Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12144 del 14/06/2016


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Cassazione civile sez. III, 14/06/2016, (ud. 25/02/2016, dep. 14/06/2016), n.12144

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11732/2013 proposto da:

CONSERVE ITALIA COOP AGRICOLA SOCIETA’, in persona del Presidente

del Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante G.

M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO 18,

presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE LENER, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ENRICO CASTELLANI giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L.

BISSOLATI 76, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO SPINELLI

GIORDANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIAMPIERO PALTRINIERI giusta procura speciale a margine del

controricorso;

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

CAMILLUCCIA 145, presso lo studio dell’avvocato EMANUELA PASTORE

STOCCHI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIO STRAZZIARI

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1650/2012 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 28/11/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/02/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato ENRICO CASTELLANI;

udito l’Avvocato GIAMPIERO PALTRINIERI;

udito l’Avvocato LUCIO STRAZZIARI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per la manifesta infondatezza della

questione di legittimità costituzionale nel merito per il rigetto

del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del 23 ottobre-28 novembre 2012 la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello proposto da Conserve Italia Società Cooperativa Agricola avverso sentenza del 17 novembre 2010 con cui il Tribunale di Bologna aveva dichiarato improponibile ai sensi dell’art. 813 ter c.p.c., la domanda di risarcimento di danni avanzata dalla Conserve Italia avverso M.M. e P. M., danni che sarebbero derivati dalla condotta colpevole che i convenuti avrebbero tenuto in una procedura arbitrale di cui una delle parti era Conserve Italia e i suddetti erano rispettivamente presidente e componente del collegio arbitrale.

2. Ha presentato ricorso Conserve Italia, sulla base di due motivi, proponendo altresì una eccezione di illegittimità costituzionale.

Il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione o falsa applicazione dell’articolo 813 ter c.p.c., nonchè, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c.; anche il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c.; in subordine, si chiede di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per illegittimità costituzionale dell’art. 813 ter c.p.c., comma 4, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost..

Si sono difesi, ciascuno con un proprio controricorso, P.M. e M.M., chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in subordine, che sia rigettato.

La ricorrente ha poi depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

I due motivi possono essere valutati congiuntamente, poichè di contenuto omogeneo.

3.1 Va premesso che il giudice di primo grado – davanti al quale Conserve Italia aveva presentato domanda risarcitoria nei confronti di M.M. e P.M. per i danni che avrebbero ad essa cagionati, rispettivamente come presidente e come componente di collegio arbitrale, con condotta colpevole nella gestione di una procedura arbitrale che aveva deciso una controversia tra l’attuale ricorrente e Sirec Engineering S.r.l., condannando la prima a pagare alla seconda la somma di Euro 3.000.000 oltre accessori per risarcimento di “danno materiale attinente alla causata disorganizzazione del ciclo produttivo”, nonchè la somma di 8.560.500 oltre accessori quale “margine lordo valore aggiunto” che la seconda avrebbe percepito dalla regolare esecuzione del contratto illegittimamente risolto dalla prima – ha dichiarato improponibile la domanda ex art. 813 ter c.p.c., comma 4, ritenendo manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale che l’attrice aveva proposto riguardo all’art. 813 ter c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.. E, a fronte di un appello in cui l’attuale ricorrente riproponeva, in sostanza, quanto già addotto dinanzi al primo giudice, inclusa l’eccezione di illegittimità costituzionale, la corte territoriale ha aderito a quanto già ritenuto dal primo giudice, escludendo la configurabilità di qualunque dubbio sulla legittimità costituzionale e rigettando l’appello.

Anzitutto, allora, deve darsi atto che irrilevanti, e quindi non degne di disamina, sono le critiche della ricorrente (presenti nella parte finale del primo motivo oltre che nel secondo motivo) sulla pretesa erroneità dell’interpretazione dell’art. 813 ter, come esternata dalla corte territoriale: si tratta, in effetti, della denuncia di pretesi vizi motivazionali, che, anche se fossero sussistenti, non inficierebbero la sentenza impugnata, qui non trattandosi di questioni di fatto, bensì di una questione di diritto, nella quale può incidere soltanto la conclusiva applicazione (conforme a quella del giudice di prime cure) che il giudice d’appello ha effettuato dell’art. 813 ter – dichiarando improponibile l’azione risarcitoria de qua – e non il percorso attraverso il quale a questo risultato è giunto (cfr. Cass. sez. 3, 14 febbraio 2012 n. 2107, Cass. sez. 5, 2 febbraio 2002 n. 1374;

Cass. sez. 2, 10 maggio 1996 n. 4388; Cass. sez. 1, 14 giugno 1991 n. 6752; Cass. sez. 2, 22 gennaio 1976 n. 199; trattasi di principio generale, relativo anche alla giurisdizione di legittimità in materia penale: cfr. da ultimo Cass. pen. sez. 1, 20 maggio 2015 n. 16372 e Cass. pen. sez. 3, 23 ottobre 2014 – 11 febbraio 2015 n. 6174).

