Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12162 del 07/05/2021

Cassazione civile sez. III, 07/05/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 07/05/2021), n.12162

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29040/2018 proposto da:

AVV. G.E. elettivamente domiciliato in ROMA, V. VITO

GIUSEPPE GALATI 100-C, presso lo studio dell’avvocato ENZO

GIARDIELLO, rappresentato e difeso dall’avvocato ELISABETTA GRANATA;

– ricorrenti –

e contro

P.V., PA.MA.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1875/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/06/2018;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI

Corrado.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione del 2 maggio 2014, l’avvocato G.E. evocava in giudizio l’avvocato Pa.Ma. e la signora P.V. chiedendo il risarcimento del danno ingiusto che aveva subito, a prescindere dalla qualificazione giuridica, per le dichiarazioni diffamatorie contenute nella comparsa di costituzione e risposta del 24 dicembre 2013 depositata nel giudizio di appello, instaurato dall’avvocato G. per la impugnazione di una sentenza del Giudice di pace di Treviso. I convenuti avrebbero affermato che la professionista aveva utilizzato indebitamente un assegno consegnatole dalla P.. L’avvocato Pa.Ma. si costituiva contestando la propria legittimazione passiva e, nel merito, richiedeva il rigetto della domanda e la condanna della collega al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c.;

con sentenza del 4 dicembre 2014, il Tribunale di Treviso rigettava la domanda proposta da G.E. e quella di condanna dell’attrice sensi art. 96 c.p.c.;

avverso tale decisione proponeva impugnazione G.E. e si costituivano con separati atti, P.V. e Pa.Ma. chiedendo il rigetto della impugnazione;

la Corte d’Appello di Venezia, con sentenza del 29 giugno 2018, accoglieva il motivo di appello relativo alla quantificazione dei compensi liquidati in primo grado e alle spese pertanto, in parziale riforma della decisione impugnata, rideterminava l’importo delle spese di lite di primo grado dovute dall’avvocato G. a ciascuno degli appellati e compensava, per 1/3, quelle del giudizio di appello;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione G.E. affidandosi a otto motivi. Resiste con controricorso Pa.Ma..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ai sensi dell’art. 112 c.p.c., l’omessa motivazione da parte della Corte territoriale e la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost. e conseguente nullità della sentenza di appello e del procedimento. In particolare, la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunziarsi sul primo, secondo e quarto motivo di appello. Con il primo motivo era stato dedotto il travisamento del fatto da parte del giudice di primo grado, poichè la questione dedotta in giudizio non era costituita semplicemente dalla affermazione di una traditio in veritiera dell’assegno non intestato, ma dalla circostanza che controparte aveva affermato di non poter provare documentalmente la consegna dell’assegno, tramite fattura quietanzata. Con il secondo motivo di appello era stata dedotta la motivazione apparente perchè la valutazione sulla sussistenza di una condotta diffamatoria era fondata solo sul dato fattuale della consegna dell’assegno. Con il quarto motivo era stato evidenziato che il fatto dedotto non poteva essere qualificato come eccezione di avvenuto parziale pagamento, ma come affermazione di un fatto diffamatorio del tutto sganciato dalla controversia;

con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione l’art. 89 c.p.c., comma 2 e art. 39 c.p.c., in tema di continenza, oltre che dell’art. 112 c.p.c.. Con il secondo motivo di appello era stato evidenziato che il Tribunale aveva indebitamente pronunziato sulla domanda di cancellazione di espressioni offensive, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., proposta in un separato giudizio. Tale circostanza, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, costituiva un fatto rilevante, oltre che per le spese anche perchè già davanti al primo giudice era stato chiesto di dichiarare la continenza di quella causa, rispetto alla istanza proposta nell’altro procedimento (quello NRG 7318 del 2013);

con il terzo motivo si deduce la violazione l’art. 89 c.p.c., ritenendo non pertinente la giurisprudenza richiamata dalla Corte ai fini della valutazione della natura diffamatoria delle dichiarazioni, in quanto riferita all’art. 89 c.p.c., disposizione non dedotta dalla odierna ricorrente;

