Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12174 del 08/05/2019

Cassazione civile sez. lav., 08/05/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 08/05/2019), n.12174

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17335-2017 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BERGAMO 43,

presso lo studio dell’avvocato ROSAMARIA CIANCAGLINI, rappresentata

e difesa dall’avvocato FRANCESCO FORMENTO;

– ricorrente –

contro

ROYAL FOOD ITALIA S.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 512/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 21/12/2016 R.G.N. 394/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/04/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELLA MARCHESE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo del ricorso, assorbiti gli altri.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Genova, pronunciando ai sensi del D.Lgs. n. 23 del 2015 in merito all’impugnativa di licenziamento disciplinare intimato a C.C. il 3 settembre 2015 dalla Royal Food srl, dichiarava, nella contumacia di quest’ultima, illegittimo il recesso, estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e condannava la società datoriale al pagamento di un’indennità pari a quattro mensilità oltre al rimborso delle spese di giustizia.

2. La Corte di appello di Genova, con sentenza n. 512 del 21.12.2016, seppure con diversa motivazione, “conferma(va) il dispositivo della sentenza appellata”.

2.1. Per quanto qui rileva, la Corte distrettuale ha osservato come la domanda principale dell’appellante (id est: la lavoratrice), volta ad ottenere la tutela prevista dal D.Lgs 23 del 2015, art. 3, comma 2, (tutela reintegratoria) per il caso di insussistenza del fatto materiale contestato, dovesse essere respinta (non già per le ragioni espresse nella sentenza di primo grado ma) in quanto la condotta addebitata (allontanamento dal posto di lavoro) non era stata negata nella sua realtà storica; la stessa, piuttosto, non poteva ritenersi, in concreto, per le circostanze in cui si era verificata, di gravità tale da giustificare il licenziamento; correttamente, dunque, il Tribunale aveva riconosciuto la tutela risarcitoria prevista dal comma 1 dell’art. 3 cit., determinata esattamente, nella parte dispositiva della sentenza, in misura pari a quattro mensilità della retribuzione.

3. Ha proposto ricorso per cassazione C.C., affidato a due motivi.

4. E’ rimasta intimata la datrice di lavoro.

Il ricorso, fissato per l’Adunanza camerale dell’8.1.2019, è stato rinviato all’odierna udienza pubblica, stante il rilievo nomofilattico della decisione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 324 c.p.c. nonchè dell’art. 2909 c.c. per non aver la sentenza impugnata considerato l’intervenuto giudicato interno sull’accertamento di illegittimità per insussistenza del fatto materiale contestato alla lavoratrice, attesa la (ritenuta) irrilevanza dello stesso fatto dal punto di vista disciplinare (fatto sussistente ma privo di antigiuridicità), dovendosi equiparare il fatto giuridicamente irrilevante, anche nell’ambito della nuova disciplina, al fatto materialmente insussistente, in continuità con quanto affermato, nella vigenza della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, in relazione alla sovrapponibilità, sul piano sanzionatorio, tra fatto materiale insussistente e fatto giuridicamente irrilevante (con richiamo a Cass. n. 20540 del 2015; Cass. n. 10019 del 2016 ed altre).

2. Con il secondo motivo è dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3 per avere la gravata sentenza, erroneamente, confermato la decisione di primo grado quanto alle conseguenze sanzionatorie.

La Corte di appello avrebbe (comunque) erroneamente individuato la tutela applicabile: l’accertamento di insussistenza del fatto, in quanto giuridicamente irrilevante, avrebbe dovuto condurre all’applicazione della sanzione di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, ed, in particolare, per effetto dell’esercizio da parte della lavoratrice della facoltà di cui all’ultima parte del medesimo art. 3, comma 2, cit, di quella specificamente stabilita dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 2,comma 3.