E, d’altronde, ictu oculi nel caso di specie non è sostenibile una violazione dell’art. 132 c.p.c., nel senso che la sentenza impugnata – come lamenta la ricorrente – offra “una sostanziale non motivazione” perchè le sue affermazioni, in quanto contraddittorie, si eliderebbero a vicenda. Una eventuale contraddittorietà intrinseca dell’apparato motivazionale è aliud rispetto all’apparenza di motivazione, la quale non concerne la sua struttura logica, bensì attiene all’assoluta genericità (le c.d. formule di stile) di tutte le argomentazioni motivazionali, non correlate realmente al thema decidendum e quindi tali da integrare un’assenza di motivazione che costituisce, appunto, la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (sulla duplice manifestazione del vizio di omessa motivazione, ovvero come difetto assoluto – carenza materiale – o come motivazione apparente per il suo contenuto globalmente inadeguato per genericità, vizio che consiste comunque nell’omessa esternazione da parte del giudice degli elementi da cui ha tratto il suo convincimento e dell’iter percorso per giungere alla decisione, cfr. Cass. sez. 5, 6 giugno 2012 n. 9113, Cass. sez. 5, 15 gennaio 2009 n. 871, Cass. sez. 2, 10 luglio 2008 n. 19041, Cass. sez. 1, 27 gennaio 2006 n. 1756 e Cass. sez.1, 25 febbraio 1998 n. 2067; in generale sull’omessa motivazione cfr. pure Cass. sez. 5, 15 gennaio 2009 n. 16581).

3.2 Passando dunque alla denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 813 ter c.p.c., è da osservarsi che la ricorrente pone nuovamente la tematica interpretativa che era già stata prospettata ai giudici di merito, i quali, a suo avviso, l’avrebbero erroneamente disattesa.

Riportando il dettato dell’art. 813 ter c.p.c., del secondo e della L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, comma 3, (in quanto richiamati dall’art. 813 ter, comma 2), e dell’art. 829 c.p.c., la ricorrente rimarca come quest’ultimo esclude che “possano essere dedotti come motivi di impugnazione per nullità del lodo arbitrale sia l’errore di fatto sia la violazione di norme di diritto (ove non espressamente previsto ex lege o dalle parti nella clausola compromissoria)”, desumendone che mediante “una interpretazione puramente letterale” dell’articolo 813 ter “si escluderebbe radicalmente la possibilità di far valere la responsabilità degli arbitri sia per errore di fatto che per violazione di legge, non comparendo tali vizi tra quelli che legittimano l’impugnazione del lodo”, esclusione contrastante con lo stesso art. 813 ter, comma 2, che, richiamando la L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, “ricomprende evidentemente tra le situazioni che possono dar luogo a responsabilità anche gli errori di fatto e gli errori di diritto”; e in un contesto in cui, ex art. 831 c.p.c., non è ammesso nemmeno il rimedio della revocazione ex art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5, tutto questo – che condurrebbe appunto all’esclusione di “ogni possibile rimedio contro gli errori di fatto e di diritto commessi dagli arbitri nella decisione”- verrebbe a confliggere con la ratio della L. 14 maggio 2005, n. 80, diretta, come legge delega, a razionalizzare la disciplina dell’arbitrato e, in particolare, a fornire “una disciplina unitaria e completa della responsabilità degli arbitri” (art. 1, commi 2 e 3, lett. b, della Legge citata). Quindi “l’intenzione del Legislatore delegante di fornire una disciplina compiuta alla responsabilità degli arbitri verrebbe completamente frustrata ove si desse dell’art. 813 ter c.p.c., una interpretazione ed una applicazione aridamente letterale, senza inserire la norma in modo sistematico all’interno della disciplina del procedimento arbitrale”. E pertanto meriterebbe adesione quell’opinione dottrinale che “invoca un’interpretazione sistematica e più ampia” dell’art. 813 ter, comma 4, “rispetto al suo tenore letterale”, ritenendo che detta norma “può essere oggetto di interpretazione tanto ristretta, quanto estensiva” e che sia quindi proponibile un’azione di responsabilità indipendentemente dall’esito dell’impugnazione del lodo arbitrale “qualora venga invocata una fattispecie che esula dai motivi spendibili per ottenere l’annullamento del lodo”: azione proponibile dal danneggiato “nel caso in cui non sia possibile esperire il rimedio ordinario per ottenere la revoca del provvedimento” frutto dell’operato dannoso dell’arbitro.

3.3 Queste argomentazioni, assai suggestivamente formulate, si sforzano invero a “delocalizzare” il ragionamento ermeneutico dall’inequivoco dettato dell’art. 813 ter, comma 4, che disciplina la proponibilità dell’azione di responsabilità degli arbitri stabilendo che, “se è stato pronunciato il lodo, l’azione di responsabilità può essere proposta soltanto dopo l’accoglimento dell’impugnazione con sentenza, passata in giudicato, e per i motivi per cui l’impugnazione è stata accolta”. E’ certamente indiscutibile che ogni norma vive in correlazione con altre norme, cioè in un sistema normativo, per cui la sua interpretazione deve tener conto sia del dato letterale sia del dato logico-sistemico; ciò non significa, peraltro, che la contestualizzazione abbia una incidenza tale da consentire l’elisione, ovvero l’inversione – come in questo caso propugna la ricorrente – del senso di un inequivoco dettato letterale. In claris non fit interpretatio: se la lettera della norma è inequivoca, l’interpretazione non può che recepirne appunto il significato letterale, senza che l’interprete possa avvalersi di altre norme, presenti nello stesso testo normativo o in altri testi pertinenti, allo scopo di “sfigurare” il significato letterale, per sostituirlo con un significato che ne è l’opposto. L’inserimento di una singola norma nel sistema che regola la materia, infatti, non può condurre ad una disapplicazione della singola norma stessa.

