Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12200 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/06/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 22/06/2020), n.12200

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17400-2016 proposto da:

M.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI

ANTONELLI 49, presso lo studio dell’avvocato SERGIO COMO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENRICO DE LUCA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 49/2016 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 02/03/2016 R.G.N. 172/2014.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.

M.M.R., dipendente del Ministero della Giustizia nel settore della sorveglianza e penitenziario, dopo l’inquadramento come Cl, aveva fruito di una riqualificazione interna con la quale le era stata riconosciuta la figura professionale di assistente sociale, posizione economica C3, corrispondente a quella di coordinatore di servizio sociale;

pertanto, essa, ritenendo di avere i requisiti per godere dell’inquadramento dirigenziale ai sensi della L. n. 154 del 2005, art. 4 aveva dapprima agito in tal senso; nel frattempo, con altra causa, la M. aveva chiesto che, previo riconoscimento delle funzioni direttive da essa svolte, fosse accertato il suo diritto alla maggiorazione di un quinto del servizio prestato, nel limite massimo di cinque anni e ciò ai sensi e per gli effetti della L. n. 284 del 1977, art. 3, comma 5;

2.

le due cause venivano riunite e il Tribunale di Spoleto accertava il diritto alla qualifica dirigenziale rivendicata e quindi la sopravvenuta carenza di interesse rispetto all’altra domanda;

la Corte d’Appello di Perugia, raggiunta dal gravame del Ministero della Giustizia riteneva infondata l’eccezione di genericità e quindi di inammissibilità dell’appello proposta dall’appellata e, nel merito, riformando la sentenza di primo grado, respingeva entrambe le domande proposte;

i giudici di appello richiamavano il disposto della L. n. 154 del 2005, art. 4 su cui la M. fondava le proprie pretese, sottolineando come l’inquadramento dirigenziale previsto dalla norma riguardasse chi aveva “avuto accesso mediante concorso pubblico” ai profili professionali in tal modo valorizzati, sicchè la disposizione, avendo natura eccezionale, non poteva essere intesa al di là del suo valore letterale, nè poteva aver corso un’estensione del beneficio per ragioni di parità di trattamento, atteso che le posizioni poste a raffronto non erano affatto identiche, dati i diversi percorsi professionali che caratterizzavano i due casi;

quanto alla domanda di maggiorazione del servizio prestato, la Corte distrettuale muoveva dalla considerazione che il diritto rivendicato era riconosciuto in favore del solo personale che riceveva l’indennità “per servizio di istituto” (L. n. 284 del 1977, art. 3, comma 5), ovverosia per il personale di pubblica sicurezza (L. n. 1054 del 1970, art. 1), mentre il personale civile degli istituti di prevenzione riceveva la diversa “indennità di servizio penitenziario” di cui alla L. n. 1054 del 1970, art. 3;

neppure valeva, secondo la Corte territoriale, il richiamo alla L. n. 395 del 1990, art. 40 di parificazione del personale dirigente e direttivo dell’Amministrazione penitenziaria al personale dirigente e direttivo della Polizia di Stato, in quanto la M., per quanto già detto, non era dirigente e solo aveva per un periodo ricevuto il mero trattamento economico dirigenziale, mentre, quanto al personale direttivo, l’equiparazione era stata limitata, con la norma di interpretazione autentica di cui alla L. n. 449 del 1997, art. 41, comma 4, al solo personale che avesse avuto accesso alle qualifiche ed ai profili rilevanti a seguito di concorso, mentre la ricorrente era pervenuta al livello direttivo attraverso un percorso di riqualificazione interna;

3.

M.M.R. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi;

il Ministero non ha depositato tempestivo controricorso, ma un successivo “atto di costituzione” al solo fine di partecipare all’udienza di discussione orale, provvedendo poi, in esito all’avvio della causa a trattazione camerale, al deposito di memoria ai sensi dell’art. 380 bis1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.

con il primo motivo la ricorrente ripropone l’eccezione di inammissibilità dell’appello, per genericità, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe infondatamente disatteso la stessa;

il motivo va rigettato;

il ricorso per cassazione, pur sostenendo che l’atto di appello risulterebbe processualmente carente, quanto a critiche, rispetto alla pronuncia di primo grado gravata, non trascrive il tenore concreto di quest’ultima;

ciò rende il motivo inosservante dei presupposti di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione, trascrivendo tutti passaggi deli atti a tal fine necessari, siano idonee a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente negli atti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti;

ciò ancora senza contare che, a voler fare riferimento al contenuto della sentenza del Tribunale quale riepilogato nella pronuncia della Corte d’Appello, esso consterebbe di argomenti giuridici, rispetto all’infondatezza dei motivi addotti dalla P.A. per disconoscere i diritti rivendicati, con riferimento ai quali non si vede come possano ritenersi inammissibili le contrarie prospettazioni, ancora sul piano giuridico, che sono evidenziate dal tenore dell’atto di appello quale trascritto nel ricorso per cassazione;

