Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12141 del 03/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 03/06/2011, (ud. 20/04/2011, dep. 03/06/2011), n.12141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11899-2007 proposto da:

D.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato GHERA EDOARDO,

rappresentata e difesa dall’avvocato CAZZATO STEFANIA, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

T.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G.

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato SANTORO BARBARA,

rappresentata e difesa dall’avvocato SCHIAVONE ENRICO CLAUDIO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 202/2006 della SEZ. DIST. CORTE D’APPELLO di

TARANTO, depositata il 07/02/2007 R.G.N. 160/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato GIANNI’ GAETANO per delega SCHIAVONE ENRICO CLAUDIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 7.2.2007, la Corte di Appello di Lecce accoglieva l’appello proposto da T.F. avverso la sentenza del giudice del lavoro di Taranto e, in riforma di essa, rigettava la domanda avanzata da D.B., avente ad oggetto il pagamento di importi a titolo di differenze retributive e trattamento di fine rapporto in relazione al lavoro di collaborazione domestica svolto dal 1983 al 2000 alle dipendenze della appellata.

Assumeva la Corte territoriale che doveva escludersi la sussistenza della legittimazione passiva della T., attesa la presentazione da parte della lavoratrice di domanda di insinuazione allo stato passivo del fallimento a carico di M., coniuge della T.; che dimostrava che la D. era perfettamente consapevole che la costituzione del rapporto era avvenuta con il predetto, laddove la T. ne era rimasta del tutto estranea, non potendo altrimenti spiegarsi perchè la pretesa non fosse stata direttamente azionata nei confronti di quest’ultima.

Evidenziava, ancora, che tutti i versamenti in favore dell’INPS a mezzo conti correnti postali risultavano eseguiti dal M., il che avallava la tesi che il rapporto di lavoro era stato costituito ed era gestito da quest’ultimo, e che lo stato di servizio descritto nel libretto di lavoro indicava come datore nel periodo di riferimento il M., senza considerare che la dichiarazione di non avere null’altro a pretendere sottoscritta dalla D. aveva come destinatario il predetto. Tutto ciò dimostrava inequivocabilmente che il rapporto fosse intercorso con il M. e, peraltro, non rilevava la circostanza che costui non fosse presente durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, essendo il contenuto di ques’ultima non complesso, anzi di semplice esecuzione, e come tale non necessitasse di direttive costanti. Anche la scelta del regime di separazione dei beni compiuta dai coniugi dimostrava, secondo la corte de merito, la scarsa credibilità della tesi secondo cui la domanda di pagamento dei crediti era stata rivolta in un primo momento nei confronti del M. perchè era ravvisarle una ipotesi di responsabilità solidale di entrambi i coniugi.

Propone ricorso per cassazione la D. affidando l’impugnazione a quattro motivi.

Resiste con controricorso la T..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la D. deduce motivazione illogica ed insufficiente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 e violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 52 ex art. 360 c.p.c., n. 3, sostenendo che non era chiaro perchè fosse stato attribuito valore confessorio alla domanda di insinuazione al passivo del fallimento M., atteso che la lavoratrice aveva inteso convenire entrambi i coniugi perchè dalla stessa considerati suoi datori di lavoro obbligati in solido, come dimostrato dai fatto che il tentativo obbligatorio di conciliazione era stato proposto nei confronti di ambedue, salvo che, essendo nelle more intervenuto il fallimento del M., essa era stata costretta a procedere nei confronti del M. con l’insinuazione a passivo, non potendo convenire entrambi dinanzi al Tribunale ordinario. Le azioni dinanzi al giudice fallimentare e a quello ordinario erano state, per intentate a breve distanze, rispettivamente il 16.10.2000 ed il 18.10.2000.

Con il secondo motivo la D. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’artt. 186 e 190 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e la contraddittorietà ed insufficienza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 sostenendo “tessere stata assunta quando i coniugi erano in regime di comunione e che, comunque, anche l’assunto che gli stessi erano in regime di separazione non escludeva la possibilità per i predetti di contrarre congiuntamente delle obbligazioni e di assumere la veste di debitori solidali nei confronti di terzi creditori.

Con il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 416 e 437 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e l’erroneità e contraddittorietà della motivazione, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che le prove costituite poste a base della decisione erano state irritualmente acquisite in quanto la D. si era costituita tardivamente. Pertanto, il venir meno di una parte dei documenti su cui la Corte aveva fondato il suo convincimento determinava il venir meno della validità del ragionamento seguito dalla stessa, basata sulla valutazione comparativa delle prove acquisite.

Infine, con il quarto motivo, la D. deduce il difetto, la contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, evidenziando che anche i versamenti all’INPS ed il libretto di lavoro non costituirebbero elementi probanti in favore della tesi della carenza di legittimazione passiva della T.. Non emergeva, invero, dagli atti, che la D. fosse pagata personalmente dal M. e peraltro la sentenza era stata costretta a fare ricorso a supposizioni per affermare che le indicazioni operative circa l’esecuzione del lavoro venivano impartite dal M. per quanto lo stesso non fosse presente durante l’espletamento della prestazione lavorativa.

Premesso che nella fattispecie va applicato l’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 de l2006 ed anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 (cfr. fra le altre Cass. 24-3-2010 n. 7119. Cass. 16-12-2009 n. 26364), osserva il Collegio che il ricorso risulta inammissibile per mancanza dei quesiti di diritto imposti dalla detta norma.

L art. 366 bis c.p.c., infatti, “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica dei fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione” (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

In particolare, il quesito di diritto, in sostanza, deve integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4- 2009 n. 8463) e “deve comprendere l’indicazione sia della regola iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v. Cass. 30-9- 2008 n. 24339).

Pertanto, come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato ex art. 384 c.p.c., “è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte” (v Cass. SU. 26-3- 2007 n. 7258, Cass. 7-11-2007 n. 23153), non potendo, peraltro, il quesito stesso desumersi dal contenuto del motivo, “poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste proprio nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al migliore esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (v. Cass. 24-7-2008 n. 2040, cfr Cass. S.U. 10- 9-2009 n. 19444).

Orbene, nella fattispecie, la ricorrente, che pur ha ampiamente illustrato i singoli motivi di ricorso, riguardanti sia asserite violazioni di norme di diritto che censure riferite all’art. 360 c.p.c., n. 5 non ha formulato alcun quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., nè ha prospettato, sia pure in modo sintetico, le ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte così provvede;

dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 2.040,00, di cui Euro 2000,00 per onorario, oltre spese generali IVA e Cpa come per legge.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2011

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