L’interpretazione è uno strumento percettivo e recettivo, non correttivo e/o sostitutivo della voluntas legis: nell’ipotesi in cui la norma in esame non risulti coerente con il sistema in cui è inserita, la soluzione non può ravvisarsi in un “fai-da-te” del giudice-interprete che si risolve in un’intrusione nella sfera di attribuzioni del legislatore (cfr. per tutte S.U. 12 dicembre 2012 n. 22784), bensì nel suscitare l’intervento del giudice delle leggi, quanto meno in riferimento al principio della ragionevolezza (art. 3 Cost.). Parimenti, la c.d. interpretazione costituzionalmente orientata non può legittimare una lettura creativa della norma che ne sopprima in modo assoluto l’inequivoco significato letterale, l’evolutiva sintonizzazione alla normativa superiore potendo essere effettuata dal giudice solo qualora la lettera del testo normativo lasci spazi di compatibilità, diversamente dovendosi comunque ricorrere al vaglio della Corte Costituzionale.

L’art. 813 ter, comma 4, d’altronde, ha un contenuto, per così dire, granitico, id est tutt’altro che disponibile ad essere “plasmato” dall’interprete, neppure tramite una interpretazione ristretta o estensiva (cui lo riterrebbe invece compatibile una dottrina abilmente invocata nel ricorso): presupposto della proponibilità dell’azione di responsabilità dell’arbitro, nel caso in cui sia stato emesso il lodo, è l’accoglimento dell’impugnazione del lodo “con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l’impugnazione è stata accolta”, onde l’azione risarcitoria non è in alcuna misura svincolabile da tale preventivo accertamento, inequivocamente devoluto dal legislatore al giudice dell’impugnazione del lodo (con una modalità, si nota per inciso, che a monte include un’opzione dello stesso interessato, nella scelta, tra i motivi consentiti dalla legge a suo avviso ricorrenti, di quelli sulla base dei quali impugnare il lodo). E che, poi, questo possa dar luogo –

come ancora estrae la ricorrente dalle riflessioni dottrinali – a una criticità in relazione alla sottoposizione degli arbitri al giudicato che costituisce l’esito di un giudizio di impugnazione svoltosi senza la loro partecipazione, costituisce questione non attinente all’articolo 813 ter, bensì alla disciplina delle impugnazioni del lodo (art. 827 c.p.c. e ss.), per cui al riguardo non occorre in questa sede a soffermarsi. E per la stessa ragione è logicamente estranea alla comprensione del dettato dell’art. 813 ter, l’ulteriore argomentazione che la ricorrente ha innestato sui limiti dell’impugnazione per nullità del lodo, in quanto escludenti l’errore di fatto e l’errore di diritto sostanziale.

3.4 Peraltro, la questione della impugnazione del lodo a critica vincolata, pur da intendersi nel caso di specie come escludente solo le doglianze di fatto (l’art. 827 e ss., nel testo attuale si applicano ai procedimenti in cui la domanda di arbitrato è stata proposta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, cioè dal 2 marzo 2006 – si tratta, appunto, della riforma scaturita dalla legge delega invocata dalla ricorrente nella sua sistemica promenade -, ma secondo logica non incide retroattivamente sul contenuto della clausola compromissoria stipulata dalle parti prima dell’entrata in vigore suddetta, che rimane sottoposto alla legge previgente, per la quale impostazione inversa il lodo è impugnabile per violazione di legge sostanziale se le parti non l’hanno escluso –

Cass. sez. 1, 19 aprile 2012 n. 6148; Cass. sez. 1, 3 giugno 2014 n. 12379 -: e dunque, tutta l’argomentazione relativa alla necessità di tutelare dagli errori di diritto sostanziale i “clienti” degli arbitri nel caso di specie viene azzerata dal rilievo che, come la stessa ricorrente ha posto in risalto nella premessa del suo ampio ricorso, il procedimento arbitrale fu instaurato “in forza della clausola compromissoria di cui all’art. 45 del Contratto di Fornitura del 10 maggio 2005”), nutre tuttavia ulteriori argomentazioni che, pur se nel ricorso infondatamente addotte a sostegno di un’interpretazione estensiva, in realtà non sono riconducibili al profilo ermeneutico stricto sensu, concernendo invece la tematica della compatibilità costituzionale della norma che, a ben guardare, la ricorrente ha miscelato nella descrizione di quella che a suo avviso sarebbe una mera lettura corretta dell’art. 813 ter, comma 4.

