Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12172 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. I, 22/06/2020, (ud. 21/02/2020, dep. 22/06/2020), n.12172

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4251/2016 proposto da:

Sicilcassa S.p.a., in Liquidazione Coatta Amministrativa, in persona

dei Commissari Liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliata in

Roma, Via Cola di Rienzo n. 111, presso lo studio dell’avvocato

Gonnella Giulio, rappresentata e difesa dall’avvocato Gallo

Alessandro, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G.; Cu.Ga.; S.G., G.R.,

G.M. e G.R.: nella qualità di eredi di

G.G., G.; O.C.; P.G.; domiciliati in Roma,

Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di

Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Messina Salvatore

Donato, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1910/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 23/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/02/2020 dal cons. FIDANZIA ANDREA;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS Stanislao, che ha chiesto che

la Corte accolga il primo motivo e rigetti il secondo ed il terzo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 23 dicembre 2015 la Corte d’Appello di Palermo ha rigettato l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Palermo che ha ammesso C.G., Cu.Ga., O.C., P.G. e G.G. allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa della Sicilcassa s.p.a., in via privilegiata, per le somme corrispondenti ai contributi da questi ultimi versati quali dipendenti della Sicilcassa s.p.a., ovvero per loro conto, al Fondo Integrativo Pensioni per il personale della Sicilcassa, oltre a interessi e rivalutazione monetaria.

Il giudice di secondo grado, per quanto di interesse, ha rigettato sia la doglianza con cui Sicilcassa contestava il diritto degli istanti di ottenere la restituzione non solo degli importi dai medesimi versati al Fondo Integrativo previdenziale, ma anche delle quote a carico dell’azienda (e ciò in relazione alla natura di retribuzione differita dei trattamenti pensionistici integrativi aziendali e per il divieto di distrazione ex art. 2117 c.c.), sia quella con cui era stato contestato il diritto dei lavoratori alla rivalutazione monetaria del loro credito.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Sicilcassa s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa.

Si sono costituiti in giudizio con controricorso C.G., Cu.Ga., O.C., P.G., S.G., G.R., G.R., G.M. (questi ultimi quattro già subentrati in appello quali eredi di G.G.).

La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2117 c.c., della L. n. 166 del 1996, art. 9 bis, comma 1, della D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 8, e dell’art. 2751 bis c.c..

Lamenta la società ricorrente che la sentenza impugnata ha erroneamente riconosciuto la natura giuridica di retribuzione differita ai contributi versati al F.I.P., configurandoli come debiti di lavoro.

Evidenzia che anche questa Corte, con la sentenza a Sezioni Unite n. 4684/2015, ha ritenuto la natura previdenziale e non retributiva dei contributi in oggetto con la conseguenza che, avendo il Fondo Integrativo Pensione di Sicilcassa s.p.a. natura privativatica, le relative prestazioni non rientrano tra quelle previdenziali a carattere obbligatorio e i relativi crediti non sono riconducibili alla previsione di cui all’art. 2751 bis c.c..

2. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che dall’esame della sentenza impugnata, la cui sintesi dei motivi d’appello non è stata, peraltro, contestata, non emerge che tra le questioni che sono state devolute all’esame della Corte d’Appello rientri anche la collocazione privilegiata dei crediti degli istanti.

Ne consegue che, essendo principio consolidato di questa Corte secondo cui i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio – non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 17/01/2018, n. 907; Cass., 09/07/2013, n. 17041) – ove nel ricorso per cassazione siano prospettate, come nel caso di specie, questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonchè il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla S.C. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 13/06/2018, n. 15430).

Nel caso in esame, la ricorrente non ha adempiuto al proprio onere di allegazione in modo tale da ritenere che la stessa avesse validamente censurato la statuizione della Corte di Appello che confermato la collocazione in privilegio dei crediti ammessi. In particolare, emerge dalle sue stesse allegazioni, che la procedura ricorrente si era limitata nelle conclusioni a chiedere “di respingere le domande dirette all’attribuzione dell’intera restribuzione e comunque rigettare la richiesta di riconoscimento del privilegio”.

