Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12163 del 18/05/2010

Cassazione civile sez. I, 18/05/2010, (ud. 04/02/2010, dep. 18/05/2010), n.12163

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1560-2009 proposto da:

D.V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

PARIOLI 50, presso lo studio dell’avv. GIUSEPPE PICONE, rappresentato

e difeso dall’avv. CANDIANO MARIO, giusta mandato a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI;

– intimata –

avverso il decreto R.G.A.D. 52981/06 della CORTE D’APPELLO di ROMA

del 28.5.07, depositato il 09/01/2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/02/2010 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO DIDONE.

E’ presente il P.G. in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

p.1.- La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. è del seguente tenore: ” D.V.G. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi alla Corte dei conti dal loro dante causa, con ricorso del 1994, definito con sentenza del 4.11.2004, appellata il 13.1.2006, non risultando definito il giudizio di secondo grado.

La Corte d’appello, con decreto del 9.1.2008, fissato il termine di ragionevole durata del giudizio in anni tre, per il primo grado, ritenuta insussistente la violazione per il secondo grado, liquidava per il periodo eccedente (anni sette), a titolo di equa riparazione per il danno non patrimoniale, Euro 7.000,00, con il favore delle spese del giudizio.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso il D. V., affidato a due motivi; non ha svolto attività difensiva la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Osserva:

1.- Il ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., L. n. 89 del 2001, artt. 3 e 4 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamentando che la Corte d’appello non ha fatto riferimento all’intera durata del giudizio e ponendo le questioni così sintetizzate nei quesiti:

se il giudice debba tenere conto dell’intera durata del giudizio; se il giudice debba fissare la durata ragionevole del giudizio in due anni e mezzo per il primo grado ed un anno per il secondo nelle cause innanzi alla Corte dei conti e in materia di lavoro; se il giudice debba liquidare per il danno non patrimoniale (adde: nel minimo Euro 1.000,00 per ogni anno eccedente la durata ragionevole della causa pensionistica più una maggiorazione di Euro 2.000,00 per la sola natura della causa, come stabilito dalla CEDU con le sentenze del 10.11.20042: n.d.r.).

Il secondo motivo deduce l’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, in relazione all’art. 41 CEDU e art. 117 Cost., comma 1) ed è formulato il seguente quesito di diritto:

è non manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 2, comma 3 in rapporto all’art. 41 della CEDU, per violazione dell’art. 117 Cost. (in buona sostanza si deduce l’illegittimità costituzionale della norma nazionale nella parte in cui stabilisce che la liquidazione dell’equa riparazione va operata avendo riguardo soltanto agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata del giudizio).

2.- Il primo motivo sembra manifestamente fondato nei limiti che di seguito si precisano.

Alle questioni poste con le censure va data soluzione ribadendo i seguenti principi, consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, in virtù dei quali: la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma all’esito di una valutazione degli elementi previsti da detta norma (per tutte, Cass. n. 6039, n. 4572 e n. 4123 del 2009; n. 8497 del 2008) e in tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte EDU (tra le molte, sentenza 1 sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), la quale ha tuttavia stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità;

siffatto parametro va osservato dal giudice nazionale e da esso è possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta Legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; in seguito, tra le tante, Cass. n. 4123 e n. 3515 del 2009);

in riferimento al processo del lavoro (al quale, in linea generale, può assimilarsi quello innanzi alla Corte dei conti, ratione materiae), due recenti pronunce del giudice Europeo hanno affermato la violazione del termine di ragionevole durata, senza valorizzare la natura del giudizio (sentenze 18 dicembre 2007, sul ricorso n. 20191/03, in riferimento ad un giudizio in materia di lavoro durato in primo grado più di quattro anni e cinque mesi; 5 luglio 2 007, sul ricorso n. 64888/01, in relazione ad un giudizio della stessa natura, durato più di sette anni e due mesi), quindi, la natura del processo non comporta, da sola, la possibilità di stabilire un termine di durata rigido, così come la violazione del principio della ragionevole durata del processo non può discendere in modo automatico dalla accertata inosservanza dei termini processuali, dovendo in ogni caso il giudice della riparazione procedere a tale valutazione alla luce degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (Cass., 19352 del 2005; n. 6856 del 2004);