Richiamando allora una pronuncia di questa Suprema Corte sulla responsabilità civile dei magistrati nel sistema regolato dalla L. n. 117 del 1988 (Cass. sez. 1, 4 maggio 2005 n. 9288, per cui “quando l’azione risarcitoria è fondata sull’adozione di un provvedimento in astratto assoggettabile a un mezzo di gravame a critica limitata e, per il soggetto che si ritenga danneggiato, l’impugnazione non sia in concreto ammissibile, non avendo egli da dolersi del vizio alla cui ricorrenza è condizionato quel tipo di gravame, la domanda nel giudizio di responsabilità non può conseguentemente ritenersi improponibile”), la ricorrente sostiene che l’arresto concerne una “situazione del tutto identica al caso che ci occupa”, in cui è disponibile soltanto “un mezzo di impugnazione a critica vincolata che non consente l’impugnazione per errore di fatto e violazione di legge, impedendo così di promuovere liberamente l’azione di responsabilità nei confronti degli arbitri”: ergo, l’art. 813 ter, “dovrà essere interpretato estensivamente” per evitare di frustrare la ratio della norma e di “creare una illegittima disparità di trattamento nella interpretazione di norme letteralmente identiche”.

Come sostegno di una diversa interpretazione dell’art. 813 ter, anche questo sviluppo argomentativo – come già si accennava – non ha consistenza. Invero, non può non rimandarsi a quanto sopra osservato in ordine al fatto che un’interpretazione in toto contrastante con un dettato letterale inequivoco non è praticabile, consistendo, in realtà, in una disapplicazione della norma che il giudice non ha il potere di compiere. E quindi, logicamente, non è qualificabile interpretazione estensiva estrarre da una norma una voluntas legis dal contenuto opposto rispetto a quella veicolata dalla norma mediante un’espressione letteralmente inequivoca. Un’interpretazione estensiva, infatti, ontologicamente non implica un radicale contrasto con il contenuto letterale, ovvero non è strumento che consenta di invertire il significato di quest’ultimo. E, d’altronde, non può marginalizzarsi nel sistema ermeneutico, se non neutralizzarsi, la basilare regola in claris non fit interpretatio, degradando il tenore letterale di una norma a mero punto di partenza di una ermeneutica creativa mediante la quale l’interprete “corregge”, “adegua” e in ultima analisi soppianta il legislatore, in danno della sovranità popolare che il legislatore esercita e cui la giurisprudenza, pur strutturando attraverso la funzione nomofilattica il diritto vivente (ex multis, cfr. S.U. 15 aprile 2003 n. 5994, Cass. sez. lav. 12 agosto 2009 n. 18247e, da ultimo, S.U. 21 maggio 2015 n. 10453) non può non sottoporsi (articolo 101 Cost.).

E’ invece da considerare, a questo punto, proprio la prospettazione di una illegittimità costituzionale che già nei primi due motivi emerge dalle ampie argomentazioni della ricorrente e che costituisce l’oggetto specifico della parte finale del ricorso, sostanzialmente il suo esito.

Il giudice d’appello, è il caso di ricordare, conclude la sua –

complessivamente non cristallina motivazione esprimendosi in modo molto chiaro su quelli che definisce “i dubbi di incostituzionalità sollevati dall’appellante”: in sintesi esclude che, in relazione all’art. 3 Cost., possa configurarsi “ogni assimilazione di disciplina della responsabilità tra giudice togato e giudice privato”, la diversità normativa trovando invece “piena giustificazione e ragionevolezza nel differente status professionale e nella inequivocabile diversità di funzione”; e altresì nega il contrasto con l’art. 24 Cost., dato che “la giustizia resa dagli arbitri trae origine da un accordo privatistico e, dunque, dalla stessa volontà delle parti che preventivamente accettano la peculiare disciplina della risoluzione delle loro future controversie, rinunciando alla tutela dello Stato”.

