Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12140 del 03/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 03/06/2011, (ud. 20/04/2011, dep. 03/06/2011), n.12140

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13199-2007 proposto da:

D.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIMA 31,

presso lo studio dell’avvocato MACCARRONE GIUSEPPE, rappresentato e

difeso dall’avvocato CORA MAURIZIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SITINDUSTRIE INTERNATIONAL S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FLAMINIA 441, presso lo studio dell’avvocato MARINI PAOLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 379/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 20/04/2006 R.G.N. 994/04 + altri;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato ZANELLO ANDREA per delega MARINI PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 20.42006, la Corte d’appello di L’Aquila accoglieva l’appello principale avverso la sentenza non definitiva del Tribunale di Larino del 10.6.2004 e quello principale avverso la sentenza definitiva del 21.4.2005 proposti dalla Sitindustrie International s.r.l.; respingeva l’appello incidentale del D. e l’appello della Sitindustrie contro la sentenza n. 87 del 21.4.2005 e, per l’effetto, confermava la sentenza di primo grado relativa al licenziamento di D.R., ribadendone l’illegittimità.

Assumeva la Corte territoriale che la sentenza relativa all’impugnativa di licenziamento meritava conferma, così come la pronunzia negativa relativa alla domanda di risarcimento per mobbing, laddove la pronunzia sulla dequalificazione professionale doveva essere riformata, non potendo riconoscersi che il comportamento del datore di lavoro avesse inciso in termini di perdita di professionalità de dipendente, non potendo trarsi elementi utili dalle declaratorie contrattuali e dovendo il raffronto effettuarsi tra le mansioni effettive da ultimo svolte e quelle di provenienza.

Propone ricorso per cassazione il D. affidando l’impugnazione a sei motivi. Resiste con controricorso la società.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso il D. deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che la interpretazione dell’art. 2103 c.c. effettuata dal giudice di secondo grado non trova alcun riscontro nella formulazione della norma, che stabilisce un principio generale e non opera alcuna distinzione qualitativa tra le mansioni, onde non poteva negarsi il demansionamento sul rilievo che la tipologia delle mansioni originariamente svolte fosse già di per sè sufficiente ad escludere una dequalificazione, omettendo qualsiasi indagine sull’equivalenza o meno di queste con le mansioni attribuite ed effettivamente svolte nel periodo temporale del lamentato demansionamento (anni 1994 – 2001). A conclusione della parte argomentativa del motivo, formula quesito di diritto domandando se il modesto contenuto professionale delle mansioni di provenienza escluda di per sè la configurabilità del demansionamento ed autorizzi il giudice del merito ad omettere ogni indagine sull’equivalenza o meno delle mansioni successivamente attribuite al lavoratore.

Con il secondo motivo denunzia l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 … assumendo che il modesto contenuto professionale delle mansioni in precedenza svolte risulti apoditticamente affermato (unico addetto al CED quale responsabile dei dati per l’elaborazione delle buste paga ed esperto nei campo informatico). Richiama il contenuto della declaratoria del ccnl di riferimento relativo alla 6^ categoria di appartenenza a riprova della qualificazione professionale del tutto corrispondente a quella evidenziata nell’espletamento di precedenti mansioni ed assume l’insufficienza della motivazione a riguardo anche con riferimento a quanto affermato sul contenuto delle declaratorie contrattuali.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta insufficiente e contraddettola motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo che il giudice dell’appello ha confuso quanto avvenuto nel periodo precedente al demansionamento, riferendosi indistintamente alla mancata assegnazione di funzioni superiori in presenza di un superiore inquadramento e a quanto si era verificato nel periodo del demansionamento sino al 2001. Rileva la decisività attribuita ad un dato erroneo, ossia alla progressione di carriera del ricorrente, inesistente nel periodo considerato.

Con il quarto motivo, il D. denunzia omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che, pur riconoscendo che esso ricorrente aveva subito dei danni all’integrità psico fisica in conseguenza dell’attività lavorativa, la sentenza impugnata aveva in modo contraddittorio negato la responsabilità contrattuale del datore di lavoro sulla base di non specificate risultanze processuali.

