Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12214 del 06/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 06/06/2011, (ud. 12/05/2011, dep. 06/06/2011), n.12214

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15455/2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio dell’avvocato STUDIO TRIFIRO’ &

PARTNERS,

rappresentata e difesa dall’avvocato BERETTA Stefano, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

S.M.;

– intimato –

sul ricorso 21834/2007 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato GALLEANO SERGIO NATALE

EDOARDO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio dell’avvocato STUDIO TRIFIRO1 &

PARTNERS,

rappresentata e difesa dall’avvocato BERETTA STEFANO, giusta delega

in atti;

– controricorrenti e al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 748/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/05/2006 R.G.N. 587/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

12/05/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALI per delega BERETTA STEFANO;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO NATALE EDOARDO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rinvio in subordine rigetto

di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Venezia con sentenza in data 7.6.2005/19.5.2006 confermava la decisione di primo grado che aveva dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti stipulati fra le Poste Italiane e S.M. per il periodo dal 10 ottobre 1998 al 31 gennaio 1999 e successivi ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Osservava in sintesi la corte territoriale che i contratti erano stati stipulati sulla base di direttive generali, che non risultavano riscontrate in relazione alle mansioni svolte dal dipendente e allo specifico contesto lavorativo in cui lo stesso era stato inserito.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con cinque motivi.

Resiste con controricorso e ricorso incidentale S.M..

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo ed il secondo motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. e dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, configurava una vera e propria “delega in bianco” in favore delle organizzazioni sindacali, le quali, pertanto, potevano legittimare il ricorso al contratto a termine non solo per causali di carattere oggettivo, ma anche meramente soggettivo, sicchè restava precluso al giudice di individuare limiti ulteriori, anche di ordine temporale, atti a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di contratto a termine individuate in sede collettiva.

Con il terzo, quarto e quinto motivo, prospettando violazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 epe in relazione agli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 1227, 2094, 2099 e 2967 c.c.), nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) si duole che la corte territoriale avesse omesso qualsiasi verifica in ordine alla rituale costituzione in mora del datore di lavoro, nonchè qualsiasi valutazione e decisione in merito alla richiesta formulata ai fini dell’esibizione di documentazione utile a consentire una corretta determinazione dei corrispettivi percepiti dal dipendente per attività di lavoro svolta a favore di terzi.

2. Con il ricorso incidentale l’intimato lamenta, con due motivi, violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. n. 230 del 1962, art. 3, della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 2967 c.c. e art. 112 c.p.c.) nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in relazione al mancato riconoscimento della illegittimità pur del primo contratto intervenuto fra le parti (nel periodo 2 febbraio/30 aprile 1998, termine poi prorogato sino al 30 maggio 1998).

3. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti.

4. Con riferimento ai primi due motivi del ricorso principale, nonchè al ricorso incidentale vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, questa Corte ha più volte affermato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063, v.

anche Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).

In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608, Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato.

Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr., per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Quanto, infine, alla proroga dei contratti scadenti alla data dell’aprile 1998, va rilevato che, in casi analoghi (v. fra le altre Cass. 24-9-2007 n. 19696), questa Corte ha reiteratamente confermato la legittimità della proroga dei rapporti di lavoro a termine in scadenza al 30 aprile 1998, sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva (accordo del 27 aprile 1998), delle esigenze contingenti ed imprevedibili richieste dalla legge e connesse con i ritardi che avevano inciso negativamente sul programma di ristrutturazione.

5. In base agli esposti criteri interpretativi, ormai consolidati, ed al valore dei relativi precedenti, devono, quindi, rigettarsi sia i primi due motivi del ricorso principale, previa correzione, alla luce degli stessi, della motivazione della decisione impugnata, il cui dispositivo risulta, comunque, conforme al diritto, sia il ricorso incidentale.

6. Con riguardo agli ulteriori motivi del ricorso principale, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 commi 5, 6 e 7.

In ordine a tale questione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens, che la nuova disciplina del rapporto controverso sia pertinente alle censure formulate col ricorso, tenuto conto della natura del giudizio di legittimità, il cui perimetro, come noto, è limitato dagli specifici motivi del ricorso (cfr. Cass. n. 10547/2006).

In tal contesto, è necessario che il motivo del ricorso, che investa, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia, altresì, ammissibile, secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici, o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis.

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Premessi tali principi, sostiene nel caso la società ricorrente che la corte territoriale ha omesso qualsiasi valutazione e verifica in ordine alla rituale costituzione in mora del datore di lavoro, nonchè qualsiasi valutazione e decisione in merito alla richiesta formulata ai fini dell’esibizione di documentazione utile a consentire una corretta determinazione dei corrispettivi percepiti dal dipendente per attività di lavoro svolta a favore di terzi.

I motivi così riassunti concludono con la formulazione dei seguenti quesiti ex art. 366 bis c.p.c.:

“Se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c., e segg.”.

“Se, nel caso di accertamento della pretesa illegittimità del termine apposto al contratto di assunzione, il risarcimento del danno derivante dalla perdita della retribuzione debba in ogni caso essere quantificato considerando l’aliunde perceptum, ovvero- ai sensi dell’art. 1227 c.c. – il concorso colposo del lavoratore che abbia omesso di ricercare una diversa occupazione”.

I quesiti descritti, nondimeno, risultano non conformi al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., per non ricomprendere il complesso delle censure articolate nei motivi e per risolversi, comunque, nella enunciazione astratta delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Il quesito di diritto, che la norma richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve, infatti, essere formulato, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr. ad es. Cass. SU n. 36/2007 e n. 2658/2008), dovendosi ritenere come inesistente un quesito generico, parziale o non pertinente. In proposito, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo.

I quesiti posti dalla società ricorrente non risultano conformi ai canoni interpretativi indicati perchè – va ribadito – inidonei ad esprimere, in termini riassuntivi, ma concretamente pertinenti all’articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo addebitato alla decisione.

Si deve sol soggiunger che inammissibile deve ritenersi anche il quarto motivo, con il quale, più in particolare, si prospetta vizio di motivazione in relazione agli evidenziati profili economici, trattandosi di motivo strettamente collegato alle censure già esaminate,e, comunque, pur esso ex se inammissibile, non essendo l’accertamento operato dai giudici di merito (l’essere, cioè, la costituzione in mora avvenuta con l’istanza per il tentativo di conciliazione) contestato in conformità al canone della necessaria autosufficienza del ricorso, che, come noto, impone alla parte che denuncia, in sede di legittimità, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie e processuali, l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, trascrivendone il contenuto, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, dato che questo controllo, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere compiuto dalla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (v. ad es. per tutte Cass. n. 10913/1998; Cass. n. 12362/2006).

7. Entrambi i ricorsi vanno, pertanto, rigettati.

8. Spese compensate, stante la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2011

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