2.

il secondo motivo è rubricato come denuncia di violazione e falsa applicazione della L. n. 154 del 2005, art. 4, comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3);

esso riguarda dunque la parte della sentenza di secondo grado con cui è stata rigettata la domanda di inquadramento dirigenziale;

secondo la ricorrente, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, il dato letterale della L. n. 154 del 2005, art. 4 sarebbe chiaro nel senso di riferirsi non all’avvenuta nomina al profilo valorizzato dalla legge in forza di concorso, ma, più in generale, al fatto che il dipendente munito dei requisiti richiesti avesse avuto accesso iniziale in carriera mediante un pubblico concorso;

altrimenti, sempre secondo la ricorrente, la previsione sarebbe stata inutilmente introdotta nell’ordinamento, perchè nessuno dei direttori di istituto penitenziario e di direttore coordinatore di servizio sociale aveva sostenuto un concorso pubblico per accedere alla posizione economica C3;

anche tale motivo va rigettato;

viene qui in evidenza la L. n. 154 del 2005, art. 4, comma 1, secondo cui “fermo restando quanto previsto dall’art. 1, comma 1, in fase di prima attuazione e per le immediate esigenze di funzionamento dell’Amministrazione penitenziaria, il personale che alla data di entrata in vigore della presente legge è inquadrato nella posizione economica C3, già appartenente ai profili professionali di direttore coordinatore di istituto penitenziario, di direttore medico coordinatore e di direttore coordinatore di servizio sociale dell’Amministrazione penitenziaria, ai quali hanno avuto accesso mediante concorso pubblico, nonchè gli ispettori generali del ruolo ad esaurimento, sono nominati dirigenti secondo la posizione occupata da ciascuno nel rispettivo ruolo, in considerazione della esperienza professionale maturata nel settore avendo già svolto funzioni riconosciute di livello dirigenziale”;

in proposito questa Corte ha già ritenuto, e qui lo si ribadisce, che “in tema di dirigenza penitenziaria, non è equiparabile al requisito formale dell’accesso per concorso pubblico all’area C, profilo professionale C3, previsto per la nomina a dirigente dalla norma transitoria di cui alla L. n. 154 del 2005, art. 4, comma 1, l’avere conseguito tale inquadramento mediante procedura selettiva interna di riqualificazione, costituendo il modello concorsuale, basato sul metodo comparativo, un vincolo per le amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 97 Cost., salva espressa deroga legislativa” (Cass. 3 dicembre 2018, n. 31166);

va solo aggiunto, a precisazione dell’orientamento, che appaiono del tutto corrette le valutazioni giuridiche svolte dalla Corte distrettuale, in quanto ancorate sia su profili letterali (la norma attribuisce il beneficio al personale appartenente a certi profili professionali “ai quali” si sia “avuto accesso mediante concorso pubblico”, sicchè essa non si riferisce a chi sia stato ab origine assunto con pubblico concorso e sia pervenuto a quei profili per progressioni interne di vario tipo) sia di sistema (non potendosi operare un’interpretazione uniformante, per ragioni di parità di trattamento, tra situazioni in sè diverse, come quelle derivanti dai differenti percorsi di accesso ai profili professionali valorizzati);

infine, la Corte d’Appello, ha correttamente divisato la natura eccezionale della norma, come tale non estensibile in via interpretativa, in quanto derogatoria, attraverso la previsione di un accesso promozionale alla dirigenza sulla base di criteri diversi da quelli della selezione concorsuale, avendo anche la Corte Costituzionale ritenuto tale norma “eccezionale” e di “stretta interpretazione”, in quanto in “deroga al principio costituzionale del concorso pubblico” (C. Cost. 25 febbraio 2011, n. 66), in un contesto interpretativo consolidato in cui, sempre secondo la Consulta, “nell’accesso a funzioni più elevate, ossia nel passaggio ad una fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema, come quello oggi in vigore, che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti, deve essere “ravvisata una forma di reclutamento””, soggetta come tale “alla regola del pubblico concorso, che, in quanto “meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci”, resta il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità, costituendo ineludibile momento di controllo, funzionale al miglior rendimento della pubblica amministrazione (ex plurimis: sentenze n. 1 del 1999, n. 320 del 1997, n. 1 del 1996)”, sicchè “la giurisprudenza costituzionale è costante nel censurare norme che stabiliscono il passaggio a fasce funzionali superiori, in deroga alla regola del pubblico concorso, o comunque non prevedono alcun criterio selettivo, o verifiche attitudinali adatte a garantire l’accertamento dell’idoneità dei candidati in relazione ai posti da ricoprire, realizzando così una sorta di automatico e generalizzato scivolamento verso l’alto del personale (sentenze n. 1 del 1999, n. 320 del 1997, n. 478 del 1995, n. 314 del 1994)” (Corte Cost. 29 maggio 2002, n. 218);

