noto, l’ingegnere, come l’architetto, nell’espletamento dell’attività professionale è obbligato ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, con la conseguenza che l’irrealizzabilità dell’opera, per erroneità o inadeguatezza, del progetto affidatogli, costituisce inadempimento dell’incarico. L’obbligazione di redigere un progetto di costruzione impegna il professionista alla consegna di un progettò concretamente realizzabile, il che nella specie non sì è verificato.

Con il secondo motivo il N. denuncia violazione dell’art. 1227 c.c., u.c., nonchè vizi di motivazione, deducendo che il progetto è stato redatto da esso ricorrente in base alle mappe catastali non potendo prendere le misure sul terreno per la presenza di altro e demolendo manufatto. Incombeva quindi ai committenti ed al direttore dei lavori di verificare la regolarità delle distanze dopo aver demolito il manufatto intermedio e prima di edificare il nuovo. In ogni caso – come precisato dal c.t.u. – sarebbe bastato, in corso d’opera, un ordine di servizio del direttore dei lavori per traslare tutto il fabbricato di metri 1,30 il che avrebbe evitato “il sormonto della parte finestrata del R. ad una distanza di M. 9”. Ciò avrebbe comportato al più la rimozione dei due plinti gettati ed il getto di altri due a distanza di m. 1,30 di distanza (operazione dal costo insignificante) con utilizzazione del progetto senza alcuna variante. Peraltro esso ricorrente – che non aveva rapporti con i committenti da oltre due anni e non aveva mai avuto rapporti con il cantiere di demolizione e con quello di costruzione – non poteva rendere edotti i committenti del vizio progettuale all’inizio della costruzione.

Il motivo non è meritevole di accoglimento posto che, come è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, in tema di risarcimento del danno, l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, – che esclude il risarcimento in relazione ai danni che il creditore (o il danneggiato) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza – integra indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (tra le tante, sentenze 15231 del 05/07/2007;

12348 del 28/05/2007).

Il sindacato di legittimità è su detto punto è limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza.

Nella specie la sentenza impugnata è del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto e che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dalla corte di appello. Quest’ultima ha proceduto alla attenta disamina delle risultanze istruttorie e, sulla base di elementi e circostanze di fatto qualificanti, ha coerentemente affermato che solo con la comunicazione da parte del N. ai committenti del vizio progettuale sarebbe stato possibile limitare i danni.

Il giudice di secondo grado ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento e facendo riferimento ad elementi di fatto oggettivi. Alle dette valutazioni il ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.

Inammissibilmente il ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze processuali sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione del ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2233 c.c. e vizi di motivazione sostenendo che, al contrario di quanto affermato dalla corte di appello, esso N. nelle difese di in appello aveva fatto specifico riferimento alle difese scritte ed orali di primo grado con le quali erano stati minuziosamente elencati gli errori commessi dal c.t.u. in ordine alla valutazione degli onorari professionali.

La Corte rileva la manifesta infondatezza (e, in parte, l’inammissibilità) del motivo in esame che – pur se titolato come violazione di legge e come vizi di motivazione – si risolve essenzialmente in una diversa analisi del merito della causa e in particolare in una critica della valutazione operata dalla corte di appello della relazione del c.t.u. e dei rilievi in proposito mossi dal ricorrente. Trattasi di attività riservate al giudice del merito incensurabile in sede di legittimità se (come nella specie) immune da vizi logici e giuridici. Il sindacato di legittimità è sui detti punti limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza.

Deve peraltro affermarsi che la censura concernente sia valutazione e l’interpretazione della espletata c.t.u., sia l’omesso esame delle critiche mosse alla relazione del consulente, non è meritevole di accoglimento anche per la sua genericità, oltre che per la sua incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Nella specie le doglianze in proposito mosse dalla ricorrente sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo della consulenza genericamente indicata in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di detta consulenza e delle osservazioni critiche in proposito prospettate dal V..

Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dal ricorrente.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con la conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2011

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