Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12142 del 03/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 03/06/2011, (ud. 12/05/2011, dep. 03/06/2011), n.12142

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15239-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIAMMARIA GIACOMO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO 2 71, presso lo studio dell’avvocato LENOCI MARIA CRISTINA,

rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNETTI MICHELE, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 65/2006 della SEZ. DIST. CORTE D’APPELLO di

TARANTO, depositata il 24/05/2006 R.G.N. 100/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/05/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega GIAMMARIA GIACOMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Lecce – Sez. distaccata di Taranto, con sentenza in data 14.3/24.5.2006, confermava la decisione di primo grado che dichiarava la nullità del termine apposto al contratto stipulato il 12.6.1998 (rectius il 4.6.2001) fra le Poste Italiane e N.M., per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane, nonchè per la sostituzione di dipendenti assenti per ferie.

Osservava in sintesi la corte territoriale, quanto all’obbligo di indicare i nominativi dei lavoratori sostituiti per ferie e le cause della sostituzione, che l’ipotesi contrattuale non poteva ritenersi avulsa dalla disciplina generale posta dalla L. n. 230 del 1962, con la conseguente operatività della relativa prescrizione, in quanto non espressamente derogata; quanto poi alla sussistenza delle esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione dell’azienda, che tale clausola risultava sprovvista della necessaria autorizzazione collettiva per il periodo successivo all’aprile 1998.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con tre motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso l’intimato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo ed il secondo motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, configurava una vera e propria “delega in bianco” in favore delle organizzazioni sindacali, le quali, pertanto, potevano legittimare il ricorso al contratto a termine non solo per causali di carattere oggettivo, ma anche meramente soggettivo, sicchè restava precluso al giudice di individuare limiti ulteriori, anche di ordine temporale, atti a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di contratto a termine individuate in sede collettiva. Con il terzo motivo, prospettando vizio di motivazione, si duole, con riferimento alla richiesta di risarcimento del danno, che la corte territoriale aveva omesso qualsiasi valutazione e decisione in merito alla richiesta formulata ai fini dell’esibizione di documentazione utile a consentire una corretta determinazione dei corrispettivi percepiti dal dipendente per attività di lavoro svolta a favore di terzi, e ciò sebbene l’eccezione non potesse che essere genericamente dedotta dal datore di lavoro, incombendo il relativo onere, in realtà, sul lavoratore.

2. Con riferimento al primo ed al secondo motivo del ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente, in considerazione della loro connessione, la società ricorrente allega “che il Giudice del gravame, sulla premessa della natura “eccezionale” della clausola di apposizione del termine, ritiene arbitrariamente – e, quindi, “disapplicando” la L. n. 56 del 1987, art. 23 – che, per ridurre a razionalità il sistema, tale ipotesi dovrebbe essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale”; nessuna censura viene, invece, mossa all’ulteriore capo della decisione relativo alle prescrizioni connesse alla causale sostitutiva, pur trattandosi di autonoma statuizione, idonea ex se a condurre all’accoglimento della domanda avanzata dal lavoratore. Le censure vanno, pertanto, rigettate.

E ciò in aderenza al consolidato insegnamento giurisprudenziale per cui, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della stessa, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia avuto esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione.

Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che l’una o l’altro autonomamente sorreggono, con la conseguenza che è sufficiente , pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa ad una sola di tali ragioni, perchè il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza (v. ad es. Cass. n. 5902/2002;

Cass. n. 2273/2005; Cass. n. 2811/2006).

3. Con riguardo al terzo motivo, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 commi 5, 6 e 7.

In ordine a tale questione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens, che la nuova disciplina del rapporto controverso sia pertinente alle censure formulate col ricorso, tenuto conto della natura del giudizio di legittimità, il cui perimetro, come noto, è limitato dagli specifici motivi del ricorso (cfr. Cass. n. 10547/2006). In tal contesto, è necessario che il motivo del ricorso, che investa, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia, altresì, ammissibile, secondo la disciplina sua propria. In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici, o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis.

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Premessi tali principi, è da rilevare che, nel caso, la società ricorrente censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte discenderebbe che “l’aliunde perceptum … non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga.

Il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.:

“Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Il quesito descritto, nondimeno, risulta non conforme al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., per non ricomprendere il complesso delle censure articolate nel motivo e per risolversi, comunque, nella enunciazione astratta delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Il quesito di diritto, che la norma richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve, infatti, essere formulato, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr. ad es. Cass. SU n. 36/2007 e n. 2658/2008), dovendosi ritenere come inesistente un quesito generico, parziale o non pertinente. In proposito, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo.

Il quesito posto dalla società ricorrente non risulta conforme ai canoni interpretativi indicati perchè – va ribadito- inidoneo ad esprimere, in termini riassuntivi, ma concretamente pertinenti all’articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo addebitato alla decisione.

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno distratte in favore del difensore, che se ne è dichiarato anticipatario.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 28,00 per esborsi ed in Euro 2500,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA, con distrazione in favore dell’Avv. Michele Brunetti.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2011

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