con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 101 Cost. e dell’art. 88c.p.c. e artt. 9 e 50 del codice deontologico forense. Non si condivide la valutazione espressa dal giudice di appello che ha escluso l’intento diffamatorio ritenendo che quelle frasi erano state espresse in un atto difensivo che aveva attinenza con l’oggetto della controversia. Al contrario, secondo la ricorrente, l’uso di espressioni false e offensive costituiva, comunque, una condotta illecita risarcibile;

con il quinto motivo si lamenta la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. e artt. 595 e 51 c.p.. La Corte non avrebbe assecondato l’orientamento costante della giurisprudenza che esclude la diffamazione solo quando vengono rispettati i limiti di verità, continenza e pertinenza, che nel caso di specie non sarebbero stati osservati;

con il sesto motivo si deduce la violazione delle medesime disposizioni di legge oggetto del precedente motivo, non ricorrendo la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa nell’ipotesi di reato di diffamazione, aggravato dall’attribuzione di un fatto determinato. La presunta consegna dell’assegno in favore dell’avvocato G. sarebbe avulsa dall’oggetto della lite e non vi era necessità di menzionare tale circostanza nello scritto di appello in quanto, in secondo grado, non era possibile introdurre elementi di novità, per il divieto previsto all’art. 345 c.p.c.;

con il settimo motivo si lamenta la violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, per la mancata concessione dei termini per la appendice scritta della trattazione e conseguente nullità della sentenza e del procedimento. Il primo giudice aveva ritenuto la causa di pronta spedizione rigettando, implicitamente, l’istanza di concessione di termini per il deposito delle tre memorie previste dalla norma citata. La ricorrente aveva interesse a formulare la richiesta per ammettere la prova per testi contraria e disporre consulenza grafica sulla dicitura “pagato”, presente sulla fotocopia dell’assegno;

con l’ottavo motivo si deduce la violazione l’art. 92 c.p.c., conseguente alla mancata compensazione delle spese in considerazione della reciproca soccombenza determinata dal rigetto della domanda per lite temeraria formulata da controparte sensi dell’art. 96 c.p.c.;

il ricorso presenta una pluralità di profili di inammissibilità che riguardano buona parte delle censure;

in primo luogo nessuno dei motivi individua l’ipotesi tassativa tra quelle previste all’art. 360 c.p.c., alla quale la ricorrente, di volta in volta, intende riferirsi;

in secondo luogo, per buona parte dei motivi, si tratta di una mera riproposizione delle censure già sollevata, in sede di gravame, davanti alla Corte d’Appello di Venezia senza confrontarsi con la decisione impugnata. Sotto tale profilo la ricorrente omette di precisare i passaggi logici che integrerebbero le doglianze formulate, svolgendo una impugnazione che tende ad un ulteriore e inammissibile giudizio di merito;

in terzo luogo, non avendo la ricorrente individuato il tassativo vizio fatto valere nei motivi, poichè la decisione di secondo grado ha confermato interamente le statuizioni del primo giudice, sulla base dei medesimi fatti, risultano inammissibili tutte le censure che riguardano la omessa considerazione di un fatto decisivo, in quanto riferibili all’ipotesi prevista all’art. 360 c.p.c., n. 5, non consentita dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5. Questo riguarda, in particolare, il primo motivo nella parte in cui, sotto l’apparente formulazione di una omessa pronunzia, in realtà si lamenta la mancata considerazione della parte di affermazione incriminata con la quale si sosteneva di “non poter provare documentalmente tramite fattura quietanzata la consegna dell’assegno”. Analoghe considerazioni riguardano il profilo fattuale dell’avvenuto parziale pagamento;

buona parte delle censure sono dedotte in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, poichè vengono prospettate in termini di omessa pronunzia o mancata considerazione delle argomentazioni svolte con i singoli motivi di appello, senza trascrivere compiutamente e allegare lo specifico motivo di gravame rispetto al quale si lamenta la mancata considerazione;

nello specifico, il primo motivo è inammissibile perchè dedotto in violazione l’art. 366 c.p.c., n. 6, riguardo alla circostanza di avere sottoposto al giudice di appello, con il primo, secondo e quarto motivo di appello, la questione relativa alla rilevanza, ai fini della natura diffamatoria dell’affermazione, della dichiarazione dei controricorrenti riguardo ad una “inveritiera traditio”, ma anche e soprattutto che la “controparte aveva affermato di non poter provare documentalmente, tramite fattura quietanzata, la consegna dell’assegno”. Secondo costante giurisprudenza il ricorrente che deduca la mancata considerazione di documenti o atti processuali ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U., Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Principio ribadito da ultimo dalle Sezioni Unite secondo cui sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Sez. U., Sentenza n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488-01);

