Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1216 del 21/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/01/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 21/01/2020), n.1216

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21992/2013 R.G. proposto da:

C. IMPIANTI DI C.A. E I. SNC, C.I.,

C.A., rappresentati e difesi dall’avv. Anna Ferraris,

elettivamente domiciliati in Roma, presso la Cancelleria della

Suprema Corte di Cassazione.

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 50, n. 62/50/12013, pronunciata l’8/03/2013,

depositata il 18/03/2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 novembre 2019

dal Consigliere Riccardo Guida;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Tommaso Basile che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito l’avv. Marcella Zappia su delega dell’avv. Anna Ferraris;

udito l’avv. Giammario Rocchitta per l’Avvocatura Generale dello

Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C. Impianti di C.A. e I. Snc e i soci C.A. e C.I. impugnarono, innanzi alla commissione tributaria provinciale di (OMISSIS), gli avvisi di accertamento che recuperavano a tassazione IRAP e IVA, nei confronti della società, e IRPEF, nei confronti dei soci, per trasparenza, per i periodi d’imposta 2005, 2006, redditi non dichiarati.

La CTP di Varese rigettò i ricorsi e tale decisione è stata confermata dalla CTR, con la sentenza menzionata in epigrafe, la quale ha premesso che gli atti impositivi, nei confronti della società e dei soci, sono scaturiti dall’apparente antieconomicità della gestione, dalle discordanze tra i valori dichiarati nello studio di settore e quelli indicati nelle risposte al questionario inviato alla società (con riferimento alle rimanenze di magazzino e al costo per lavoro dipendente), con conseguente rideterminazione del maggiore reddito, mediante l’applicazione al venduto del ricarico previsto dall’apposito studio di settore.

Il giudice d’appello, inoltre, ha dato atto che solo la società e C.A. avevano impugnato la pronuncia di primo grado, mentre C.I. aveva aderito al condono, donde l’estinzione del giudizio che la riguardava.

La CTR ha affermato che: (a) erano privi di pregio i rilievi dei contribuenti sugli studi di settore, in quanto l’accertamento era stato effettuato secondo il metodo induttivo e non mediante l’applicazione degli studi di settore; (b) l’organo di controllo aveva desunto i maggiori ricavi (quantificati in modo corretto, nel rispetto delle norme e della prassi contabile) da dati certi, precisi e concordanti, in ragione della difformità tra i valori dichiarati e quelli risultanti dalla documentazione presentata all’ufficio in risposta al questionario; (c) anche il reddito dichiarato dai soci, pressochè esclusivamente derivante dalla partecipazione alla società, non era congruo rispetto al loro tenore di vita.

I contribuenti ricorrono per la cassazione, sulla base di sei motivi; l’Agenzia resiste con controricorso; all’odierna udienza la difesa dei ricorrenti ha depositato alcuni documenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

a. Preliminarmente va dichiarato il difetto di legittimazione attiva di C.I. (in proprio), la quale, in base a quanto afferma la sentenza impugnata (cfr. pag. 3), non aveva appellato la pronuncia di primo grado, avendo definito la propria posizione mediante un condono.

La legittimazione al ricorso per cassazione, o all’impugnazione in genere, spetta, fatta eccezione per l’opposizione di terzo, solo a chi abbia formalmente assunto la qualità di parte (non rileva se presente o contumace, originaria o intervenuta) nel precedente grado di giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, indipendentemente dall’effettiva titolarità del rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, poichè con l’impugnazione non si esercita un’azione ma un potere processuale che può essere riconosciuto solo a chi abbia partecipato al precedente grado di giudizio (Cass. 11/09/2015, n. 17974; conf.: 23/03/2017, n. 7467).

Sicchè l’esame dei motivi d’impugnazione va riferito esclusivamente al ricorso della società e del socio C.A..

b. Sempre in via preliminare, è inammissibile la succitata produzione documentale, della difesa dei ricorrenti, poichè, come già affermato da questa Corte (Cass. 12/11/2018, n. 28999): “Nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di atti e documenti che non siano stati prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero concernano nullità inficianti direttamente la decisione impugnata, nel qual caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., rimanendo inammissibile la loro produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 c.p.c.”.