La ricorrente correla l’art. 813 ter c.p.c., comma 4, alla L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2, (per cui “l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno”), lamentando la carenza, nell’art. 813 ter c.p.c., comma 4, di una previsione analoga a quella della norma correlata, che consenta, in difetto di mezzi di impugnazione, di proporre l’azione di responsabilità quando sia esaurito il grado del procedimento nel cui ambito si è verificato il fatto dannoso. In tal modo verrebbe a sussistere “una illegittima disparità di trattamento tra chi intende proporre azione di responsabilità nei confronti dei magistrati e chi intende proporre azione di responsabilità nei confronti degli arbitri, non avendo il primo limitazioni di sorta, ed essendo invece impedito al secondo di far valere gli errori di fatto e di diritto commessi dagli arbitri proprio quando gli stessi causano i danni più seri, quando cioè i relativi provvedimenti non siano rimediabili attraverso l’annullamento giudiziale”: e quindi gli arbitri risultano esonerati dalla responsabilità per gli errori di fatto e, nella generalità dei casi, anche per gli errori di diritto. L’argomento della corte territoriale sulla origine in un accordo privato della “giustizia resa dagli arbitri” non varrebbe poi a “fugare i dubbi di illegittimità costituzionale” sulla incompatibilità dell’attuale regime di responsabilità degli arbitri con il diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., comma 1, regime che impedisce di proporre l’azione di responsabilità nei confronti degli arbitri “per errori di fatto e di diritto che non siano sussumibili alla base di un’azione di nullità, negando con ciò tutela giurisdizionale al soggetto che assume di essere stato danneggiato dall’operato degli arbitri” nonostante il diritto alla tutela giurisdizionale venga qualificato dalla stessa Consulta (nelle sentenze n. 18/1982 e n. 5696/2012) come un principio supremo dell’ordinamento costituzionale “in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio”. E allora, “la soluzione prospettata da Conserve Italia non è certo quella di prevedere indiscriminate ipotesi di responsabilità degli arbitri da far valere in pendenza del giudizio arbitrale, bensì quella di garantire alle parti che si sono rivolte alla giustizia privata un grado di tutela non inferiore a quella riconosciuta nei confronti dei magistrati, atteso che il Legislatore ha equiparato quanto agli effetti il lodo alla sentenza”. D’altronde il legislatore avrebbe altresì “operato una chiara assimilazione di disciplina tra il regime di responsabilità degli arbitri e la normativa dettata in materia di responsabilità dei magistrati” richiamando nell’art. 813 ter, comma 2, L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 2 e 3: questo dimostrerebbe che sono norme “poste a tutela di interessi sostanzialmente omogenei”, nonostante ciò configurandosi in tema di responsabilità degli arbitri “una tutela irragionevolmente deteriore rispetto a quella dettata dalla legge sulla responsabilità dei magistrati”, ovvero una “illegittima disparità di trattamento tra chi intende proporre azione di responsabilità nei confronti dei magistrati e chi intende proporre azione di responsabilità nei confronti degli arbitri, non avendo il primo limitazioni di sorta, ed essendo invece impedito al secondo di far valere gli errori di fatto e di diritto commessi dagli arbitri”. Questo sarebbe il fondamento della eccezione di illegittimità costituzionale che viene prospettata in relazione all’art. 3 Cost.. E, quanto all’illegittimità costituzionale relativa all’articolo 24, primo comma, Cost., il diritto alla tutela giurisdizionale risulterebbe “illegittimamente frustrato” se si interpreta l’art. 813 ter c.p.c., comma 4, “nel senso di subordinare in termini costanti e assoluti la proponibilità dell’azione di responsabilità nei confronti degli arbitri al passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla impugnazione, impedendo di proporre tale azione per errori di fatto e di diritto che non siano sussumibili alla base di un’azione di nullità, negando con ciò tutela giurisdizionale al soggetto che assume di essere stato danneggiato dall’operato degli arbitri”: ciò tenendo conto che il diritto alla tutela giurisdizionale è sì suscettibile di limitazioni ma queste, come insegna lo stesso giudice delle leggi, per essere legittime “devono essere rivolte ad attuare altri principi o interessi di rango costituzionale”. Il che varrebbe anche nell’ipotesi, dalla ricorrente riconosciuta in questo caso, di c.d. giurisdizione condizionata (proposizione della domanda giudiziale subordinata al verificarsi di una condizione), in quanto il condizionamento può supportarsi soltanto su esigenze generali o superiori finalità di giustizia: poichè l’azione di responsabilità nei confronti degli arbitri si trova ad essere condizionata ad un evento impossibile – non vi sarà mai giudicato sull’errore di fatto o (a parte le ipotesi specifiche dell’art. 829 c.p.c.) sull’errore di diritto – sussisterebbe l’illegittimità costituzionale. Non solo, infatti, la condizione sarebbe una impossibilità (il che “dovrebbe reputarsi già assorbente”), ma altresì “una simile ipotesi di giurisdizione condizionata” non troverebbe “giustificazione in alcuna esigenza superiore o principio di rango costituzionale. Mentre, quanto alla disciplina sulle responsabilità dei magistrati sono riscontrabili interessi dello Stato e quindi di rango costituzionale – nonostante ciò consentendo di proporre l’azione di responsabilità -, nel caso della responsabilità dell’arbitro si impedirebbe l’accesso alla tutela giurisdizionale pur venendo “in gioco interessi meramente privati”. Il tutto, quindi, verrebbe a confliggere con il “canone di ragionevolezza”.

Sempre sulla ragionevolezza, anche come coerenza sistematica, la ricorrente, infine, nella sua memoria ex art. 378 c.p.c., ha replicato alle argomentazioni di controparte, da un lato escludendo che l’azione di responsabilità nei confronti dell’arbitro “svincolata” dal giudicato sui vizi del lodo possa generare conflitto di giudicati, “allorchè si basi su situazioni che esulino dai motivi spendibili nell’ambito del giudizio di impugnazione, quali appunto quelle dedotte nella presente sede da Conserve Italia”, e dall’altro negando che l’indipendenza di giudizio dell’arbitro possa essere inficiata “dalla minaccia di subire un’azione di responsabilità portata dopo la pronuncia del lodo”, in sostanza rimarcando che trattasi di responsabilità professionale, logicamente non attenuabile rispetto a quella del magistrato.

3.5 Le due eccezioni di illegittimità costituzionale, pur – come si è visto – ampiamente motivate, cadono comunque per manifesta infondatezza.