Dunque, la censura della Sicilcassa sulla statuizione del giudice d’appello, confermativa del privilegio, si è limitata alle predette conclusioni, senza che consti, in ossequio al principio di autosufficienza, che vi sia stata l’illustrazione del motivo. In proposito, è orientamento consolidato di questa Corte che una tale illustrazione non può certo essere limitata alla mera manifestazione della volontà di impugnare la statuizione del giudice di primo grado, ma occorre che vi sia una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinare il fondamento giuridico della stessa statuizione (Cass. S.U. 9.11.2011 n. 23299, vedi anche Cass. 18704/2015; Cass. n. 12280/2016).

In particolare, la sentenza S.U. n. 23299/2011 ha evidenziato che il principio di specificità del motivo d’appello esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non potendo le statuizioni di una sentenza essere separate dalle argomentazioni che la sorreggono. Ed è per questo motivo che nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame anche rilevabile d’ufficio, una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

Va, inoltre, osservato che è pur vero che nella sentenza impugnata la Corte d’appello si è soffermata sulla natura retributiva del credito.

Tuttavia, ciò è stato fatto non per respingere la censura di collocazione privilegiata dei crediti, ma ad altri fini, ovvero per sostenere il diritto del lavoratore alla restituzione di tutti i contributi versati al FIP, comprese le quote del datore di lavoro.

Infine, le stesse argomentazioni su cui la procedura ricorrente ha fondato l’assunto della natura non privilegiata del credito – il Fondo Integrativo pensione di Sicilcassa ha natura privatistica e le sue prestazioni previdenziali non rientrano tra quelle a carattere obbligatorio – sono completamente estranee alla questione che è stata esaminata dalla Corte di appello per pervenire all’affermazione della natura retributiva del credito. Nè, del resto, la procedura ha neppure dedotto nel ricorso di aver già sottoposto tali rilievi all’esame del giudice di secondo grado nei propri motivi d’appello.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 80 T.U.B., della L. Fall., art. 55, e dell’art. 429 c.p.c., comma 3.

Espone la ricorrente che la natura previdenziale dei trattamenti pensionistici integrativi aziendali esclude l’applicabilità agli stessi della rivalutazione monetaria di cui all’art. 429 c.p.c., comma 3, che è ammessa solo per i crediti di lavoro.

Nè, peraltro, la circostanza che la L. n. 412 del 1991, art. 16, abbia stabilito un divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria per le forme di assistenza previdenziale obbligatoria consente, a contrariis, di applicare il cumulo alle forme di previdenza ed assistenza di natura privatistica. L’applicabilità dell’art. 429 c.p.c., dipende esclusivamente dalla natura retributiva delle prestazioni in esso contemplate.

4. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che, recentemente, questa Corte (confermando l’orientamento già espresso dalle sezioni semplici), nella sentenza a Sezioni Unite n. 6928 del 20/03/2018, ha statuito che ” il trattamento pensionistico erogato dai fondi pensione integrativi ha natura previdenziale, fin da quando tali fondi sono stati istituiti, ma ad esso non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, in quanto non corrisposto da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, ma da datori di lavoro privati. Dalla affermata natura previdenziale, tuttavia, deriva, da un lato, che agli accessori da cumulare non si applica il regime giuridico proprio delle obbligazioni pecuniarie, sicchè il pagamento del solo credito originario si configura come adempimento parziale di una prestazione unitaria da cui consegue che gli interessi devono essere calcolati sul capitale rivalutato con scadenza periodica, dal momento dell’inadempimento al soddisfacimento del credito”.

Il divieto di cumulo è stato, infatti, introdotto per le forme di gestione di previdenza obbligatoria per un’esigenza di salvaguardia del bilancio statale.

