Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12191 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/06/2020, (ud. 03/07/2019, dep. 22/06/2020), n.12191

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico President – –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giusepina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21703/2016 proposto da:

BANCA MONTE PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

AVENTINA 3/A, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO CASULLI, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente – principale –

contro

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA

109, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE FONTANA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO RUSCONI;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

e contro

BANCA MONTE PASCHI DI SIENA S.P.A.;

– ricorrente principale –

controricorrente incidentale – avverso la sentenza n. 316/2016 della

CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 05/04/2016 R.G.N.

932/2013;

La CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVA IN FATTO

Che:

con sentenza del 14 dicembre 2012 il Tribunale di Siena accoglieva in parte la domanda avanzata dall’attore R.G. contro la BANCA MONTE dei PASCHI di SIENA S.p.a., negando tuttavia la retrodatazione della qualifica dirigenziale invocata, ma attribuendo le differenze sul t.f.r. e su altri istituti derivanti dall’inserimento della base di calcolo del trattamento cosiddetto estero (con esclusione però delle voci viaggi per ferie, spese scolastiche, spese mediche e fornitura alloggio). L’anzidetta sentenza veniva appellata dal R., il quale lamentava il mancato riconoscimento del diritto alla qualifica dirigenziale sin dal gennaio 1995 ed il fatto che non era stata ritenuta la rilevanza ai fini del ricalcolo del trattamento estero in tutte le sue componenti, da considerarsi retributive. Parte datoriale aveva resistito l’interposto gravame, senza peraltro proporre alcuna impugnazione incidentale. All’esito di apposita c.t.u. contabile la Corte d’Appello di Firenze con sentenza n. 316/16 (r.g. 932/2013), pronunciata e pubblicata il 5 aprile 2016, in parziale accoglimento dell’impugnazione, condannava la società appellata al pagamento in favore del R. delle seguenti somme: a) Euro 60.523,48 a titolo di t.f.r.; b) Euro 8081,48 a titolo di fondo di previdenza; c) Euro 269.403,75 a titolo di danno pensionistico ex art. 2116 c.p.c.; d) Euro 23.963,27 a titolo di super bonus. Condannava altresì la Banca Monte dei Paschi di Siena al versamento della contribuzione rapportata all’imponibile come ricalcolato in c.t.u. limitatamente ai periodi non prescritti, nonchè al pagamento sulle anzidette somme di interessi e rivalutazione monetaria dal 30 giugno 2015 fino al saldo effettivo, confermata nel resto la gravata sentenza. Compensava, infine, le spese nella misura di 1/3, ponendo a carico dell’appellata la residua quota di 2/3, che liquidava in complessivi Euro 10.000,00 oltre spese generali e accessori di legge. Poneva altresì le spese di c.t.u., separatamente liquidate, a carico della Banca appellata. La Corte fiorentina pertanto giudicava infondato il primo motivo d’appello, con il quale era stata reiterata la richiesta di riconoscimento della qualifica dirigenziale, acquisita nel novembre 2001, fin dal gennaio dell’anno 1995, e cioè dal momento delle assegnazioni delle funzioni presso la controllata società Sindibank di Barcellona. Pacifico risultando che la declaratoria contrattuale qualificava il dirigente come il dipendente che, con elevato grado di professionalità, provvede con autonomia e potere decisionale a realizzare gli obiettivi dell’impresa, il collegio giudicante condivideva espressamente gli argomenti utilizzati dalla Tribunale per escludere il diritto dell’appellante alla superiore qualifica. In proposito, quindi, la sentenza di primo grado andava confermata. Per contro, veniva accolto il secondo motivo d’impugnazione, con il quale era stata criticata l’impugnata sentenza per non aver ritenuto la rilevanza ai fini del ricalcolo del trattamento estero in tutte le sue componenti, di natura retributiva, sicchè l’appello era fondato in ordine al trattamento estero, ritenuto senz’altro parte della retribuzione, inerente al sinallagma lavorativo, come da giurisprudenza di legittimità ampiamente citata, laddove peraltro risultava passata in giudicato la condanna al pagamento delle somme già individuate in prime cure e per i titoli ivi indicati.

Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione la S.p.a. BANCA MONTE dei PASCHI di SIENA in data 30 settembre 2016, con cinque motivi, cui ha resistito il sig. R.G. con controricorso del 10 novembre 2016, laddove è stato anche spiegato ricorso incidentale, affidato a quattro motivi, controdedotti a loro volta dalla ricorrente principale con proprio controricorso del 14 dicembre 2016.