d’altra parte, l’assunto secondo cui la norma sarebbe, così interpretata, inutile, perchè nessuno dei direttori di servizio penitenziario o di direttore di servizio sociale avrebbe sostenuto un concorso pubblico per accedere alla posizione economica di pertinenza dei profili valorizzati, fa leva su di un profilo di fatto puramente affermato che non può come tale interferire con l’interpretazione della legge qui da svolgere sulla base di soli dati normativi;

3.

con il terzo motivo è invece addotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 284 del 1977, artt. 1, 3 e 9 nonchè della L. n. 395 del 1990, art. 40 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (art. 360 c.p.c., n. 3) ed altresì l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5), consistente nell’avere la Corte territoriale omesso di considerare l’assenza di contestazione sullo svolgimento di funzioni dirigenziali valorizzata già dal Tribunale e comunque omettendo di motivare rispetto alla tipologia delle attività svolte;

il motivo riguarda dunque la parte della pronuncia di appello con cui è stata respinta la domanda di riconoscimento del diritto alla maggiorazione, ai fini della liquidazione e riliquidazione delle pensioni, della maggiorazione di un quinto del servizio prestato;

3.1

il ragionamento in proposito deve prendere le mosse da quanto anche in questo caso già affermato in sede di legittimità, allorquando si è rimarcata la distinzione sussistente tra personale del Corpo di polizia penitenziaria e personale dei ruoli amministrativi dell’Amministrazione penitenziaria (Cass. 12 novembre 2007, n. 23473);

tale distinzione è coerente con quanto sta alla base della motivazione della Corte territoriale, la quale ha rimarcato come il beneficio della maggiorazione del servizio ai fini della liquidazione e riliquidazione delle pensioni spetti solo ai funzionari di pubblica sicurezza, tra cui gli agenti di custodia e non al personale civile dell’Amministrazione degli istituti di prevenzione e pena e ciò sul presupposto che solo per i primi era prevista l’indennità “per servizi di istituto” (L. n. 1054 del 1970, art. 1) caratterizzati (L. n. 967 del 1969, art. 2) da “prestazioni di lavoro rese in condizioni di particolare disagio, avuto riguardo al luogo, al tempo ed alle modalità delle prestazioni medesime, ovvero comportino assunzione di particolari responsabilità verso terzi per danni alla persona” (L. n. 249 del 1968, art. 15, lett. c) da cui dipendeva la maggiorazione del servizio utile a pensione (L. n. 284 del 1977, art. 3, comma 5), mentre per i secondi era prevista la diversa “indennità di servizio penitenziario” (L. n. 1054 del 1970, art. 3), l’una e le altre distintamente regolate da diverse tabelle in allegato alla L. n. 1054 cit.;

vale altresì l’ulteriore principio, sempre affermato da Cass. 23473/2007, secondo cui “nel pubblico impiego… costituisce principio generale quello secondo il quale le norme derogatorie delle regole ordinarie, che attribuiscono particolari benefici, non si estendono a soggetti che non ne sono destinatari (vedi Cass. 12 luglio 2005, n. 14658; 5 gennaio 2001, n. 82)”;

pertanto, non può in alcun modo darsi in via puramente interpretativa la traslazione di un beneficio da una categoria di personale ad un’altra, sicchè quanto previsto per gli agenti che svolgono servizio di pubblica sicurezza carceraria, con gli specifici rischi valorizzati dalla citata normativa di riferimento, non può estendersi al personale civile dell’Amministrazione penitenziaria;

non rilevante è anche la L. n. 284 del 1977, art. 3, comma 1, che richiama effettivamente non solo il precedente art. 1 (e dunque il personale cui è attribuita l’indennità per servizio di istituto), ma anche il successivo art. 9 (riguardante il personale cui è attribuita l’indennità di servizio penitenziario), però al solo fine dell’incremento pensionistico ivi previsto, mentre, per l’incremento di anzianità a fini pensionistici, l’art. 3, comma 5 richiama l’indennità per servizio di istituto o quelle indennità da essa assorbite per effetto della L. 22 dicembre 1969, n. 967, che non riguardano (v. anche Cass. 23473/2007 cit.) il personale civile dell’Amministrazione penitenziaria;