Va, inoltre, osservato che il diritto alla rivalutazione monetaria del credito previdenziale (avente natura non pubblicistica) deriva dall’intervento della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 156/1991 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 442 c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare gli interessi a tasso legale dovuti e il maggior danno eventualmente subito dal titolare del credito per la diminuzione di valore del credito a causa della svalutazione monetaria.

Dunque, l’equiparazione ai crediti di lavoro di quelli previdenziali non aventi natura pubblicistica (ovviamente ai fini dell’applicazione della rivalutazione monetaria) deriva dal predetto intervento della Consulta e non da un’interpretazione a contrariis dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione della D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 87, nonchè l’inosservanza del principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., alla luce anche dell’art. 6 CEDU.

Lamenta la ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente rigettato l’eccezione di improcedibilità del ricorso introduttivo dei creditori istanti per tardività rispetto al termine di cui al citato art. 87, comma 1, T.U.B., nonostante che questi ultimi non avessero coltivato il ricorso in opposizione del 12.2.1999. Infatti, se è pur vero che a seguito del deposito di tale ricorso, la cancelleria del Tribunale aveva omesso di comunicare ai ricorrenti l’udienza di prima comparizione fissata dal Tribunale per il 6.7.2000 – come era prescritto dall’art. 87, comma 3 TUB previgente – avrebbe dovuto comunque sanzionarsi l’inerzia dei creditori istanti, che non si erano premurati di monitorare il proprio ricorso, lasciando trascorrere circa sei anni (5.5.2005) dal deposito del nuovo ricorso in opposizione.

6. Il motivo è infondato.

Ritiene questo Collegio che, non essendo contestato in causa che nessuna comunicazione ai creditori istanti sia mai stata effettuata da parte della cancelleria del Tribunale di Palermo del decreto di fissazione dell’udienza del 6.7.2000, del tutto correttamente entrambi i giudici di merito non hanno sanzionato gli odierni controricorrenti con l’improcedibilità del ricorso.

Come la stessa procedura ricorrente ha dato atto, l’art. 87, comma 3, previgente del D.Lgs. n. 385 del 1993, richiedeva, infatti, espressamente che il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione fosse comunicato alla parte opponente a cura della cancelleria del Tribunale.

Va, peraltro, osservato che questa Corte ha già affermato che, anche se nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza al curatore ha natura perentoria – secondo quanto previsto dalla L. Fall., art. 99, nel testo come sostituito dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, art. 6, “ratione temporis” applicabile – tuttavia, la sua osservanza presuppone che alla parte opponente sia stato previamente comunicato il decreto presidenziale di fissazione dell’udienza, non essendo sufficiente il suo mero deposito in cancelleria, con la conseguenza che non si produce, in difetto, alcuna decadenza. (Cass. n. 3082 del 08/02/2011).

D’altra parte, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 120/1986, ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 98, comma 2, nella parte in cui non prevedeva nei confronti del creditore opponente la comunicazione almeno quindici giorni prima dell’udienza di comparizione del decreto di fissazione, comunicazione dalla quale doveva decorrere il termine per la notifica al curatore.

Nè, infine, la parte ricorrente può invocare la violazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

In proposito, va osservato che questa Corte, nella sentenza a Sezioni Unite n. 5700/2014, nel pronunciarsi in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, ha statuito, relativamente a quel tipo di procedimento, che il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza alla controparte non è perentorio, non essendo previsto espressamente dalla legge. Ne consegue che il giudice, nell’ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, può, in difetto di spontanea costituzione del resistente, concedere al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica.

E’ stato, in particolare, evidenziato che il principio del giusto processo, di cui all’art. 6 CEDU, non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso. Non si devono, pertanto, sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio.

Tale principio, seppur elaborato con riferimento ad un diversa tipologia di procedimento e ad una diversa questione, è applicabile, a maggior ragione, nel caso di specie in cui l’omessa notifica del ricorso al commissario della procedura è dipesa esclusivamente dalla mancata comunicazione del decreto da parte della Cancelleria del Tribunale.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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