Entrambe si fondano, a ben guardare (la prima, ex art. 3 Cost., esclusivamente, la seconda, ex articolo 24 Cost., parzialmente) sulla impossibilità di fruire di una tutela giurisdizionale risarcitoria nei confronti degli arbitri per la loro responsabilità professionale di estensione pari a quella che il sistema garantisce per la responsabilità civile dei giudici.

In effetti, uno dei principi più ovvi che costituisce chiave ermeneutica nell’ambito dei principi costituzionali è, paradossalmente, la diseguaglianza, nel senso che la diversità non può non avere effetti giuridici, ovvero non sono trattabili allo stesso modo situazioni diverse.

Il legislatore, anche a livello costituzionale, offre tutela giurisdizionale nella duplice e simmetrica forma di diritto all’azione e di diritto alla difesa dall’azione altrui (art. 24 Cost.); e quello che è concesso come diritto costituzionale compete a tutti coloro che si trovano nella stessa situazione che costituisce il presupposto di tale diritto (tutti i cittadini essendo “eguali davanti alla legge” ex art. 3 Cost., comma 1). Il diritto all’azione giurisdizionale, peraltro, non è un obbligo, ovvero il suo esercizio non è dovuto: rectius, in primo luogo il cittadino, se anche leso in diritti sostanziali indisponibili, non è obbligato ad adire il giudice; in secondo luogo, se si tratta di diritti sostanziali disponibili, al cittadino permane la facoltà di tutelarli in coerenza con la loro intrinseca natura, cioè avvalendosi della sua autonomia negoziale, ovvero del suo potere dispositivo sulla propria sfera giuridica. Pertanto, può rinunciare alla tutela giurisdizionale statuale liberamente optando, invece, per un accertamento privato, delegato ad arbitri (cfr. le sentenze nn. 376/2001 e 223/2013 della Corte Costituzionale, che rilevano come “il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, ha strutturato l’ordinamento processuale in materia tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale”; e cfr. pure la sentenza n. 221/2005 della Corte Costituzionale, la quale rimarca come proprio il costante indirizzo della giurisprudenza costituzionale abbia ravvisato nella libera scelta delle parti il fondamento di qualsiasi arbitrato, e come, quindi, la relativa garanzia costituzionale riguardi la libertà di scelta in tal senso).

Nel sistema attuale, l’opzione per l’accertamento privato, tuttavia, non estingue in modo assoluto il diritto a fruire del “servizio giustizia” statale. Il legislatore ordinario (qui si tratta di arbitrato rituale, e ad esso quindi si limita l’attenzione) anche per il lodo lascia un ambito di tutela giurisdizionale, rappresentato dalle impugnazioni di cui al capo quinto del titolo ottavo del quarto libro del codice di rito (ove è tutelata pure la posizione del terzo rispetto al negozio di accertamento). Si tratta di una scelta, si ripete, del legislatore ordinario, che effettivamente pone un netto divario tra la tutela giurisdizionale rispetto al lodo e la tutela rispetto ad una sentenza di primo grado, considerato che su questa il sistema innesta una ben più ampia garanzia impugnativa. Sempre, ovviamente, per scelta del legislatore ordinario, ciò attraverso l’art. 813 ter c.p.c., comma 4, – si ripercuote altresì sulla responsabilità professionale degli arbitri, che viene condotta a combaciare non solo, in astratto, con i limitati motivi di impugnazione di cui all’art. 827 c.p.c. e ss., ma anche, in concreto, con il relativo giudicato, circoscrivendo pertanto la responsabilità dell’arbitro ai motivi che sono stati accolti nella impugnazione del lodo il cui esito sia passato in giudicato. L’impugnazione del lodo, dunque, non integra un mero presupposto processuale di proponibilità dell’azione risarcitoria, bensì costituisce la prima parte di un accertamento giurisdizionale bifasico, al cui esito definitivo (il giudicato) l’azione risarcitoria è già avvinta sotto un profilo di merito, pur residuando al suo giudice, ovviamente, un ulteriore spazio accertatorio.

La barriera limitativa che funge da tutela agli arbitri è evidente.

Ma parimenti evidente è la diseguaglianza della condizione in cui si trova il soggetto che intende esercitare un’azione di responsabilità nei confronti di arbitri rispetto a quella in cui si trova un soggetto che intende agire sulla base della L. n. 117 del 1988, ratione temporis applicabile nel caso di specie. Non solo chi opta per l’arbitrato effettua una scelta negativa rispetto al servizio giustizia statale, ma la sua scelta ha un contenuto positivo a favore di un servizio giustizia ontologicamente difforme: invero, oltre a determinare l’oggetto dell’arbitrato, chi opta individua nella convenzione d’arbitrato colui che riceve la potestas judicandi, o comunque determina il numero degli arbitri e le modalità per nominarli e, se necessario, sostituirli, potere di nomina che in tale convenzione può attribuirsi (artt. 809 e 811 c.p.c.) e che infatti usualmente esercita; regola, seppure entro certi limiti, le norme di svolgimento del procedimento arbitrale (art. 816 bis c.p.c.); e può anche circoscrivere l’ambito di impugnabilità del futuro lodo, estendendolo alla “violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia” (art. 829 c.p.c.).