La società ha inoltre depositato memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che:

con il primo motivo la ricorrente principale ha denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 112 dello stesso codice, assumendo la mancata pronuncia sulla eccezione di parte appellata circa l’inammissibilità e la nullità delle domande di condanna specifica, per la loro contraddittorietà e incomprensibilità;

con il secondo motivo, in via subordinata, MPS ha lamentato la violazione degli artt. 434 e 412 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè l’impugnata sentenza non avrebbe tenuto conto dell’eccepita nullità della richiesta di condanna specifica, così ritenendo ammissibile l’appello;

con il terzo motivo la ricorrente principale ha dedotto, ex art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione degli artt. 61 e 191 del medesimo codice di rito, perchè, stante l’incomprensibilità delle domande, la Corte territoriale aveva disposto c.t.u., la quale aveva chiarito le domande stesse, sulle quali la stessa Corte avrebbe dovuto giudicare;

con il quarto motivo la società ha denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 2114 c.c., L. n. 153 del 1969, art. 12, art. 2116 c.c., D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 6,D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 49 e 51, e L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 12, nonchè art. 2120 c.c., e L. n. 4 del 1953, art. 1, perchè nessuna di tali norme prevedeva “il criterio di ragionevole adeguatezza”, in base al quale la Corte territoriale aveva trasformato la somma netta corrisposta al dipendente in somma lorda, che diventava l’unico riferimento per la contribuzione previdenziale e per gli altri tre istituti;

infine, con il quinto motivo la ricorrente principale ha lamentato la violazione degli artt. 329 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, dello stesso codice, perchè la sentenza impugnata aveva imputato alla Banca presunte intervenute decadenze processuali in tema di difesa sul “criterio di lordizzazione” della somma, adottato dal c.t.u. e fatto proprio dalla Corte territoriale;

a sua volta il ricorrente incidentale ha dedotto i seguenti motivi a sostegno della propria impugnazione:

1. ex art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione alla mancata valutazione del certificato di servizio/curriculum al 7.8.2007 e dell’ordine di servizio in data 19 settembre 1995, concernenti il trasferimento a titolo di distacco, presso la banca spagnola primo con l’incarico di responsabile del dipartimento ispettivo e poi della segreteria generale nonchè degli organigrammi prodotti con il ricorso introduttivo del giudizio – tutti descrittivi sia delle mansioni disimpegnate entro il distacco in Sindibank Barcellona, sia del contenuto professionale relativo, sia ancora dimostrativi del fatto che le funzioni specificamente assegnate ad esso R., nel medesimo periodo, fossero classificate dalla datrice di lavoro entro l’alta dirigenza – fatti che se esaminati avrebbero consentito di concludere per lo svolgimento da parte di esso ricorrente di mansioni dirigenziali fin dal gennaio 1995;

2. violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1418 c.c., in relazione all’art. 79 c.c.n.l. 1990, e art. 83 c.c.n.l. 1995, applicabili al rapporto de quo, nonchè degli artt. 1362 e 2095 c.c., e art. 2 c.c.n.l., bancario spagnolo, avendo l’impugnata sentenza tratto la definizione della qualifica di dirigente, non riconosciuta ad esso ricorrente, da clausole contrattuali nulle, peraltro leggendone il testo in modo incompatibile con il loro tenore letterale e la relativa volontà negoziale, invece di trarre elementi dalla definizione della categoria legale di cui all’art. 2095 c.c., secondo i contenuti generali enucleati dalla giurisprudenza e/o dall’art. 2 c.c.n.l., bancari spagnoli;

3. ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 2702,2730,2735 e 2697 c.c., in relazione all’attestazione / curriculum di esso ricorrente incidentale rilasciati dal DG della Banca, in quanto la sentenza impugnata non ne aveva riconosciuto la natura confessoria in ordine al disimpegnato ruolo di responsabile del “Dipartimento Ispettorato” e della “Segreteria Generale”;

4. ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 e 1374 c.c., nonchè artt. 112 e 115 c.p.c., perchè l’impugnata sentenza aveva mancato di riconoscere il rilievo decisorio della prassi aziendale – dedotta da esso ricorrente quale fatto concorrente a fondare il suo diritto all’inquadramento come dirigente – per cui i membri dell’alta dirigenza della Banca, presso cui era stato distaccato, tra i quali sia il responsabile del Dipartimento Ispettivo sia il Segretario Generale, erano inquadrati come dirigenti;

tanto premesso, le anzidette doglianze tutte vanno disattese per le seguenti ragioni; infatti, quanto all’error in procedendo, dedotto con il primo motivo del ricorso principale, la censura appare inconferente (oltre che inammissibile per omessa compiuta ed esauriente allegazione degli atti processuali di riferimento, però comunque occorrente ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, atteso che anche per i vizi contemplati dall’art. 360, n. 4, del codice di rito l’accesso diretto agli atti da parte del giudice di legittimità resta comunque subordinato al soddisfacimento dei requisiti di specificità e di autosufficienza richiesti a pena d’inammissibilità dal cit. art. 366, comma 1), alla stregua della decisione di merito (accoglimento parziale dell’appello, rigettato per il resto) comunque pronunciata dalla Corte fiorentina, sicchè con ciò deve presumersi che le eccezioni preliminari in rito sollevate da parte appellata, siano state implicitamente disattese, donde l’insussistenza della pretesa omissione in violazione dell’art. 112 c.p.c.;

