Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12155 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. I, 22/06/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 22/06/2020), n.12155

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25938/2018 proposto da:

I.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassiodoro, n.

6, presso lo studio dell’avvocato Maria Rosaria Costa, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Gurrado Vincenzo;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Potenza, depositato il 3/8/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/11/2019 dal Cons. Pacilli Giuseppina Anna Rosaria.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 3 agosto 2018, il Tribunale di Potenza ha respinto la domanda proposta da I.F., nativo della Nigeria, volta al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di quella umanitaria.

Il richiedente aveva riferito di essere fuggito dal paese di origine perchè ricercato da una comunità di persone, impiegate nel settore agricolo, atteso che egli aveva stipulato un contratto con cui aveva autorizzato tale A.N. allo sfruttamento del terreno, solitamente coltivato dalla menzionata comunità.

Il Tribunale di Potenza ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto riguardo alle dichiarazioni rese dallo stesso richiedente e alla situazione generale della Nigeria, rappresentata nel decreto impugnato con indicazione delle fonti di conoscenza.

Avverso il descritto decreto il richiedente ricorre per cassazione, affidandosi a cinque motivi, mentre il Ministero dell’Interno non resiste.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. ed error in procedendo in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere il Tribunale omesso di dare risposta alla doglianza concernente l’irritualità della notifica della decisione della Commissione territoriale, essendo la relata della notifica stata apposta sulla prima pagina della decisione e non sull’ultima, così che sarebbe stata attestata la conformità all’originale della prima pagina e non di tutta la copia dell’atto notificato.

Siffatta censura non è consentita.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che nel giudizio, promosso dall’interessato avverso la decisione di rigetto dell’istanza di riconoscimento della protezione internazionale, resa dalla Commissione territoriale competente, l’invalidità del provvedimento, derivante dall’inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento amministrativo per la concessione del predetto beneficio, non assume un’autonoma rilevanza. Il giudizio in questione, infatti, avente ad oggetto non la legittimità del provvedimento amministrativo, ma l’accertamento del diritto dell’istante alla protezione invocata, non può concludersi con il mero annullamento del diniego della protezione, dovendo pervenire, invece, ad una decisione in ordine alla spettanza del diritto. In tal senso depone, d’altronde, il D.Lgs. 10 settembre 2011, n. 150, art. 19, comma 9, il quale, nell’individuare il contenuto dell’ordinanza, che definisce il giudizio, non fa alcun cenno ad una decisione di annullamento, ma prevede testualmente che l’ordinanza “rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria” (cfr. Cass., Sez. VI, 3 settembre 2014, n 18632; 9 dicembre 2011, n. 26480).

In quest’ottica, la violazione, dedotta dal ricorrente, deve considerarsi sostanzialmente estranea all’oggetto della controversia, con la conseguenza che non può costituire motivo di ricorso per cassazione.

Peraltro, deve rilevarsi che il Tribunale ha dato risposta alle censure sollevate in ordine alla menzionata relata di notifica e ciò conformandosi all’orientamento di legittimità, innanzi ricordato.

2) Con il secondo motivo si denuncia la violazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sul rilievo che il Tribunale di Potenza non avrebbe applicato il principio dell’onere probatorio attenuato, vigente nella materia, ed avrebbe omesso di valutare la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dal citato D.Lgs. art. 3.

Il motivo è manifestamente infondato.

Questa Corte ha più volte affermato che la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli di ufficio (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336; 28 settembre 2015, n. 19197).

L’art. 3 citato, infatti, stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”. Il richiedente, quindi, non gode di alcuna agevolazione rispetto alle regole ordinarie del giudizio civile, tale da giustificare un quadro assertivo non adeguatamente circostanziato.

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti e con peculiari agevolazioni. Si è in particolare affermato (Cass., 12 giugno 2019 n. 1579) che la già citata previsione, che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, rende evidente che, in linea di principio, il giudizio, volto al riconoscimento della protezione internazionale, è governato dalle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1, con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non è provata, la domanda è da rigettare.

Se il richiedente, però, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, non è in grado di offrire la prova delle circostanze allegate, il principio dispositivo è attenuato e sorge il dovere c.d. di cooperazione istruttoria. Stabilisce difatti il comma 5 del menzionato art. 3, che, qualora taluni elementi, posti a sostegno della domanda di protezione internazionale, non siano suffragati da prove (prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato), essi sono considerati veritieri, ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda:

1) abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

2) abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche, pertinenti al suo caso, e risulti in generale credibile.