A fronte di tutto questo, che costituisce un consistente plus rispetto alla posizione di chi agisce davanti al giudice, risulta evidentemente non irragionevole un minus controbilanciante, che il legislatore ordinario, pur nell’attuale trend di progressiva assimilazione (oltre all’impostazione della riforma del 2006, non può non ricordarsi l’ottica della Consulta, dal riconoscimento agli arbitri rituali della legittimazione a sollevare questioni di illegittimità costituzionale – sentenza n. 376/2001, già citata – all’estensione al rapporto giudice-arbitro dell’art. 50 c.p.c., sentenza, anche questa già citata, n. 223/2013), infatti prevede, e che precipuamente consiste nella rinuncia, insita nella scelta dell’arbitrato, relativa appunto a determinati profili di tutela del diritto sostanziale disponibile: provvisori come i provvedimenti cautelari (art. 818 c.p.c.; rinuncia peraltro attenuata dall’art. 669 quinquies c.p.c., nel senso di non potersi avvalere allo scopo di chi si è voluto scegliere come titolare della potestas judicandi nel merito) e soprattutto definitivi come quel che concerne l’ambito impugnativo del lodo: rinuncia, quest’ultima, cui normativamente si connette, come sopra si è visto e di certo non senza logica, il limite della responsabilità degli arbitri, la definitività del lodo nel senso di sua non impugnabilità così estendendosi alla impossibilità di azzerarne gli effetti in via compensativa mediante il relativo risarcimento da parte di chi lo ha emesso. La scelta dell’arbitrato e l’avvalersi della relativa convenzione non sono dunque – allo stato normativo – assimilabili all’esercizio del diritto di adire il giudice, sradicando ogni affinità la natura pienamente dispositiva, anche nelle sue ripercussioni in termini di rinuncia, della opzione arbitrale. Il giudizio dell’arbitro si incastona nell’esecuzione di un negozio di accertamento (sulla rimessione negoziale all’arbitro della potestas judicandi cfr. p.es., Cass. sez. 1, 28 febbraio 2006 n. 4397, Cass. sez. 1, 24 giugno 2011 n. 13968 e Cass. sez. 1, 10 luglio 2013 n. 17097) e quindi rimane riconducibile (anche) a un ambito privatistico, per quanto inciso ovviamente – come ogni espressione di autonomia negoziale – da norme imperative (logicamente non solo limitative: cfr. art. 824 bis). Il giudice civile, pur essendo a sua volta entro certi limiti condizionato da un potere dispositivo, a questo punto processuale, delle parti si pone, invece, su un piano ancora diverso, sicchè la “restrizione” pubblicistica della posizione del fruitore trova un ragionevole controbilanciamento in una tutela risarcitoria di spessore diverso. Aliquid datum, aliquid retentum: la valutazione di quanto si acquisisce e di ogni corrispettiva deminutio nutre il motivo di scelta del singolo tra mezzi di tutela ontologicamente differenti come l’accertamento privato per via arbitrale e l’accertamento pubblico per via giudiziale. Che poi sussistano, ovviamente, anche conformità tra i due mezzi (come p. es., oltre agli interventi sopra citati della Consulta, il già richiamato art. 824 bis c.p.c., introdotto dalla riforma del 2006 nella già più sopra accennata tendenza evolutiva all’assimilazione, che si innesta nell’attuale orientamento verso la degiurisdizionaizzazione) si giustifica agevolmente con l’identità dello scopo, ravvisabile nel superamento di una situazione di incertezza, e quindi lesiva, dei diritti sostanziali. Ma l’identità teleologica non implica, necessariamente, una identità ontologica, la natura di un istituto investendo un ambito più ampio della sua strumentalizzazione sistemica. E la diversità, dunque, per quel che sopra si è esposto, nel caso di specie allo stato permane, e questo rende manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale proposta in relazione all’art. 3 Cost., non essendo irragionevole trattamento normativo diseguale a due istituti ontologicamente diseguali. 3.6 Analogo discorso può agevolmente svolgersi per l’ulteriore eccezione di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 24 Cost., comma 1, per la parte in cui, come sopra si già è osservato, si fonda sulla pretesa illegittimità di un diverso trattamento normativo: il fatto che la tutela giurisdizionale nei confronti degli arbitri sia collocata a un livello inferiore e conformata con modalità diverse rispetto alla tutela giurisdizionale di cui sussiste il diritto ad avvalersi per la responsabilità di un giudice non integra una discriminante privazione della tutela giurisdizionale in sè a chi ha voluto avvalersi di arbitrato. Ciò, invece, discende dalla volontà dello stesso interessato, che ha esercitato la sua autonomia negoziale, disponendo del suo diritto e così assumendo i rischi correlati alla sua scelta, come quello del non corretto adempimento dell’incarico da parte delle persone cui ha conferito il potere di decidere la sua controversia in luogo del giudice in un settore che risulti non impugnabile (sulla non impugnabilità del lodo quanto alla valutazione dei fatti dedotti e delle prove acquisite durante il procedimento arbitrale come conseguenza della rimessione negoziale alla competenza istituzionale degli arbitri della valutazione stessa v. ancora Cass. sez. 1, 24 giugno 2011 n. 13968 e Cass. sez. 1, 28 febbraio 2006 n. 4397). E questo rilievo basilare vale anche per gli ulteriori argomenti