Di questi tre oneri, la ricorrente ha assolto solo il terzo;

a prescindere da ciò non ricorre violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato poichè la doglianza non si riferisce a statuizioni che hanno travalicato il petitum e la causa pretendi, ma alla mancata considerazione di alcune argomentazioni che, secondo la tesi della ricorrente, avrebbero potuto corroborare la pretesa. Nel caso di specie la Corte territoriale, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che non integrasse l’ipotesi diffamatoria, la dichiarazione funzionale alla difesa tecnica e tale argomentazione è stata ritenuta assorbente rispetto alle altre questioni di contorno;

il secondo e terzo motivo vanno trattati congiuntamente perchè entrambi riferiti alla violazione l’art. 89 c.p.c. e sono inammissibili, anche per difetto di interesse. In primo luogo, la censura relativa alla cancellazione di frasi offensive non può formare oggetto di impugnazione, trattandosi di esercizio del potere discrezionale del giudice di merito, che può disporla anche d’ufficio, rispetto alla quale l’istanza di cancellazione rappresenta una sollecitazione all’esercizio del potere discrezionale (Cass. n. 23903 del 23 novembre 2016). Sotto altro profilo la censura non individua un interesse apprezzabile della ricorrente giacchè la questione relativa alle spese è stata oggetto della pronunzia della Corte territoriale che ha parzialmente accolto l’appello della odierna ricorrente e la questione relativa alla continenza è irrilevante;

il quarto, quinto e sesto motivo vanno esaminati congiuntamente, perchè riguardano la violazione delle norme codicistiche, civili e penali, che qualificano le condotte lesive dell’onore e del decoro. Le censure sono inammissibili, poichè non colgono la ratio decidendi che è quella connessa alla valutazione, ragionevolmente espressa dai giudici di merito, sul profilo funzionale tra le espressioni ritenute sconvenienti e la materia controversa, con esclusione delle ipotesi, invece risarcibili, di frasi sconvenienti e offensive del tutto avulse dall’oggetto della lite. Le doglianze, al contrario, riguardano la prospettazione di una diversa interpretazione giuridica, ancorata ai profili penalistici dell’esercizio del diritto di cronaca. Infine, con riferimento specifico al quarto motivo, il tema della illiceità delle frasi offensive, da valutare indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti del reato di diffamazione avrebbe potuto avere rilievo solo nell’ipotesi in cui la ricorrente avesse dimostrato di avere proposto la domanda originaria, anche sensi dell’art. 2043 c.c.. Ma tale questione non è neppure dedotta e, comunque, difetta di autosufficienza;

il settimo motivo è inammissibile perchè non si confronta con la motivazione adottata dal giudice di appello riguardo all’applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, con richiamo della giurisprudenza di legittimità in materia. Rispetto a tale ricostruzione giuridica dell’istituto, la ricorrente non svolge contestazioni e non evidenzia sotto quale profilo la norma sarebbe stata violata, limitandosi a prospettare una esegesi alternativa della disposizione codicistica, ancorata ad una potenziale utilità della concessione del termine, al fine di formulare richieste di prova costituenda e consulenza, nell’ambito di un giudizio chiaramente documentale e senza dedurre, nel rispetto dell’art. 366, n. 6, in quale fase del giudizio sarebbe sorta la questione relativa alla genuinità della dichiarazione di pagamento apposta sull’assegno;

l’ottavo motivo è infondato. Rispetto alla argomentazione della Corte di merito, che richiama l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, la ricorrente si limita a riproporre la questione infondata della presunta soccombenza virtuale fondata sul rigetto della richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., formulata dalla controparte;

ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in Euro 2.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2021

 

 

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