Il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova, quindi, “per espressa previsione normativa, un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili” (in questi termini Cass. n. 15794/2019 cit.).

Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che, nel caso in esame, il ricorrente, a sostegno della domanda, ha dedotto di essere nato in Nigeria, in un villaggio dell’Edo State; di avere esercitato l’attività di meccanico e di contadino; di essere orfano di entrambi i genitori, persi in un incidente stradale all’età di tre anni; di professare la religione cristiano pentecostale; di essere sposato e di avere quattro figli; di avere lasciato il suo Paese perchè ricercato da una comunità di persone impiegate nel settore agricolo, di cui egli era presidente, avendo egli firmato un contratto con cui aveva autorizzato tale A.N. allo sfruttamento del terreno, che gli appartenenti alla comunità erano soliti coltivare; di temere di essere sequestrato o ucciso dalla comunità in caso di rientro in Patria.

E’ evidente che da tale racconto non si desumono atti di persecuzione legati a motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, sicchè, in difetto di allegazioni sui presupposti richiesti per il riconoscimento in suo favore dello status di rifugiato, non era sussistente il dovere di cooperazione istruttoria e correttamente il giudice di merito ha denegato il riconoscimento dell’anzidetto status.

Inoltre, all’esito del vaglio di credibilità, condotto alla stregua dei criteri indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, il racconto del richiedente è stato considerato dal giudice di merito generico e contraddittorio, con la conseguenza che, anche al fine della disamina sul riconoscimento della protezione sussidiaria, il medesimo richiedente non ha attivato il dovere di cooperazione istruttoria.

Ne discende che il provvedimento impugnato sfugge ad ogni rilievo censorio.

3) Il terzo motivo denuncia violazione del D. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il Tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione sussidiaria.

La censura non è consentita.

Il giudice di merito – con indicazione delle fonti di conoscenza ed idonea motivazione (cfr. pagina 4 del decreto impugnato) – ha esaminato la situazione del Paese di origine del ricorrente e ha escluso una situazione di conflitto armato, a cui astrattamente riconnettere l’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Orbene, questa Corte (cfr., amplius, Cass. n. 32064 del 2018, in motivazione) ha chiarito che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), deve essere interpretata in conformità alla fonte Eurocomunitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi, cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa, di norma non costituiscono, di per sè, una minaccia individuale da definirsi come danno grave (cfr. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE). Ciò in quanto l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solo se il grado di violenza indiscriminata, che caratterizza gli scontri tra le forze governative di uno Stato ed uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, raggiunga un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, rinviato nel paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (cfr., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; Cass. n. 13858 del 2018).

Una specifica situazione di tal tipo, però, è stata esclusa dal Tribunale di Potenza e questo accertamento costituisce un’indagine di fatto che può esser censurata in sede di legittimità nei limiti consentiti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5: il che non è stato effettuato, sicchè l’odierna doglianza deve reputarsi come semplicemente finalizzata a sovvertire l’esito della decisione.

4) Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la sentenza impugnata escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria.

Le deduzioni al riguardo formulate sono del tutte generiche, risolvendosi nel richiamo dei principi enunciati da questa Corte e nella doglianza sull’asserito mancato buon governo di tali principi da parte del Collegio di merito.

5) Con il quinto motivo si censura l’illogicità della motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui avrebbe desunto l’infondatezza della domanda di protezione umanitaria dalla mancata partecipazione del ricorrente all’udienza.

La doglianza trova smentita nella lettura del provvedimento impugnato. Il tribunale di Potenza, infatti, ha rimarcato che la mancata partecipazione del ricorrente all’udienza, fissata per la sua audizione, non aveva consentito di verificare le motivazioni addotte a sostegno del suo allontanamento dal paese di provenienza e deponeva per l’infondatezza della sua domanda.

Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, il tribunale ha valorizzato la mancata partecipazione all’udienza non come circostanza di per sè ostativa all’accoglimento dell’istanza ma come uno degli elementi rilevanti al fine delle valutazioni da compiere e tale apprezzamento, in quanto logico, sfugge ad ogni censura.

6) In conclusione il ricorso è inammissibile. Non deve essere assunta alcuna statuizione sulle spese processuali, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di legittimità.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo, così come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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