1. Con il primo motivo del ricorso (A) nullità della sentenza per violazione delle regole del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata, che richiama la sentenza n. 71/06/2011, che essi assumono essere una sentenza della commissione tributaria provinciale di Milano e non la sentenza della commissione tributaria provinciale di Varese, oggetto d’appello.

1.1. Il motivo è infondato.

L’errore materiale nell’indicazione, nella parte narrativa della sentenza d’appello, del giudice che ha emesso la sentenza di primo grado, impugnata (nel caso di specie, nel testo della sentenza si indica la “sentenza n. 71/06/11 della CTP di Milano”, anzichè la sentenza, avente lo stesso numero, emessa dalla CTP di Varese, correttamente menzionata nell’epigrafe della decisione della commissione regionale), non è motivo di nullità della sentenza, ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ma integra un mero lapsus calami, emendabile, su ricorso della parte interessata, con il procedimento di correzione (art. 288 c.p.c.).

2. Con il secondo motivo (B) Nullità della sentenza per falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere qualificato l’accertamento come accertamento induttivo e per averlo erroneamente sussunto sotto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), anzichè sotto il medesimo art., comma 2.

2.1. Il motivo è infondato.

In base al saldo indirizzo della Corte, ribadito anche di recente (Cass. 8/03/2019, n. 6861): “il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo cd. analitico extracontabile (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e l’accertamento condotto con metodo induttivo puro (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, ed D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 2, in materia di imposte indirette) va ricercato rispettivamente nella “parziale od assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da (…) consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore solo a “completare” le lacune riscontrate utilizzando ai fini della dimostrazione della esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati ovvero della inesistenza di componenti negativi dichiarati anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.. Nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” risultano tali da inficiare la attendibilità – e dunque la utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli “altri” dati contabili, con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio o delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c., (…). Da quanto detto consegue che l’eventuale errore commesso dal Giudice di merito nel “qualificare” il tipo di accertamento svolto in concreto dalla Amministrazione finanziaria, non rileva mai “ex se” (sotto il profilo della violazione o falsa applicazione della norma descrittiva degli elementi costitutivi della fattispecie attributiva del potere amministrativo – e dunque in relazione al parametro della violazione di norma di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ma si risolve sempre o in un errore attinente all’attività processuale, censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (nel caso in cui venga prospettata la illegittima acquisizione di elementi di prova in violazione dei limiti alla ammissibilità delle prove stabiliti dalle norme processuali tributarie) o in un errore di fatto concernente la selezione e la valutazione del materiale probatorio utilizzato a fondamento della decisione e si risolve in un vizio della motivazione censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass. n. 17952 del 24/7/2013).”.

Nella fattispecie concreta, laddove la commissione regionale afferma che l’azione accertatrice dell’ufficio si è svolta secondo il metodo induttivo (recte: “analitico-induttivo”), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, anzichè secondo il metodo “induttivo puro”, non è ravvisabile alcuna violazione di legge, in quanto il giudice di merito può dare una diversa qualificazione giuridica al rapporto oggetto della controversia, senza con ciò incidere, sotto alcun profilo, sugli elementi costitutivi della pretesa fiscale e sugli elementi di fatto su cui poggia il presupposto impositivo.

3. Con il terzo motivo (1) Nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per falsa applicazione delle norme di diritto), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non avere illustrato le ragioni per le quali aveva ritenuto che l’accertamento dell’organo di controllo si reggesse su presunzioni gravi, precise e concordanti.

3.1. Il motivo è inammissibile.

La censura è priva della necessaria menzione della norma di diritto che si assume che la sentenza impugnata abbia falsamente applicato, il che non consente alla Corte di compiere il controllo di legalità della decisione impugnata, genericamente sollecitato dai ricorrenti.

4. Con il quarto motivo (2) Nullità della sentenza per omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, – nonchè nullità della sentenza per omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), i ricorrenti censurano la sentenza per la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 3, in quanto essa non permette di individuare in modo preciso le richieste formulate dagli appellanti e gli argomenti che le sorreggevano.

