Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12159 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. I, 22/06/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 22/06/2020), n.12159

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. MACRI’ Ubalda – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27905/2018 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in Trento, alla via

Calepina, n. 75, presso lo studio dell’avv. Sabrina Zullo, che lo

rappresenta e difende in virtù di nomina e procura speciale in

atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO rappresentato e difeso dall’Avvocatura

generale stato;

– resistente con atto di costituzione –

avverso il decreto n. 799/2018 del Tribunale di Trento depositato il

30/8/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/11/2019 dal Consigliere relatore MACRI’ Ubalda.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Trento ha rigettato la domanda del ricorrente di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Verona in data 5 settembre 2017, che aveva ritenuto la storia narrata dal M. priva di coerenza e credibilità, ricca di contraddizioni interne, anche con riferimento al profilo temporale, e relativa ad una vicenda privata.

Il Tribunale ha osservato che, pur ad assumere la veridicità della narrazione, difettava il requisito dell’attualità del pericolo di persecuzione. Inspiegabilmente, giunto in Italia il 30 gennaio 2016, non aveva chiesto subito il riconoscimento della protezione internazionale. Inoltre non era emerso un pericolo concreto ed attuale per la sua incolumità, perchè il timore era stato espresso in termini vaghi: nell’interrogatorio aveva affermato di essere venuto in Italia perchè gli piaceva, aggiungendo tuttavia che, se fosse tornato in Senegal, avrebbe avuto problemi con il padre ed altri abitanti del villaggio.

Il Tribunale ha pertanto escluso il riconoscimento dello status di rifugiato.

Ha escluso altresì il diritto alla protezione sussidiaria, poichè l’area del Senegal, da cui proveniva, non era interessata da conflitti armati, da violenza indiscriminata o da instabilità politiche ed il paventato pericolo per l’incolumità personale era stato rappresentato in modo generico; d’altra parte, il ricorrente aveva dichiarato che la moglie ed i cinque figli abitavano in Senegal e non avevano subito minacce.

Ha escluso infine il diritto alla protezione umanitaria, in assenza di dimostrazione dei requisiti di legge, tra cui il radicamento sul territorio italiano, ed in presenza invece di elementi di segno contrario, come ad esempio la residenza dei suoi familiari in Senegal.

Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Trento sulla base di quattro motivi.

Il Ministero dell’Interno non si è costituito, ma ha chiesto di partecipare all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. d) ed e), e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. d), nonchè l’omesso esame di un punto decisivo della controversia.

Ritiene fondato il timore della persecuzione, in caso di rientro in patria, perchè era stato picchiato e ripetutamente minacciato di morte per aver denunciato il padre che aveva praticato la mutilazione dei genitali femminili alla sorellastra. Aggiunge che era attivo in una organizzazione non governativa, (OMISSIS), che contrastava le mutilazione dei genitali femminili e che in Senegal non era garantito un giusto processo a causa della dilagante corruzione. Lamenta che il Tribunale non aveva considerato che i villaggi erano governati da famiglie ricche in accordo con le milizie armate. Se fosse rimasto in Senegal sarebbe stato perseguitato e non avrebbe potuto difendersi per la corruzione della polizia locale.

Il motivo è inammissibile.

D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e), definisce rifugiato il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale Paese, oppure, se apolide, che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni suindicate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, art. 2, comma 1, lett. d) ed e), replica le medesime disposizioni per l’ipotesi di non appartenenza dello straniero ad un Paese membro dell’Unione Europea. Il rifugiato politico, poi, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951, ratificata in Italia con la L. 24 luglio 1954, n. 722, ed ai sensi della direttiva 2005/85/CE, attuata con il D.Lgs. n. 25 del 2008, è colui che non può o non vuole far ritorno nel Paese in cui ha avuto in precedenza la dimora abituale, per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta. Pertanto, la situazione socio-politica e normativa del Paese di provenienza rileva solo se si correla alla specifica posizione del richiedente e, più nello specifico, al fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica.

Il Tribunale ha fatto buon governo dei principi di diritto affermati in plurime occasioni da questa Corte.

Innanzi tutto, ha motivatamente ritenuto non credibile il racconto del ricorrente condividendo il giudizio della Commissione territoriale.

Gli argomenti spesi a sostegno di tale conclusione, relativi alle incoerenze e contraddizioni del narrato, nonchè all’elemento di sospetto costituito dalla non immediata presentazione della domanda di protezione internazionale, dopo essere arrivato in Italia nel gennaio 2016, non sono stati specificamente contestati dal ricorrente che, peraltro, non ha censurato neppure le ulteriori e sovrabbondanti ragioni di diniego della protezione internazionale.