3. Il primo motivo è da respingere.

3.1. E’ infondata la denuncia di violazione del giudicato interno.

3.2. Questa Corte ha reiteratamente affermato che ai fini della selezione delle questioni di fatto o di diritto suscettibili di giudicato interno occorre avere riguardo all’unità minima suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato, che è costituita dalla sequenza logica fatto-norma-effetto giuridico. Benchè ciascun elemento di tale sequenza possa essere singolarmente investito di censura in appello, nondimeno l’impugnazione motivata in ordine anche ad uno solo di essi riapre per intero l’esame di tale minima statuizione, consentendo al giudice dell’impugnazione di riconsiderarla tanto in punto di diritto (individuando una diversa norma sotto cui sussumere il fatto o fornendone una differente esegesi) quanto in punto di fatto, attraverso una nuova valutazione degli elementi probatori acquisiti.

In tal senso, tra le più recenti Cass., sez. 6, n. 4572 del 2013, Cass. nn. 2217 del 2016, 12202 del 2017 e 16853 del 2018, tutte sulla scorta di Cass. n. 6769 del 1998 ove trovasi affermato il principio secondo cui “con l’impugnazione per motivi di diritto -(negazione, in particolare, dell’idoneità di un fatto a produrre l’effetto ad esso ricollegato dal giudice di primo grado)- è devoluto al giudice di appello anche il potere di rilevare d’ufficio la carenza di prova (in relazione) alle componenti del fatto”.

3.3. Nella fattispecie di causa, la lavoratrice, contestando in appello la tutela riconosciuta dal Tribunale in relazione all’intimato recesso (giudicato illegittimo), ha riaperto la cognizione sull’intera fattispecie giuridica e, dunque, anche quella sulla sussistenza della giusta causa di recesso (ovviamente nei limiti del divieto di reformatio in peius), espandendo il potere del giudice d’appello di riconsiderare gli aspetti concernenti il fatto contestato, seppure non coinvolti -direttamente- dal motivo di gravame.

3.4. Tuttavia, quanto alla determinazione degli effetti, la Corte di appello ha tratto, dall’accertamento del fatto, nella sua materialità, conseguenze che si pongono in violazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3.

4. E’ fondato, infatti, il secondo motivo di ricorso.

4.1. Opportuna una preliminare ricognizione delle disposizioni normative rilevanti, essendo pacifico, sulla base della sentenza impugnata, che la fattispecie di causa ricada nell’ambito di disciplina del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Il decreto legislativo citato è stato emanato in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183, con cui si delegava il Governo – tra l’altro – ad adottare uno o più decreti legislativi “allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonchè di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva” (L. n. 183 del 2014, art. 1, comma 7).

Tra i “principi e criteri direttivi”, cui il Governo doveva attenersi nell’esercizio di tale delega, la L. n. 183 del 2014 ha posto – tra l’altro – la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” rispetto al quale, esclusa “per i licenziamenti economici la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro”, dovesse essere limitato “il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”.

In esplicita esecuzione di tali scopi e criteri direttivi è stato emanato il D.Lgs. n. 23 del 2015 che, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto nonchè, in via residuale, per specifiche categorie di lavoratori che, benchè assunti prima della data anzidetta, sono comunque destinatari del decreto in oggetto, ha disciplinato “il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo” (D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 1, comma 1), senza pertanto modificare le vigenti nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo di recesso del datore di lavoro.

4.2. Per quanto qui rileva, la disciplina del “licenziamento per giustificato motivo e giusta causa” è contenuta nell’art. 3 del decreto.

Per il comma 1 dell’art. 3 “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità (…)”.

Per il comma 2 dell’art. 3 “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria (…)”.

4.3. L’articolazione delle tutele, nel suo impianto generale, richiama quella già intrapresa dalla L. n. 92 del 2012 di modifica della L. n. 300 del 1970, art. 18, anche nella sua logica di ritenere la reintegrazione come residuale rispetto alla tutela indennitaria (Cass. n. 19732 del 2018; Cass. n. 30323 del 2017; Cass. n. 14021 del 2016), già letta dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. n. 30985 del 2017) quale “espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”.