4.1. Il motivo è infondato.

Il petitum dell’atto d’appello è indicato con chiarezza dalla commissione regionale che, per quanto adesso rileva, testualmente afferma (cfr. pag. 3): “la società e il sig. C. ricorrono in appello criticando la sentenza e riproponendo le eccezioni già esposte in primo grado e chiedendo la riforma della sentenza appellata.”.

5. Con il quinto motivo (3) Nullità della sentenza per omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, – nonchè nullità della sentenza per omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per essere disancorata dai riscontri fattuali e processuali e per avere erroneamente affermato che i contribuenti avevano eccepito che l’accertamento era fondato sugli studi di settore.

Al riguardo, assumono che, poichè la società teneva regolarmente le scritture contabili, le mere irregolarità nella compilazione dello studio di settore – ferma l’irrilevanza di altri errori marginali commessi dalla Snc (come quello riguardante l’indicazione del costo del personale dipendente al netto del costo degli apprendisti) – non potevano costituire elementi idonei a corroborare un ragionamento presuntivo, non essendo essi “fatti noti” da cui trarre il “fatto ignoto”.

Sostengono, infine, che lo scostamento del 9% tra ricavi dichiarati e ricavi accertati non era un elemento sufficiente al fine di affermare l’inattendibilità dei primi.

5.1. Il motivo, nella sua duplice articolazione, è in parte infondato e in parte inammissibile.

Dal primo punto di vista (infondatezza del motivo), diversamente da quanto prospettano i ricorrenti, non sussiste il vizio di nullità della sentenza, per “omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,” poichè, come accennato nella sintesi dei fatti di causa, la commissione regionale ha spiegato, seppure in modo conciso, le ragioni del proprio convincimento.

Sotto altro aspetto (inammissibilità del motivo), i ricorrenti non hanno indicato il fatto storico-naturalistico, il cui omesso esame avrebbe inciso sul ragionamento della commissione regionale, privandolo della necessaria coerenza logica; in sostanza, essi chiedono alla Corte di avallare la loro ricostruzione della vicenda tributaria, già vagliata nei gradi di merito.

Del pari inammissibile, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 6, è la censura sull’irrilevanza dello scostamento del 9%, tra ricavi dichiarati e ricavi accertati dall’organo di controllo, sia in quanto i ricorrenti non indicano esattamente, ai fini dell’autosufficienza del motivo, in quale fascicolo si trovi l’atto impositivo che avrebbe accertato tale scostamento, in quale fase processuale sia stato depositato e nemmeno ne trascrivono o ne riassumono il contenuto all’interno del ricorso per cassazione (Cass. sez. un. 3/11/2011, n. 22726);

6. Con il sesto motivo (4) Nullità della sentenza art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto), i ricorrenti censurano il ragionamento della CTR per essere erroneamente basato sugli studi di settore e su un accertamento induttivo, sprovvisto dei requisiti di legge ai fini dell’applicabilità al caso concreto; in ultima analisi, criticano la sentenza perchè priva di motivazione.

6.1. Il motivo è inammissibile.

Va premesso che la commissione regionale, nella sua stringata motivazione, parla espressamente di accertamento con metodo induttivo, in applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2.

Più in generale, il significato letterale della doglianza, nel suo complesso, non è agevolmente comprensibile; essa, inoltre, non individua la ratio decidendi della sentenza impugnata che, come suaccennato, ha escluso che l’azione accertatrice fosse fondata sul mero scostamento tra il reddito dichiarato e quello risultante dall’apposito studio di settore, e ha evinto l’incongruenza del reddito dichiarato da una serie di elementi, tra i quali le discordanze tra i valori dichiarati (dalla società) nello studio di settore e quelli che essa aveva indicato, in sede endoprocedimentale, in risposta al questionario.

7. Ne consegue il rigetto del ricorso.

8. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte dichiara il difetto di legittimazione attiva di C.I.; per il resto, rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.300,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

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