Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12158 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. I, 22/06/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 22/06/2020), n.12158

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina A. R. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32796/2018 proposto da:

I.N., elettivamente domiciliato in Udine, Via Giusto Muratti,

n. 64, presso lo studio dell’avv. Martino Benzoni, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv.

generale dello Stato;

– resistete con atto di costituz. –

avverso il decreto del Tribunale di Trieste, depositato l’8/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/11/2019 dal Cons. PACILLI GIUSEPPINA ANNA ROSARIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto dell’8 ottobre 2018, il Tribunale di Trieste ha rigettato la domanda proposta da I.N., nativo del Pakistan, volta al riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria.

In estrema sintesi, il Tribunale anzidetto ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria nonchè di quella umanitaria.

Avverso il descritto decreto il richiedente propone ricorso per cassazione, affidandosi a cinque motivi, e deposita memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1.

Il Ministero dell’Interno non si è costituito con rituale controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, l’erronea e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 8, censurando il decreto impugnato sull’assunto che la Commissione territoriale non avrebbe prodotto nel giudizio dinanzi al Tribunale alcuni documenti, formati o acquisiti nel corso del procedimento amministrativo, così minando il diritto di difesa del ricorrente, soprattutto al fine del giudizio di credibilità.

Il motivo è inammissibile per la sua novità, concernendo una questione di cui non v’è traccia nel provvedimento impugnato e il ricorrente non ha indicato nemmeno di avere sollevato la doglianza dinanzi al giudice di merito.

Trova applicazione, quindi, il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nel provvedimento impugnato, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).

2) Il secondo motivo denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, l’erronea e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9, censurando il decreto impugnato poichè il giudice di merito si sarebbe limitato ad acquisire informazioni generiche, non attuali e non attinenti alla regione di provenienza del ricorrente, ossia il Sindh, ma relative al Punjab.

La censura è inammissibile.

Essa, difatti, mira a ribaltare la valutazione di merito compiuta dal Tribunale, il quale, avvalendosi del rapporto EASO 2017, ha escluso che nella zona di provenienza del ricorrente fosse in atto una situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato.

Deve aggiungersi che il rilevo sulla provenienza del ricorrente, ossia il S. anzichè il Punjab, è un elemento di novità, in relazione al quale il ricorrente non ha indicato l’atto in cui esso sarebbe venuto in evidenza. Ad ogni modo, giova rilevare che nella motivazione della sentenza si fa riferimento anche al S. come zona non connotata da una situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato in atto.

3) Il terzo motivo denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, l’erronea e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, sul rilievo che il Tribunale non avrebbe esaminato la situazione personale del ricorrente e non avrebbe valutato la credibilità di quest’ultimo sulla base dell’insieme delle prove disponibili, ossia quelle presentate dal richiedente e quelle raccolte con i propri mezzi dall’autorità accertante.

La censura è, in parte, inammissibile e, in parte, manifestamente infondata.

Il Tribunale di Trieste ha ritenuto che la vicenda, narrata dal ricorrente, secondo cui egli si sarebbe allontanato dal suo paese perchè perseguitato da membri del partito ANP e MQM, fosse totalmente priva di attendibilità ed inverosimile. Il medesimo Tribunale ha rimarcato che “il ricorrente era venuto meno agli oneri di circostanziare la domanda, di produrre gli elementi pertinenti, di fornire idonea motivazione, coerente, plausibile e riscontrata D.Lgs. n. 252 del 2007, ex art. 3, comma 5”.

Siffatto vaglio negativo della credibilità del richiedente è stato espresso in maniera del tutto conforme ai parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Si tratta, quindi, di un accertamento di fatto, che, come già puntualizzato da questa Corte (cfr. Cass. n. 387 del 2019, in motivazione; Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 4455 del 2018, parag. 7; Cass. n. 27438 del 2016; Cass. n. 21668 del 2015), non può essere in questa sede messo in discussione, se non denunciando, ove ne ricorrano i presupposti, il vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, che, nella specie, nonostante il richiamo della norma, non è stato di fatto dedotto.