analoghe considerazioni, evidentemente, valgono anche per il secondo motivo, connesso peraltro al primo, posto a sostegno del ricorso principale (a parte poi l’erroneo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, anzichè n. 4), essendo stati anche qui denunciati asseriti vizi di natura processuale, laddove da un lato si deduce una omessa pronuncia sull’eccezione d’inammissibilità della domanda formulata con l’atto d’appello, mentre d’altro canto, in alternativa, si denuncia la violazione degli artt. 434 e 414 c.p.c., per invalidità del gravame circa le conclusioni ivi rassegnate, perchè incomprensibili in quanto contraddittorie, essendo state reiterate le conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, però successivamente in parte rinunciate, mentre per altro verso accolte dalla sentenza di primo grado, in forza della quale poi la Banca aveva anche provveduto al pagamento della complessiva somma di 159.764,54 Euro mediante due bonifici comunicati pure al giudice d’appello, siccome prodotti con la relativa memoria difensiva di secondo grado. Invero, la prima ipotesi dell’omessa pronuncia va esclusa non soltanto per quanto già detto riguardo al primo motivo, ma anche perchè come la Corte distrettuale in motivazione espressamente riteneva ammissibile l’appello del R., “verificata la specificità delle censure mosse alla sentenza di primo grado e l’articolata ricostruzione degli elementi di fatto e di diritto”. Quanto, poi alla alternativa tesi di violazione degli artt. 434 e 414 c.p.c., la doglianza è per molti versi carente di autosufficienza, visto che risultano parzialmente riprodotti alcuni passi degli atti processuali che interessano, non bastando in particolare di certo riportare le sole conclusioni, ciò in particolare riguardo al ricorso d’appello del R., alle note autorizzate in primo grado per le quali, limitatamente ad un brano a pag. 12, si assume addirittura una parziale rinuncia da parte attrice, ed in ordine alle relazioni di c.t.u., segnatamente di prime cure, soltanto in ordine ad alcune cifre (cfr. Cass. sez. un. civ. n. 8077 del 22/05/2012. V. altresì Cass. lav. n. 896 del 17/01/2014, secondo cui quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità non deve limitarsi a vagliare la sufficienza e logicità della motivazione con cui quello di merito ha statuito sul punto, ma ha il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata ritualmente formulata, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, in quanto l’esame diretto degli atti e dei documenti è circoscritto a quelli che la parte abbia specificamente indicato ed allegato. Analogamente, secondo Cass. I civ. n. 20405 del 20/09/2006, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare – a pena, appunto, di inammissibilità – il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità. Conformi Cass. III civ. n. 21621 del 16/10/2007 e V civ. n. 22880 del 29/09/2017). Infatti, è giurisprudenza consolidata di questa Corte che anche la deduzione della violazione di norme del procedimento deve rispettare il principio di autosufficienza (in termini: ex multis, Cass. n. 12239 del 2007; n. 6361 del 2007, a proposito della denuncia dell’omessa pronuncia; n. 9076 del 2006; n. 4840 del 2006; n. 17424 del 2005; n. 6972 del 2005; n. 6225 del 2005 – così in motivazione Cass. III civ. n. 10605 del 5 marzo / 30 aprile 2010). Nè alcuna sanatoria è in proposito ricavabile dalla lettura della sentenza impugnata, ovvero di altri atti processuali. Invero, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone, dunque, che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. II civ. n. 7825 del 04/04/2006, conformi Cass. nn. 16360 del 2004, 12166 e 19788 del 2005. V. altresì in senso analogo Cass. VI civ. – 3 n. 1926 del 03/02/2015, I civ. n. 19018 del 31/07/2017, id. n. 12688 del 30/05/2007. Parimenti dicasi per le memorie ex art. 378 c.p.c., che come è noto hanno funzione soltanto illustrativa rispetto a quanto però già in precedenza ritualmente e tempestivamente dedotto). Assolutamente inconferente è, inoltre, l’argomento relativo al pagamento della somma di 159.764,54 Euro, visto che non si forniscono precisi riferimenti in proposito, soprattutto in ordine alla causale, ossia se per definitivo riconoscimento del credito così come quantificato, donde una parziale cessazione della materia del contendere, ovvero soltanto per adempiere al comando provvisoriamente esecutivo della sentenza di primo grado, evitandone l’esecuzione forzata ma con riserva di impugnazione. Peraltro, il mero deposito dei due bonifici, senza alcuna specifica pertinente allegazione contenuta sul punto nella memoria difensiva dell’appellata, non aveva alcuna rilevanza per il giudicante per il giudicante, perciò non tenuto a prenderne cognizione in difetto di apposita corrispondente deduzione (v. Cass. I civ. n. 2461 del 29/01/2019: la mera produzione di un documento in appello non comporta automaticamente il dovere del giudice di esaminarlo, in ossequio all’onere di allegazione delle ragioni di doglianza sotteso al principio di specificità dei motivi di appello, occorrendo che alla produzione si accompagni la necessaria attività di allegazione diretta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato, ai fini dell’integrazione della ingiustizia della sentenza impugnata. In senso conforme, tra le altre, Cass. n. 8377 del 2009). Del resto, la stessa locuzione di cui all’art. 414 c.p.c., n. 5, secondo cui il ricorso deve anche contenere l’indicazione specifica dei mezzi di prova e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione sottende evidentemente una rituale allegazione in proposito, necessaria ai fini del contraddittorio ed utile a provocare la conseguente cognizione del giudicante. Peraltro, nemmeno è ravvisabile, in base alle pur carenti e non precise enunciazioni di parte ricorrente, un vizio di ultrapetizione per violazione dell’art. 112 c.p.c., poichè le minori somme (come sintetizzate nei prospetti di cui alle pagine 8 e 12 del ricorso per cassazione), che l’appellante avrebbe preteso soltanto in base alla c.t.u. di prime cure (per un totale di 490.152,63Euro), appaiono comunque inferiori a quelle ulteriori complessivamente (in ragione di 361.971,98 Euro = 60523,48 + 8081,48 + 269403,75 + 23963,27) riconosciute dalla sentenza d’appello (con accessori di legge compresi fino al 30 giugno 2015), mentre quella di primo grado aveva liquidato la complessiva somma di 154239,19 Euro, di cui 86530,87 per danno pensionistico liquidato da luglio 2012 a marzo 2015 (più interessi e rivalutazione (3130,87 + 3064,4 + 312,81 + 306,17 + 2382,29 + 3064,4 + 1115 + 1117,04) per un ammontare di 14.492,98Euro fino al 30 giugno 2012, e così per totali Euro 168.732,17);