in forza dei quali la ricorrente ha fondato l’eccezione di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 24 Cost., comma 1. Come si è visto, infatti, la ricorrente adduce che il diritto alla tutela giurisdizionale sarebbe “illegittimamente frustrato” in sostanza per essere subordinato ad un giudicato quello sulla impugnazione del lodo – che non potrà mai includere errori di fatto ed errori di diritto sostanziale, tale limitazione non trovando supporto in alcun principio/interesse costituzionale. In realtà, non sussiste alcun contrasto fra il dettato costituzionale – sia nel suo generale complesso, sia in riferimento all’art. 24, comma 1, – e quella che è stata evidentemente una valutazione del legislatore ordinario riconducibile al suo potere discrezionale, nel caso di specie esercitato senza alcuna irragionevolezza. L’impugnabilità la cui omessa previsione normativa la ricorrente censura, in effetti, trova ragionevole fonte di esclusione in quel che più sopra si è esposto in ordine alle caratteristiche di privatistica, libera scelta in cui consiste l’opzione per l’arbitrato. Opzione che è intrinsecamente rinuncia all’alternativa della tutela giurisdizionale – ed infatti può concerne solo diritti disponibili -, tutela che il legislatore ordinario, appunto nella sua discrezionale valutazione, ha comunque perseverato nel garantire, in una misura limitata ma valutata sufficiente. La pretesa “frustrazione della tutela giurisdizionale” quindi non sussiste, dal momento che, ragionando secondo l’impostazione della ricorrente, ogni rinuncia al diritto sostanziale, ogni transazione ed ogni conciliazione giudiziale o stragiudiziale – cioè ogni atto dispositivo che elide in radice o tronca in itinere la via giurisdizionale – integrerebbero una siffatta illegittima frustrazione. Al contrario, chi si avvale del suo potere dispositivo sulla sfera dei diritti da esso governati, imputet sibi quanto alle sue libere e consapevoli decisioni. Il legislatore già tutela a priori il cittadino nella misura costituzionalmente corretta, secernendo i diritti indisponibili dagli altri diritti; e le scelte aventi ad oggetto diritti disponibili non possono venire considerate tamquam non essent, al contrario essendo legittimo (l’autonomia negoziale è del tutto conforme ai principi della Carta costituzionale, oltre che a quelli sovranazionali) che concretamente incidano su di essi, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto il profilo processuale. E ciò, nel caso di un negozio non unilaterale come è quello in esame – qualificabile, in sostanza, come rinuncia congiunta alla tutela giurisdizionale statuale -, significa tutelare anche le altre parti che hanno stipulato il negozio, quanto ai vantaggi che ne sono scaturiti a loro favore e sui quali esse hanno fatto legittimo affidamento; ulteriori parti che a loro volta hanno determinato il motivo dell’adesione al negozio in un concreto sinallagma inclusivo non solo di acquisizioni, ma anche di elementi incidenti come deminutio sulla loro sfera giuridica. Tutela che, a ben vedere, si concretizza pure nella preservazione di uno status di autonomia effettiva e di serenità psicologica per gli arbitri, in modo che, come non del tutto incondivisibilmente è stato segnalato in controricorso, questi non affrontino una prestazione il cui contenuto esattamente adempiente è ontologicamente e fisiologicamente discutibile (la loro attività è sedare l’incertezza) sotto la prospettiva di una diretta ripercussione a proprio carico della decisione, ovvero di una propria trasformazione – duplicando la procedura di eliminazione della certezza, cioè riversandola in una causa risarcitoria dinanzi al giudice statuale – in soggetto litigante sulla questione incerta che, nella qualità invece di terzo, era stato incaricato a dirimere. Nel sistema vigente, in conclusione, affidare la decisione ad arbitri non contrasta con il sistema costituzionale – e infatti la ricorrente non ha prospettato minimamente una incostituzionalità che travolga la clausola compromissoria da cui è sortito il procedimento arbitrale e il relativo lodo -; non confligge, pertanto, tale conferimento con una limitazione, anche indiretta (si è già osservato che l’azione risarcitoria nei confronti degli arbitri è oggettivamente finalizzata all’azzeramento degli effetti patrimoniali del lodo), di quella tutela giurisdizionale che il legislatore comunque gli garantisce nonostante quella che è stata, in ultima analisi, proprio la manifestazione di preferenza per un altro genere di tutela. Sotto ogni profilo, dunque, anche l’eccezione di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 24 Cost., comma 1, si appalesa manifestamente infondata. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione a ciascuna delle due controparti delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

Dichiara manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 813 ter c.p.c., comma 4, in relazione all’art. 3 Cost., e art. 24 Cost., comma 1, proposta dalla ricorrente; rigetta il ricorso, condannando la ricorrente a rifondere a M.M. e a P.M. le spese processuali, per ciascuno liquidate in un totale di Euro 20.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre gli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2016

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