benchè sia possibile individuare degli standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, deve sempre procedersi ad una valutazione sintetica e complessiva, anche quando esso si sia articolato in gradi e fasi (tra le molte, Cass. n. 23506 del 2008; n. 18720 del 2007; n. 17554 del 2006; n. 8717 del 2006; n. 28864 del 2005; n. 6856 del 2004), ciò che può fare escludere la sussistenza del diritto, qualora il termine di ragionevole di una fase risulti violato, senza tuttavia che lo sia stato quello concernente l’intera durata del giudizio (nelle due fasi di merito e di legittimità), non rientrando nella disponibilità della parte riferire la sua domanda ad uno solo dei gradi di giudizio, optando evidentemente per quello in cui si sia prodotto sforamento dal limite di ragionevolezza e segmentando a propria discrezione la vicenda processuale presupposta” (Cass. n. 23506 del 2008);

la precettività, per il giudice nazionale, della giurisprudenza del giudice Europeo non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo per l’equa riparazione: mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (per tutte, Cass. n. 4572 del 2009; n. 11566 e n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).

Relativamente alla quantificazione del danno, vanno qui ribaditi i seguenti principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte:

il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004; successivamente, per tutte, Cass. n. 3515 del 2009; n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007);

i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte Europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo che, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 e sul ricorso n. 64897/01), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno il parametro per la quantificazione dell’indennizzo, che deve essere osservato dal giudice nazionale, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 4572 e n. 3515 del 2009; n. 1630 del 2006), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, a quelle da ultimo richiamate, aggiungi Cass. n. 6039 del 2009; n. 6898 del 2008);

resta invece escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere una ulteriore somma arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia. Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici Europei hanno affermato che una somma più elevata rispetto a detto parametro deve essere riconosciuta nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali.

Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008); il giudice del merito può, quindi, attribuire una somma maggiore, qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia sul cd. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (così, tra le altre, Cass. n. 7073, n. 6039 e n. 3515 del 2009; n. 18012 e n. 6898 del 2008).

In applicazione di detti principi, le censure sono manifestamente fondate, limitatamente alla parte in cui il decreto non ha considerato la fase di appello, procedendo ad una erronea scissione, mentre sono manifestamente infondate in relazione alla parte in cui la Corte del merito ha fissato il parametro per l’indennizzo nella misura di Euro 1.000,00 per anno di ritardo.

Il secondo motivo è, invece manifestamente inammissibile, poichè la trascrizione del quesito di diritto dimostra con palese evidenza che lo stesso si traduce in un’enunciazione tautologica (Cass. S.U. n. 11210 del 2008).

Peraltro, la questione proposta è stata ripetutamente esaminata da questa Corte, che ha esposto le ragioni che dimostrano la manifesta infondatezza dell’eccezione, da ritenersi qui condivise e ribadite (da ultimo con la sentenza 6 maggio 2009, n. 190415, in precedenza Cass. n. 980, n. 981, n. 982, n. 983, n. 9909, n. 23844 e n. 24390 del 2008). In relazione alle censure accolte, il decreto deve essere cassato e la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Pertanto, in applicazione dello standard minimo CEDU – che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius, sia in ordine al termine quinquennale di durata ragionevole del giudizio svoltosi in due gradi, sia in riferimento alla quantificazione dell’indennizzo per il danno non patrimoniale – individuato nella somma di Euro 1.000,00 per ciascun anno di ritardo il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale, siccome stabilito dal giudice del merito e non correttamente censurato e neppure riesaminabile in pejus – va riconosciuta all’istante la somma di Euro 8.500,00, in relazione agli anni eccedenti il quinquennio (anni 8,5, il giudizio si è protratto dal 1994 al 28.5.2007), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Pertanto, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge”.

p.2.- Il Collegio ritiene di non poter condividere le conclusioni della relazione, anche alla luce della più recente giurisprudenza della S.C., secondo la quale il termine lungo per proporre impugnazione, se utilizzato dalla parte, non può essere posto a carico dell’Amministrazione dello Stato.

Nella concreta fattispecie la Corte di merito ha correttamente escluso la durata irragionevole del giudizio di appello, iniziato nel 2006 e ancora pendente nel 2008, quindi entro un lasso di tempo conforme allo standard CEDU per il grado di appello (due anni).

La memoria depositata ex art. 378 c.p.c. – al di là della giusta segnalazione dell’errore materiale contenuto nella relazione là dove riferisce il processo presupposto al dante causa del ricorrente anzichè a quest’ultimo – non contiene argomenti tali da consentire un mutamento della giurisprudenza innanzi richiamata. Talchè il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2010

 

 

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