è infondato il terzo motivo, tenuto conto di quanto sopra considerato circa la ritenuta ammissibilità del gravame interposto dal R., per cui Corte di merito, nell’ambito delle proprie prerogative di ufficio (ex artt. 437 – 421,61 c.p.c. e ss., cui pure rinvia l’art. 191 dello stesso codice di rito) ha reputato, insindacabilmente in questa sede (per effetto altresì del rigetto dei primi due motivi di ricorso), di avvalersi ancora di ausilio tecnico (evidentemente giudicando non esauriente la c.t.u. di primo grado), al fine di stabilire, in concreto, la fondatezza contabile delle pretese creditorie reiterate dal ricorrente in relazione a quanto non riconosciuto da primo giudicante, però riformato al riguardo;

è inammissibile il quarto motivo del ricorso principale, posto che pure in proposito la doglianza risulta difettosa in ordine ai già sopra richiamati requisiti di autosufficienza e di specificità, visto soprattutto che la contestata c.t.u. contabile, le cui risultanze in effetti sono state recepite dai giudici d’appello, è stata frammentariamente e parzialmente riprodotta, laddove d’altro canto appare immune da errori logici e diritto il percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito nella liquidazione del quantum spettante al dipendente relativamente alle voci retributive non riconosciute dal giudice di primo grado, come da nuova c.t.u., avverso la quale entrambe le parti avevano mosso articolate contestazioni. Come premessa, tuttavia, la Corte distrettuale richiamava il principio, secondo il quale il credito dal lavoro è sempre quello risultante al lordo, salva la trattenuta fiscale che il datore di lavoro è tenuto ad operare al momento del pagamento quale sostituto d’imposta, di guisa che il calcolo delle singole voci retributive per effetto della maggiorazione della base di calcolo deve obbedire al raffronto tra elementi omogenei e quindi tra il dovuto al lordo ed il corrisposto al lordo. Poichè nel caso di specie si trattava di somme liquidate al netto spendibile coerentemente il consulente di ufficio aveva lordizzato le somme secondo un criterio di ragionevole adeguatezza. D’altro canto, la questione lordo / netto era stata già affrontata e risolta nel giudizio di primo grado, nel corso del quale la c. t. u. aveva lordizzato gli importi senza che nessuna delle parti muovesse censure di merito. Nè la Banca aveva appellato in via incidentale il capo di condanna con riferimento alla quantificazione delle somme che il primo consulente aveva determinato in base alla lordizzazione. Quanto poi al coefficiente di lordizzazione (1,47) stimato dal c. t. u., lo stesso risultava corretto, in quanto corrispondente al raffronto tra il lordo ed il netto esposto nei documenti contabili di provenienza aziendale (v. del resto Cass. lav. n. 18044 del 14/09/2015, secondo cui l’accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, atteso che la determinazione delle prime attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli, mentre, quanto alle seconde, il datore di lavoro, ai sensi della L. n. 218 del 1952, art. 19, può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo. Parimenti, secondo Cass. n. 21010 del 13/09/2013 (che nella specie rigettava l’impugnazione della S.p.a. Banca MPS), l’accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, atteso che il meccanismo di queste ultime si pone in relazione al distinto rapporto d’imposta, sul quale il giudice chiamato all’accertamento ed alla liquidazione delle spettanze retributive – come pure all’assegnazione delle relative somme in sede di esecuzione forzata – non ha il potere d’interferire, restando le dette somme assoggettate a tassazione, secondo il criterio c.d. di cassa e non di competenza, soltanto una volta che saranno dal lavoratore effettivamente percepite. Cfr. pure Cass. lav. n. 25956 del 31/10/2017: secondo cui in tema di contributi previdenziali, posto che, in applicazione della L. n. 218 del 1952, art. 23, il datore di lavoro che non abbia provveduto tempestivamente ad eseguire i versamenti dovuti resta obbligato in via esclusiva al loro pagamento anche per la quota a carico del lavoratore, il credito retributivo di quest’ultimo deve essere calcolato al lordo della quota contributiva originariamente a suo carico, che, divenuta parte della retribuzione dovuta, non deve essere detratta dal danno subito dal lavoratore per il mancato tempestivo adempimento del datore di lavoro – cfr. in motivazione: …Stabilisce la L. 4 aprile 1952, n. 218, art. 19: “1. Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo.

2. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce”. Tale disposizione è stata interpretata da questa Corte nel senso che il datore di lavoro può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo (Cass. n. 18044 del 2015; Cass. n. 19790 del 2011, e molte altre precedenti del medesimo tenore). Altrimenti, detta quota contributiva rimane a carico del datore di lavoro ai sensi del successivo art. 23, stessa legge secondo il quale: Il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla dovuta è tenuto al pagamento dei contributi e delle parti di contributo non versato tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, oltre alle sanzioni ivi previste. Dunque se il datore di lavoro corrisponde tempestivamente all’ente previdenziale la quota contributiva a carico del lavoratore legittimamente egli opera la relativa trattenuta sulla retribuzione; se invece il datore di lavoro non corrisponde tempestivamente detta quota contributiva essa rimane definitivamente a suo carico, sicchè, in ossequio ad un evidente congegno sanzionatorio previsto dagli artt. 19 e 23, nei confronti del datore, il lavoratore rimane liberato dall’obbligazione contributiva in discorso, per la quota a suo carico, con l’ulteriore conseguenza che il suo credito retributivo va in tal caso necessariamente calcolato al lordo della quota contributiva altrimenti su di lui gravante per la semplice ragione che la sua soggezione al relativo obbligo rimane travolta dalla condotta del datore. Il credito retributivo del lavoratore, in altre parole, si estende automaticamente alla quota contributiva a suo carico (non a quella a carico del datore), che diviene perciò stesso parte della retribuzione a lui spettante (in termini: Cass. n. 23426 del 2016). Ulteriormente ne consegue che, se in caso di tardivo adempimento nel pagamento dei contributi da parte del datore di lavoro la quota originariamente a carico del lavoratore diventa retribuzione dovuta al medesimo ed il debito nei confronti dell’ente previdenziale si trasferisce al datore di lavoro anche per detta quota, ha errato la Corte territoriale a detrarre dall’ammontare del danno liquidato in favore del… somme di cui questi non poteva essere più debitore a causa dell’inadempimento datoriale….”. Analogamente, ancora, secondo Cass. III civ. n. 19790 del 28/09/2011, l’accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore. Ed infatti, quanto a queste ultime, al datore di lavoro è consentito procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo ai sensi della L. 4 aprile 1952, n. 218, art. 19. Nello stesso senso, nelle more della pubblicazione di questa decisione, v. anche quanto precisato da Cass. lav. con ordinanza n. 18897 del 5/6 – 15/07/2019, secondo cui in tema di contributi previdenziali, quando il datore di lavoro corrisponde tempestivamente i crediti retributivi può legittimamente operare la trattenuta dei contributi da versare all’ente previdenziale, non può farlo, invece, in caso di intempestività, da valutarsi con riferimento al momento di maturazione dei crediti e non a quello di accertamento giudiziale degli stessi, sicchè in detta ipotesi il credito retributivo del lavoratore si estende automaticamente alla quota contributiva a suo carico);