4.4. Tuttavia la formulazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, non è perfettamente coincidente con quella di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, che, invece, riconosce la sanzione della reintegrazione, sia pure nella forma cd. “attenuata”, nei casi in cui “Il giudice (…) accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (…)”.

In particolare, in un caso, la reintegrazione è collegata all’insussistenza del “fatto materiale contestato” (D.Lgs. n. 23 del 2015), nell’altro, all’insussistenza del “fatto contestato” (art. 18 cit.).

4.5. La giurisprudenza di legittimità, in questi anni, ha elaborato una nozione di insussistenza del “fatto contestato” che, come efficacemente sintetizzato nella sentenza n. 10019 del 2016, “comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente”.

Nella pronuncia n. 13178 del 2017, questa Corte, nel fare il punto sulla interpretazione del comma 4 dell’art. 18 cit., ha ricostruito in termini di continuità le pronunce rese al riguardo, evidenziando come il principio affermato da Cass. n. 23669 del 6 novembre 2014 sia “stato ripreso, sviluppandone l’effetto applicativo, da Cass. 13.10.2015 n. 20540, Cass. 20.9.2016 n. 18418 e Cass. 12.5.2016 n. 10019, secondo cui l’insussistenza del fatto contestato comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore e da Cass. 13.10.2015 n. 20545, che ha chiarito come ogniqualvolta il fatto contestato presupponga anche un elemento non materiale (come la gravità del danno) allora tale elemento diventa anch’esso parte integrante del “fatto materiale” come tale soggetto ad accertamento, sicchè anche in tale ipotesi l’eventuale carenza determina la tutela reintegratoria”.

4.6. E’ significativo osservare che, per pervenire a dette conclusioni, siano stati valorizzati da un lato il tenore letterale della norma, che fa riferimento al “fatto contestato”, dall’altro, sotto il profilo logico, la assoluta sovrapponibilità “dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero non sia imputabile al lavoratore stesso” (in questi termini, Cass. n. 10009 cit).

5. Occorre, a questo punto, domandarsi se le medesime conclusioni possano confermarsi anche in relazione alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 23 del 2015.

5.1. Ritiene il Collegio che alla domanda debba darsi risposta affermativa.

5.2. Il testo del D.Lgs n. 23 del 2015, art. 3 ha, evidentemente, riacceso il dibattito, già in precedenza sviluppatosi in relazione all’art. 18 cit.. I fautori della tesi del fatto materiale, inteso come riferito alla sola condotta realizzatasi nella realtà fenomenica, comprensiva cioè unicamente di azione o omissione, nesso di causalità ed evento, ravvisano nella nuova e più stringente locuzione normativa la necessità di un’esegesi che, maggiormente conforme al dato letterale, imponga di interpretare la norma nel senso che la tutela reintegratoria, in quanto di carattere eccezionale, debba rimanere circoscritta alla sola assenza degli elementi costitutivi della condotta, come realizzatasi nella realtà fenomenica, senza che possa assumere alcun rilievo l’atteggiamento psicologico dell’agente; dall’altro, i sostenitori del fatto giuridico che, nell’evidenziare il carattere atecnico della nozione di fatto materiale, valorizzano il richiamo alla contestazione e/o fanno leva sul concetto di inadempimento per giungere alle conclusioni già espresse in passato.

5.3. Osserva la Corte come, pur dovendosi valutare il tenore letterale della nuova disposizione, nondimeno sia parimenti indubitabile che le espressioni utilizzate (id est: fatto materiale contestato) non possano che riferirsi alla stessa nozione di “fatto contestato” come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 e che costituisce, all’attualità, diritto vivente.

5.4. Il medesimo criterio razionale che ha già portato questa Corte a ritenere che “quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione” (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2.

Invero al fatto accaduto ma disciplinarmente del tutto irrilevante non può logicamente riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso.