In particolare, il Tribunale ha evidenziato che l’istante aveva riferito di essere stato costretto a lasciare il Senegal a causa di una vicenda privata derivante dalla denuncia del padre che aveva praticato la mutilazione dei genitali della sorellastra. Tuttavia aveva chiarito che non aveva subito alcuna tortura o forma di pena o trattamento inumano o degradante, di non aver mai fatto parte o svolto attività per partiti, movimenti o associazioni politiche e di non voler ritornare in Senegal per paura del padre. Nel contempo aveva altresì dichiarato che la moglie ed i cinque figli si erano trasferiti in un villaggio vicino e non erano stati disturbati o minacciati.

E’ consolidato l’orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo cui la vicenda privata è estranea al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello “status” di rifugiato, nè nei casi di protezione sussidiaria (tra le più recenti, Cass., Sez. 6-1, n. 9043 del 01/04/2019, Rv. 653794). Dal racconto non sono emersi elementi di persecuzione o danno grave nei suoi confronti perpetrati da soggetti pubblici o privati con influenza politica sul territorio, per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale ed opinione politica (Cass., Sez. 1, n. 30105 del 28/11/2018, Rv. 653226-02). La prospettazione dell’appartenenza ad un’organizzazione attiva contro le mutilazioni degli organi genitali femminili nonchè della corruzione della polizia è rimasta vaga, non essendo chiara l’influenza della prima ed essendo incoerente la seconda rispetto al restante racconto, secondo cui il padre era stato arrestato e poi liberato, perchè egli stesso aveva ritirato la denuncia su pressione di altri abitanti del villaggio.

Con il secondo motivo eccepisce la violazione ed errata interpretazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h), conformemente al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g). Precisa che non poteva tornare nella propria regione, a causa delle minacce e violenze subite dal padre a cui la polizia non aveva potuto far fronte. Dai rapporti delle organizzazioni non governative, tra cui in particolare Amnesty International, erano emersi numerosi casi di tortura e maltrattamenti da parte della polizia. I cittadini non potevano esprimere liberamente la propria opinione, se discordante con le credenze popolari seguite dai membri del villaggio.

Anche questa doglianza è del tutto inconsistente, perchè il ricorrente non ha indicato alcun concreto elemento per agganciare la situazione politica generale del Senegal, peraltro non conflittuale e non instabile nell’area d’interesse, alla vicenda personale specifica, che è stata tutta ricostruita in termini di contrasto con il padre, sia pure per un tema di rilievo socio-politico generale.

Decisiva poi la circostanza che la moglie ed i figli non hanno subito ripercussioni dalla lite dopo il trasferimento nel villaggio vicino, ulteriore indizio della limitata valenza del fatto.

Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa interpretazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 10 Cost., comma 3, poichè era ben inserito nella società italiana, a seguito dello svolgimento di un’attività lavorativa e di formazione lavoro.

Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, secondo la disciplina del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, applicabile ratione temporis, secondo quanto stabilito da Cass., Sez. U, n. 29459 del 13/11/2019, la domanda essendo stata proposta prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 conv. con modifiche nella L. n. 132 del 2018, costituisce una misura atipica e residuale che ricomprende situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti di una tutela tipica, quale lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità (Cass., Sez. 1, n. 13096 del 15/05/2019). Ai fini del riconoscimento del permesso è però necessario operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente, raffrontando le condizioni nel Paese d’origine con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (Cass., Sez. U, n. 29459 del 13/11/2019).

Nella specie, il Tribunale ha motivatamente escluso, con accertamento di fatto non sindacabile nel giudizio di legittimità, l’inserimento del ricorrente sul territorio italiano, avuto riguardo alla circostanza che la famiglia risiedeva in Senegal e non risultava avere problemi.

Nel ricorso non si censura specificamente questo punto della motivazione e si adombra l’esercizio di un’attività lavorativa, non meglio dettagliata. Inoltre, non si indicano elementi significativi per apprezzare la concreta ed effettiva vulnerabilità del ricorrente.

Con il quarto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, poichè aveva assolto all’onere probatorio a suo carico, secondo quanto previsto dalla giurisprudenza.

Il motivo è manifestamente infondato, perchè si risolve in una doglianza di stile a fronte di una motivazione solida ed accurata che ha apprezzato tutti gli elementi emersi dalle stesse dichiarazioni del ricorrente e dalle fonti ufficiali in ordine alle condizioni di vita in Senegal.

In conclusione, il ricorso è inammissibile. Nulla per le spese, siccome l’intimato non ha svolto attività difensiva. Sussistono invece, nella specie, i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Ciò si deve fare a prescindere dal riscontro dell’eventuale provvedimento di ammissione provvisoria del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, poichè la norma esige dal giudice unicamente l’attestazione dell’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di reiezione integrale dell’impugnazione, anche incidentale, competendo poi in via esclusiva all’Amministrazione di valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, vi sia in concreto, per la presenza di fattori soggettivi, la possibilità di esigere la doppia contribuzione (Cass. n. 9661/2019, la cui articolata motivazione si richiama).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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