di conseguenza, va disatteso anche il quinto motivo del ricorso principale, connesso al precedente, laddove ricorrono pure i già rilevati difetti di specificità e di autosufficienza, mentre d’altro canto in base a quanto osservato dalla Corte di merito il criterio c.d. della lordizzazione risultava già impiegato dalla sentenza di primo grado, anche qui secondo analogo metodo seguito dalla c.t.u. ivi espletata in relazione alle pretese creditorie riconosciute dal primo giudicante, perciò evidentemente sfavorevoli alla convenuta, quindi soccombente sul punto, sicchè a tal riguardo sussisteva interesse della medesima convenuta ad impugnare in parte qua la pronuncia, ancorchè in via incidentale, non bastando invece la mera reiterazione delle proprie eccezioni sul punto ai sensi dell’art. 346 c.p.c., nel caso in esame in atti peraltro nemmeno risultanti specificamente rassegnate in proposito (Cass. sez. un. civ. n. 12067 del 24/05/2007: soltanto la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., può limitarsi a riproporle mentre la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione, di cui intende ottenere l’accoglimento, ha l’onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa. Conformi, tra le altre, Cass. III civ. n. 6550 del 14/03/2013 e I civ. n. 9889 del 13/05/2016. In senso analogo tra le altre v. anche Cass. lav. n. 10119 del 19/11/1996, nel senso che soltanto la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale specifico per richiamare in discussione le eccezioni e le questioni che risultino superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo, ma è unicamente tenuta a riproporle espressamente nel nuovo giudizio in modo chiaro e preciso, tale da manifestare in forma non equivoca la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.. Analogamente, più di recente, Cass. lav. n. 24124 del 28/11/2016: la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione “le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado”, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perchè assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.);

quanto, poi, al primo motivo del ricorso incidentale la censura, ivi formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è comunque inammissibile, ostandovi ex art. 348 ter c.p.c., u.c., (nella specie ratione temporis applicabile in relazione ad appello proposto nell’anno 2013 avverso sentenza di primo grado, risalente al dicembre 2012), la c.d. doppia conforme decisione derivante dalla conferma, in secondo grado, della decisione di prime cure di rigetto della pretesa di ottenere la retrodatazione della qualifica dirigenziale fin dal 1995, mediante il rigetto – a sua volta – del primo motivo di gravame sul punto, laddove d’altro canto il ricorrente al riguardo non ha debitamente allegato alcuna diversità di valutazioni in punto di fatto da parte delle due sentenze di merito, mentre la pronuncia d’appello, come sopra già anticipato, in motivazione chiariva espressamente di condividere gli argomenti in proposito utilizzati dal primo giudicante per escludere il diritto del R. all’invocato superiore inquadramento con l’anzidetta decorrenza;

la suddetta rilevata inammissibilità del primo motivo, derivante per giunta dalla non autosufficiente riproduzione delle risultanze istruttorie e segnatamente di quelle documentali (appena sintetizzate da parte ricorrente incidentale, che invero si è pressochè limitata a richiamarle per relationem con riferimento alle relative produzioni di merito e di legittimità ex art. 369 c.p.c., ma senza alcuna adeguata ed esauriente trascrizione dei relativi atti, invece occorrente ex art. 366 c.p.c., n. 6), travolge in effetti anche le successive doglianze, soprattutto la seconda e terza censure involgenti le asserite violazioni di legge e di contrattazioni collettive. Ed invero, va in primo luogo ricordato che il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (Cass. V civ. n. 14784 del 15/07/2015, conformi Cass. nn. 15952 del 2007, 8569 del 2013 nonchè più recentemente n. 18679 del 27/07/2017. V. altresì Cass. II civ. n. 6361 del 19/03/2007, secondo cui tra l’altro il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione non consente il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito, donde l’onere per la parte ricorrente di indicarli compiutamente. In senso conforme Cass. H civ. n. 21226 del 14/10/2010, nonchè Cass. lav. n. 15367 del 4/7/2014). Di conseguenza, dovendosi ritenere ormai definitivamente accertati i fatti di causa, quanto all’escluso diritto alla qualifica ed alle mansioni dirigenziali durante il periodo gennaio 1995 / ottobre 2001, così come conformemente ritenuto dai giudici di merito, in difetto di rituali ed ammissibili censure ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, del tutto inconferenti si appalesano le altre doglianze formulate, laddove invero ai sensi dell’art. 360 n. 3 dello stesso codice sono consentite critiche circa la corretta applicazione delle norme esclusivamente in punto di diritto, esclusa quindi ogni quaestio facti. Infatti, le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente all’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass. I civ. n. 640 del 14/01/2019. V. analogamente id. n. 24155 del 13/10/2017, secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità). Ed analogamente va detto in relazione al quarto ed ultimo motivo del ricorso incidentale, in quanto una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. VI civ. – 1 n. 1229 del 17/01/2019, conforme sez. 6 – L n. 27000 del 27/12/2016. Parimenti, secondo Cass. III civ. n. 23940/17 del 16/12/2016