5.5. Conforta tale assunto una lettura costituzionalmente orientata della norma, dovendosi, al riguardo, affermare che qualsivoglia giudizio di responsabilità, in qualunque campo del diritto punitivo venga espresso, richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da quello oggettivo, la riconducibilità del medesimo nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità.

5.6. Non va poi trascurato che la Corte Costituzionale, come in ultimo rammentato con la pronuncia n. 194 del 2018 (punto 9.1 del Considerato in diritto), affermò (sentenza n. 45 del 1965, punti 3. e 4. del Considerato in diritto) che il diritto al lavoro, “fondamentale diritto di libertà della persona umana”, pur non garantendo “il diritto alla conservazione del lavoro”, tuttavia “esige che il legislatore (…) adegui (…) la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie (…) e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti”. Questa esortazione, come è noto, fu accolta con l’approvazione della L. n. 604 del 1966, che sancì, all’art. 1, il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, da considerarsi illegittimo se non sorretto da una “giusta causa” o da un “giustificato motivo”.

Il Giudice delle leggi ha in seguito affermato il “diritto (garantito dall’art. 4 Cost.) a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente” (sentenza n. 60 del 1991, punto 9. del Considerato in diritto) e ha poi ribadito la “garanzia costituzionale (del) diritto di non subire un licenziamento arbitrario” (sentenza n. 541 del 2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del 2006); in altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha richiamato la “L. 9 febbraio 1999, n. 30, recante “Ratifica ed esecuzione della Carta sociale Europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996″ per contenere ” detta Carta, entrata in vigore il 1 settembre 1999, (…) disposizioni volte a circondare di specifiche garanzie la posizione dei prestatori di lavoro contro i licenziamenti, prevedendo, in particolare (art. 24), l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo” (sentenza nr 46 del 2000, punto 3., ultima parte, del Considerando in diritto) ed ha, inoltre, affermato che “la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 Cost., in base al principio della necessaria giustificazione del recesso” (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).

5.7. A rafforzare la raggiunta conclusione, vi è altresì la considerazione che l’art. 3, al pari dell’art. 18, fa riferimento alla contestazione, già valorizzata da questa Corte per equiparare alla insussistenza del fatto la completa irrilevanza dello stesso sotto il profilo disciplinare e che, dunque, anche rispetto alla nuova disciplina, impone di ritenere che il “fatto materiale contestato”, di cui al D.Lgs n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, sia il “fatto contestato” e cioè, in definitiva, un fatto non solo materialmente integrato ma anche di rilievo disciplinare.

5.8. Infine non può tacersi che la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 -che ha implementato la formula che limita i casi di reintegrazione con l’aggiunta dell’aggettivo “materiale” in stretta connessione con l’esplicita estraneità di “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”- si spiega agevolmente con l’esigenza di dissipare per la nuova disciplina dubbi interpretativi che all’epoca erano ancora ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell’art. 18 novellato.

6. Di tali principi non ha fatto corretta applicazione la sentenza impugnata, che accertata, da un punto di vista solamente fenomenologico, la sussistenza della condotta materiale (per essere stata sostanzialmente ammessa dalla lavoratrice), ha da ciò solo ad est: dalla sussistenza del fatto materiale) tratto la conseguenza della impossibilità di una tutela reintegratoria, laddove un tale esito (id est: non operatività della tutela reintegratoria) poteva conseguire solo alla ulteriore valutazione di apprezzabilità, sul piano disciplinare, della condotta medesima tanto da un punto di vista oggettivo che soggettivo ovvero di imputabilità della stessa alla lavoratrice.

7. La sentenza impugnata va pertanto cassata e rinviata alla Corte di appello che nel riesaminare la fattispecie dovrà fare applicazione del seguente principio di diritto: “Ai fini della pronuncia di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.

8. Al giudice del rinvio che si designa in una diversa Sezione della Corte d’Appello di Genova è demandata anche la liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo, rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in merito alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019

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