3.2

infondata è anche la difesa con la quale il beneficio in esame è preteso sul presupposto dell’attribuzione al personale dirigente e direttivo dell’Amministrazione Penitenziaria del medesimo “trattamento giuridico spettante al personale dirigente e direttivo delle corrispondenti qualifiche della Polizia di Stato” (L. n. 395 del 1990, art. 40);

la Corte territoriale, quanto all’equiparazione spettante al personale dirigenziale, dopo avere escluso l’attribuzione della qualifica per effetto della L. n. 154 del 2005, art. 4 ha poi osservato che la M. mai era stata formalmente inquadrata come dirigente, avendo ricevuto soltanto il trattamento economico di primo dirigente;

le stesse difese della ricorrente non sono chiare, in quanto essa sostiene che, stante l’omessa contestazione del Ministero, dovesse aversi per accertato “lo svolgimento delle funzioni dirigenziali” e quindi “la qualifica direttiva dalla medesima rivestita”, sovrapponendo quindi il piano dirigenziale con quello direttivo;

d’altra parte, la valorizzazione del principio di non contestazione postulerebbe una chiara affermazione fattuale, da desumersi dal tenore del ricorso per cassazione, da parte della ricorrente;

ciò però non può dirsi risultare in quanto il passaggio della sentenza di primo grado su cui fa leva la M., per quanto riportato del ricorso per cassazione (v. ad es. pag. 31) fa generico riferimento alla mancata contestazione della “tipologia di attività prestata dalla ricorrente”;

la narrativa della Corte d’Appello richiama del resto un inquadramento in posizione C3 (e quindi direttivo) ed in prosieguo di motivazione, nel negare l’inquadramento dirigenziale, fa riferimento, come detto, alla percezione “soltanto del trattamento economico da dirigente in considerazione delle funzioni svolte”;

percezione che, come affermavano sia il ricorso introduttivo (quale riportato a pag. 27 del ricorso per cassazione) sia l’atto di appello (quale riportato ivi a pag. 34), trovava giustificazione nella L. n. 449 del 1997, art. 41, (comma 4, terzo periodo) e quindi in un fenomeno di effettiva parificazione meramente economica;

non è dunque neppure vero che la Corte d’Appello non abbia considerato le funzioni svolte, avendole invece valutate e ritenute appunto parificate a quelle dirigenziali solo quanto a trattamento economico e per i limitati effetti di cui alla norma citata;

in definitiva non vi sono elementi per ritenere, sulla base del tenore del ricorso per cassazione, che la Corte territoriale, disconoscendo il presupposto dell’appartenenza della M. al “personale dirigente” abbia errato od abbia omesso di esaminare fatti decisivi o emergenze processuali;

quanto poi al diritto all’equiparazione per effetto dell’appartenenza della ricorrente al personale “direttivo”, la Corte territoriale afferma in fatto che la M. avrebbe “avuto accesso al personale direttivo attraverso un percorso di riqualificazione interna, e non tramite concorso” e rispetto a tale affermazione il ricorso per cassazione non contiene censure specifiche;

ne deriva la lineare esclusione della M. dal beneficio, sulla base dell’applicazione, operata dalla Corte d’Appello ed a ben veder anch’essa rimasta priva di censure nell’ambito del ricorso per cassazione, della norma di interpretazione autentica di cui alla L. n. 449 del 1997, art. 41, comma 4, secondo cui “nella L. 15 dicembre 1990, n. 395, art. 40, comma 1, il termine “direttivo” si interpreta come riferito esclusivamente al personale del ruolo ad esaurimento e delle qualifiche funzionali dalla VII alla IX, di cui ai profili professionali previsti dal D.P.R. 19 febbraio 1992, cui ha avuto accesso a seguito di concorso”;

4.

in definitiva il ricorso va integralmente rigettato;

5.

le spese, riguardanti soltanto la memoria finale ritualmente (Cass. 14 maggio 2019, n. 12803; Cass. 8 giugno 2017, n. 14330; Cass. 24 marzo 2017, n. 7701) depositata, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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