12/10/2017, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012: “…Occorre premettere che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012 -applicabile alla sentenza impugnata in quanto pubblicata successivamente alla data 11.9.2012 di entrata in vigore della norma modificativa-, non trova più accesso al sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza od incompletezza logica dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie, qualora dalla sentenza sia evincibile una “regula juris” che non risulti totalmente avulsa dalla relazione logica tra “premessa (in fatto)- conseguenza (in diritto)”;

che deve giustificare il “decisum”. Rimane quindi estranea al vizio di legittimità “riformato”, tanto la censura di “contraddittorietà” della motivazione (peraltro attinente ad una incompatibilità logica

intrinseca al testo motivazionale, in quanto determinata dalla reciproca elisione di affermazioni oggettivamente contrastanti, non altrimenti risolvibile, che impedisce di discernere quale sia il diritto applicato nel caso concreto: cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 25984 del 22/12/2010), quanto la censura che, anteriormente alla modifica della norma processuale, veicolava il vizio di “insufficienza” dello svolgimento argomentativo, con il quale veniva imputato al Giudice di merito 1 – di avere tratto, dal materiale probatorio esaminato, soltanto alcune delle conseguenze logiche che il complesso circostanziale avrebbe consentito di desumere, pervenendo ad un accertamento meramente parziale della “res litigiosa”, ovvero 2 – di non avere considerato elementi costituenti “fatti secondari” che – se pur non decisivi, da soli, a fornire la prova contraria favorevole al ricorrente tuttavia – erano idonei ad inficiare o quanto meno a revocare in dubbio la efficacia dimostrativa (dei fatti costitutivi della pretesa) attribuita ai diversi elementi indiziari utilizzati dal Giudice a fondamento della decisione, ovvero ancora erano idonei ad evidenziare eventuali lacune o salti logici dello stesso ragionamento rispetto alla corretta applicazione dei criteri induttivo-deduttivo della logica formale. La nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), ha infatti limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità. Pertanto laddove non si contesti la inesistenza del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali – acquisiti al rilevante probatorio – ritenuti dal Giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016). Rimane estranea al predetto vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il Giudice si è formato, ex art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, ed operando quindi il conseguente giudizio di prevalenza (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016 che, icasticamente, afferma come il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Occorre, al riguardo, opportunamente precisare che, attraverso il combinato disposto dell’art. 116 c.p.c., e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), non è dato riproporre, sotto altra forma paradigmatica, la censura dei vizi di logicità eliminati dall’attuale testo normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), atteso che per giurisprudenza consolidata il principio del libero convincimento ex art. 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito riservato in via esclusiva al Giudice e come tale è insindacabile in sede di legittimità: è assolutamente pacifico in giurisprudenza, infatti, che la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, e dell’art. 116 c.p.c., solo apparentemente veicola un vizio di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, traducendosi, invece, nella denuncia di “un errore di fatto” che deve essere fatta valere attraverso il corretto paradigma normativo del vizio motivazionale, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 2707 del 12/02/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12912 del 13/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/06/2013), essendo esclusa in ogni caso una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (cfr. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014). Ineludibile corollario della precedente affermazione è che la censura di violazione delle norme processuali predette non può legittimare, evidentemente, una “trasformazione” del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica” – non più sindacabile in sede di legittimità-in un vizio di “errore di diritto” (attinente alla attività processuale), sì che il primo possa in tal modo ritornare ad essere sindacabile avanti la Corte sotto le apparenti, diverse, spoglie della violazione di norma di diritto, non essendo in ogni caso autonomamente denunciabili -attraverso la denuncia della violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, e art. 116 c.p.c.- assenti errori di “convincimento” attinenti alla preminente rilevanza attribuita a talune “questioni” od alle stesse “argomentazioni” nelle quali si estrinseca l’esercizio del potere discrezionale di apprezzamento delle prove (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21152 del 08/10/2014), e rimanendo in ogni caso precluso nel giudizio di cassazione l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione ai fini istruttori (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015)….”. In senso analogo, quindi, Cass. sez. 6 – 3, con l’ordinanza n. 22598 pubblicata il 25/09/2018, ha ulteriormente chiarito che in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, obbligo violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione – per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4);