Ciò posto, deve rilevarsi che questa Corte ha più volte affermato che la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli di ufficio (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336; 28 settembre 2015, n. 19197).

L’art. 3 citato, infatti, stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”. Il richiedente, quindi, non gode di alcuna agevolazione rispetto alle regole ordinarie del giudizio civile, tale da giustificare un quadro assertivo non adeguatamente circostanziato.

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti e con peculiari agevolazioni. Si è in particolare affermato (Cass., 12 giugno 2019 n. 15794) che, in linea di principio, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, è governato dalle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1, con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non è provata, la domanda è da rigettare.

Se il richiedente, però, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, non è in grado di offrire la prova delle circostanze allegate, il principio dispositivo è attenuato e sorge il dovere c.d. di cooperazione istruttoria. Stabilisce, difatti, il comma 5 del menzionato art. 3, che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove (prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato), essi sono considerati veritieri, ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda:

1) abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

2) abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche, pertinenti al suo caso, e risulti, in generale credibile.

Il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova, quindi, “per espressa previsione normativa, un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili” (in questi termini Cass. n. 15794/2019 cit.).

Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che, nel caso in esame, all’esito del vaglio di credibilità, condotto alla stregua del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, il racconto del richiedente è stato considerato dal giudice di merito inverosimile, con la conseguenza che deve affermarsi che correttamente il Tribunale ha ritenuto che il medesimo richiedente non avesse attivato il dovere di cooperazione istruttoria.

4) Il quarto motivo denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e 4, l’erronea e la falsa applicazione dell’art. 16 della direttiva 32/2013/UE, sull’assunto dell’illegittima violazione del diritto del richiedente ad una valutazione imparziale della propria domanda nonchè al pieno contraddittorio. In particolare, l’autorità giudicante avrebbe adottato un atteggiamento inquisitorio ed avrebbe a sorpresa giudicato inattendibili le dichiarazioni del richiedente, senza sollevare però alcun dubbio nel corso delle sue audizioni e dare la possibilità di colmare lacune o risolvere eventuali dubbi.

Siffatta doglianza, oltre che generica, è smentita dalla lettura del decreto impugnato, da cui emerge che il Tribunale ha adeguatamente valutato gli elementi a sua disposizione e ha effettuato il vaglio della credibilità del richiedente nel rispetto dei parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Il racconto del richiedente è stato ritenuto contraddittorio e non plausibile, oltre che privo di elementi di riscontro, e il medesimo Tribunale ha rimarcato, come già ricordato, che “il ricorrente era venuto meno agli oneri di circostanziare la domanda, di produrre gli elementi pertinenti, di fornire idonea motivazione, coerente, plausibile e riscontrata D.Lgs. n. 252 del 2007, ex art. 3, comma 5”.

Conclusione, questa, che costituisce un apprezzamento, che non è stata adeguatamente censurata dal ricorrente ex art. 360 c.p.c., n. 5;

5) Il quinto motivo denuncia l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, applicabile al caso in esame, in quanto il procedimento è relativo a rapporto giuridico sorto anteriormente al 4 ottobre 2018, data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018. Il tribunale si sarebbe limitato ad affermare la mancata allegazione di una documentata situazione di vulnerabilità, senza valutare nemmeno il livello di integrazione del ricorrente.

La doglianza non è consentita.

Il tribunale ha affermato che il ricorrente “non aveva dedotto ragioni umanitarie nè aveva dimostrato la sussistenza di una condizione, deteriore, di inadeguatezza, di precarietà esistenziale o lavorativa nel paese di origine, sicchè va esclusa la concessione del beneficio residuale del permesso umanitario”.

A fronte di siffatte argomentazioni la censura del ricorrente è volta inammissibilmente a rimettere in discussione l’accertamento di merito compiuto dal Tribunale nell’escludere la sussistenza di una condizione di vulnerabilità.

6) In conclusione il ricorso è inammissibile. Non deve essere assunta alcuna statuizione sulle spese processuali, essendosi il Ministero dell’Interno costituito irritualmente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di legittimità.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo, così come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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