Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1222 del 17/01/2019

Cassazione civile sez. II, 17/01/2019, (ud. 19/07/2018, dep. 17/01/2019), n.1222

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26545/2016 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

B.G., rappresentato e difeso dall’Avvocato ALBERTO MAZZEO

ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Egidio

Lizza, in ROMA, VIA VALADIER 43;

– controricorrente –

avverso il decreto R.G. 52776/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositato il 12/09/2016;

letta la requisitoria scritta del P.M., in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il

rigetto del ricorso;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/07/2018 dal Cons. Dott. Ubaldo BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso della L. n. 89 del 2001, ex artt. 2 e 3, B.G. adiva la Corte d’Appello di Roma al fine di vedersi riconoscere l’equo indennizzo per la non ragionevole durata del procedimento civile, avente ad oggetto richiesta di risarcimento per danni subiti alla propria persona a seguito di incidente stradale. Tale giudizio era stato introdotto con citazione notificata il 3.4.2006 e definito con sentenza del Tribunale di Benevento, depositata il 23.4.2014, non notificata.

L’istante proponeva opposizione della L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter, avverso il Decreto n. 52231/2015 della Corte d’Appello, che aveva accolto il ricorso riconoscendo un ritardo irragionevole di 5 anni e condannava, però, il MINISTERO DELLA GIUSTIZIA a risarcire Euro 1.800,00 per 3 anni di ritardo.

Si costituiva il Ministero della Giustizia, che interponeva opposizione incidentale sul motivo dell’inammissibilità della L. n. 89 del 2001, ex art. 4, per assenza dei presupposti di legge, per essere stato il ricorso per equa riparazione depositato il 3.12.2014, allorchè la decisione conclusiva del procedimento presupposto non era ancora passata in giudicato, in quanto depositata il 23.4.2014 e non notificata ai fini del decorso del termine breve ex art. 325 c.p.c..

Con il decreto R.G. 52776/2015, depositato il 12.9.2016 e notificato a mezzo pec il 19.9.2016, la Corte d’Appello di Roma condannava il Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo pari a Euro 3.750,00 (Euro 750,00 per 5 anni di ritardo), oltre che alle spese di procedimento.

Il Ministero della Giustizia propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, illustrati da memoria; resiste B.G. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, l’amministrazione ricorrente lamenta la “Violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, poichè l’impugnato decreto risulta del tutto omissivo in ordine all’opposizione incidentale della resistente Amministrazione sul motivo dell’inammissibilità della richiesta indennitaria, in quanto inoltrata con atto depositato in data 3.12.2014, allorchè non era ancora decorso il termine lungo annuale per l’impugnazione, ex art. 327 c.p.c., della sentenza del Tribunale.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in ragione della insussistenza dei presupposti di legge ai fini dell’azionata richiesta indennitaria e cioè la mancata definitività della decisione conclusiva del procedimento presupposto all’atto della presentazione del ricorso in sede indennitaria. Infatti, in base alla nuova formulazione della L. n. 89 del 2001, art. 4,successiva alla novella del 2012, ratione temporis applicabile alla fattispecie, non è più consentita la proposizione di richieste di equo indennizzo durante la pendenza del processo presupposto.

2. – In ragione della loro connessione, i motivi vanno congiutamente decisi, per essere dichiarati non fondati.

2.1. – E’ consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, questa Corte può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (Cass. n. 2313 del 2010).

Dunque, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di Cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale appunto la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. n. 28663 del 2013; cfr. ex plurimis, Cass. n. 21257 del 2014; Cass. n. 23989 del 2014; Cass. n. 21968 del 2015; Cass. n. 2731 del 2017; Cass. n. 16171 del 2017).

Nella specie trattasi di deduzione della totale omissione di pronuncia, e non di assenza di motivazione di una decisione di rigetto, che nella specie non può considerarsi implicito (Cass. sez. un. n. 1914 del 2016; Cass. n. 21617 del 2013; Cass. n. 20311 del 2011) alla luce del contenuto dell’impugnato decreto che non ha fatto luce sulla effettiva data di deposito del ricorso per equa riparazione.

2.2. – Va, a questo punto, rilevato che entrambi i motivi di censura trovano la loro ragione fondante nell’assunto che l’odierno ricorso per equa riparazione sia stato proposto in pendenza del giudizio presupposto, e quindi in violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, nel testo sostituito del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d), modificato dalla Legge di Conversione 7 agosto 2012, n. 134, evocato quale norma violata in entrambi i motivi. Ma è proprio la questione di diritto posta con il suddetto motivo che risulta priva di fondamento, e meritevole di correzione da parte di questa Corte.

2.3. – La norma prevede(va) che “(l)a domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 88 del 2018 ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto”. In particolare il Giudice delle leggi sottolinea che “l’invocata pronuncia additiva non può essere impedita dalle peculiarità con cui la legge Pinto conforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato (sentenza n. 30 del 2014)”. Infatti, “(p)osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (…) omette di prevedere. (…) Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro

disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione” (sentenza n. 113 del 2011).

2.4. – Sovviene allora il consolidato orientamento secondo cui, nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma processuale, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da detta norma sono sub judice, il rapporto processuale non può considerarsi esaurito, sicchè, nel momento in cui viene in discussione la ritualità dell’atto, la valutazione della sua conformità alla disposizione va valutata avendo riguardo alla modificazione conseguita dalla sentenza di illegittimità costituzionale, indipendentemente dal tempo in cui l’atto è stato compiuto (Cass. n. 10528 del 2017). L’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale costituisce principio generale che trova un unico limite nei rapporti esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo (Cass. n. 13884 del 2016; cfr., anche, Cass. n. 26291 del 2017). Pertanto, la inoperatività della norma processuale dichiarata incostituzionale, a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa sentenza della Corte costituzionale nella Gazzetta Ufficiale, va affermata con riguardo sia ad atti processuali successivi, sia ad atti processuali compiuti in precedenza, ma la cui validità ed efficacia sia ancora oggetto di sindacato dopo la predetta sentenza (Cass. n. 9329 del 2010).

2.5. – Rilevato che gli effetti di una sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità vanno valutati anche d’ufficio, ancorchè (come nella specie) sia nel ricorso che nel controricorso non si faccia alcun cenno a profili di incostituzionalità della normativa applicata nel provvedimento impugnato, non può non evidenziarsi come la comune censura sottesa ai due motivi di ricorso del Ministero poggi proprio sulla invocata (ma impossibile) applicazione di una norma dichiarata incostituzionale.

3. – Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, trattandosi di materia esente.

PQM

La Corte dichiara infondato il ricorso. Condanna il Ministero ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 19 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2019

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