pertanto, alla luce dei surriferiti principi di diritto, una volta esclusa per le indicate ragioni l’ammissibilità del primo motivo ex art. 360 c.p.c., n. 5, appaiono inconferenti le restanti tre doglianze svolte dal ricorrente incidentale, avendo la Corte di merito accertato che la responsabilità dell’Ispettorato risultava attribuita ad altro dipendente, nominativamente individuato, mentre quanto alle mansioni svolte presso l’ufficio Segretario Generale, i compiti all’uopo allegati dal R., benchè implicanti notevole professionalità, non corrispondevano ai requisiti in proposito richiesti (autonomia e potere decisionale atti a realizzare gli obiettivi dell’impresa) dalla declaratoria della contrattazione collettiva pacificamente applicata nel rapporto di lavoro in questione (senza però in alcun modo far riferimento anche all’esigenza di un espresso riconoscimento da parte datoriale, di cui alla nullità sul punto paventata dal ricorrente), in quanto non comportavano la spendita di rilevanti poteri decisionali e soprattutto alcuna realizzazione di obiettivi aziendali, per tali dovendosi intendere quelli che lo stesso dirigente individua in concreto sulla base delle strategie d’impresa, realizza e non meramente concorre a realizzare nella loro fase preparatoria o istruttoria. Infatti, secondo la Corte distrettuale, sul contenuto di vertice di tali mansioni l’appellante non aveva offerto riscontri concreti, essendosi limitato a proporre argomenti marginali o irrilevanti, come il raffronto con altri colleghi incaricati delle medesime mansioni (raffronto giudicato al riguardo non utile come da citata giurisprudenza – Cass. lav. n. 16015 del 19/07/2007, secondo cui infatti non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l’art. 36 Cost., si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost., impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati; sicchè, la mera circostanza – priva di ulteriori specificazioni – che determinate mansioni siano state in precedenza affidate a dipendenti cui il datore di lavoro riconosceva una qualifica superiore, è del tutto irrilevante per il dipendente al quale, con diversa e inferiore qualifica, siano state affidate le stesse mansioni. V. altresì Cass. sez. un. civ. n. 4570 del 17/05/1996, secondo cui non esiste un diritto soggettivo del lavoratore subordinato alla parità di trattamento, essendo, al contrario, legislativamente prevista come possibile una situazione di disparità di trattamento dall’art. 2077 c.c., comma 2, il quale, nell’imporre la sostituzione con le norme collettive delle clausole difformi contenute nei contratti individuali salvo che tali clausole siano più favorevoli al lavoratore, prevede di fatto un allineamento dei contratti individuali di lavoro alla disciplina collettiva non in tutti i casi, ma solo in quelli in cui il contratto individuale di lavoro contenga disposizioni meno favorevoli per il lavoratore. Con riferimento alle disparità di trattamento che si verificano, ad opera del datore di lavoro, nel corso del rapporto, l’attribuzione ingiustificata ad un lavoratore di un determinato beneficio non può costituire titolo per attribuire al lavoratore che si trovi nell’identica posizione un diritto ad ottenere lo stesso beneficio, nè può determinare l’insorgenza di un danno risarcibile, poichè questo, postulando la lesione di un diritto, non è configurabile laddove esso non sussiste; nè il suddetto diritto può derivare dalla violazione del criterio di ragionevolezza, atteso che le clausole generali di correttezza e buona fede, che costituiscono il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia negoziale, possono operare solo all’interno del rapporto – consentendo al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva – e non possono essere quindi utilizzate in relazione a comportamenti esterni, e cioè adottati dal datore di lavoro nell’ambito di rapporti di lavoro diversi. Infine, non è configurabile alcun comportamento discriminatorio del datore di lavoro qualora esso, pur determinando una disparità di trattamento fra i lavoratori, costituisca corretto adempimento di una norma collettiva, che, in forza dell’art. 2077 c.c., comma 2, sia entrata a far parte del rapporto individuale di lavoro dei soggetti beneficiati e che, in quanto atto di esercizio dell’autonomia collettiva, si sottrae ad ogni potere correttivo in sede di controllo giudiziario. V. ancora Cass. lav. n. 26236 del 12/12/2014, secondo cui agli effetti della tutela apprestata dall’art. 2103 c.c., in mancanza di un principio generale di parità di trattamento in materia di lavoro, non assume alcun rilievo giuridico l’eventuale identità fra le mansioni svolte e quelle proprie di altri lavoratori della stessa azienda che abbiano già ottenuto la stessa qualifica, ma solo la riconducibilità delle mansioni svolte alla qualifica invocata. Analogamente Cass. lav. n. 1433 del 23/02/1996 e n. 23273 in data 08/11/2007, di guisa che resta tra l’altro irrilevante pure l’asserita prassi aziendale menzionata nel quarto motivo del ricorso incidentale). Nè, secondo la Corte di merito, assumeva valenza probatoria l’esclusione del Segretario Generale dalla contrattazione collettiva spagnola, trattandosi di elemento di scarso significato in ragione della pacifica applicabilità del c.c.n.l. nazionale, laddove evidentemente l’applicabilità del contratto collettivo presuppone il suo comune recepimento (espresso o tacito) da entrambe le parti del singolo rapporto di lavoro considerato, sicchè nella specie, essendo quest’ultimo indiscusso nella sua intercorrenza tra il R. e la Banca MPS, e non già con la controllata spagnola presso cui il primo era stato distaccato, rilevava il solo contratto collettivo nazionale italiano e non quello locale di temporanea esecuzione del rapporto medesimo, donde appunto la ritenuta pacifica applicabilità soltanto di quest’ultimo. Nè, infine, come altresì osservato dalla Corte di merito, era stato speso alcun argomento per contrastare l’allegazione di parte datoriale, secondo cui la Direzione Generale si articolava in tre figure di vertice sovraordinate al R. (Director General, Adjunto e Subdirector);

pertanto, entrambe le impugnazioni, principale e incidentale, vanno disattese, di guisa che si ravvisano anche estremi di reciproca soccombenza per compensate interamente tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità;

tuttavia, atteso l’esito negativo delle stesse impugnazioni, sussistono i presupposti processuali di legge per il versamento degli ulteriori contributi unificati.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA entrambi i ricorsi. Dichiara compensate tra le parti le spese di questo giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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