Ancora, con il quinto motivo, lamenta il ricorrente l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 sostenendo che in realtà, differentemente da quanto asserito dalla Corte territoriale al riguardo, il CTU aveva distinto tra patologie causalmente conseguenti alla vicenda lavorativa e quelle preesistenti e/o sopravvenute che non erano etiologicamente connesse al comportamento datoriale, quantificando il grado percentuale dei danno biologico nella misura del 10% e che la sussistenza o meno del nesso causale tra il comportamento datoriale e i danni alla salute riportati dal lavoratore costituisca elemento controverso e decisivo nella sentenza impugnata.

Infine, con il sesto motivo, deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 2103 c.c. ed all’art. 2697 e.e., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 osservando come il giudice del gravame, pur riconoscendo danni all’integrità psico fisica del lavoratore in conseguenza dell’attività lavorativa svolta, aveva, poi, negato la responsabilità contrattuale dei datore rilevando che il lavoratore non aveva indicato il comportamento che il datore avrebbe dovuto adottare, con ciò operando una non consentita inversione dell’onere della prova.

Il ricorso deve essere rigettato, essendo i motivi di ricorso in parte inammissibili ed in parte infondati.

Quanto al primo di essi, il quesito che dovrebbe contenere l’indicazione degli esatti termini della questione è tale, per come prospettato, da rivelarsi generico e non pertinente rispetto alla concreta fattispecie esaminata, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Vero è che in tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l’equivalenza o meno delle stesse deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, come nel caso in esame, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell’art. 2103 cod. civ., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore (cfr, Cass. 26 gennaio 2010 n. 1575). Tuttavia, nella formulazione del quesito, il ricorrente avrebbe dovuto evidenziare in che maniera il principio di diritto è stato violato ed in che misura la corretta applicazione dello stesso avrebbe dovuto condurre ad una diversa soluzione della questione prospettata nei gradi di merito. In particolare, il quesito di diritto, in sostanza, deve integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4- 2009 n. 8463) e deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v.

Cass. 30-9-2008 n 24339).

Pertanto: come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato ex art. 384 c.p.c., :iè inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte” (v, Cass. SU 26-3- 2007 n. 7258, Cass. 7-11-2007 n. 23153), non potendo, peraltro, il quesito stesso desumersi dal contenuto del motivo, “poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste proprio nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al migliore esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (v. Cass, 24-7-2008 n, 2040, cfr. Cass. S.U. 10-9-2009 n. 19444).

Quanto al secondo motivo di impugnazione, con il quale si assume che il modesto contenuto professionale delle precedenti mansioni era stato apoditticamente affermato senza effettuare il necessario giudizio di equivalenza tra le mansioni di fatto espletate e quelle di destinazione, anche attraverso il riferimento alle declaratorie contrattuali, si deve rilevare che l’art. 366 bis c.p.c., “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo che, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo ;

iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

Orbene, dall’esame de motivo di ricorso emerge la mancanza assoluta del momento di sintesi necessario per rendere la censura idonea a scalfire il ragionamento seguito dai giudice del gravame nel pervenire alla soluzione adottata.

Negli stessi termini deve ritenersi inidonea a sorreggere la censura l’argomentazione posta a fondamento del terzo motivo, non prospettandosi in maniera chiara la decisività del dato erroneo asseritamele posto a base del decisimi nel contesto della pronunzia resa, così come analogamente non si specifica nel corpo del quarto motivo quali sarebbero i dati documentali e le dichiarazioni rese dai testi escussi aventi ad oggetto il comportamento illegittimo imputato al datore di lavoro assunto come provato, e ciò in dispregio del principio di autosufficienza, che impone l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (cfr., Cass., ord , sez 6; 17915/2010).

Infine, con riferimento alla formulazione del rilievo attinente alla incompletezza ed incongruenza della motivazione del giudice del gravame, e quindi della deduzione del corrispondente vizio di legittimità, risulta solo genericamente dedotta la decisività e rilevanza delle prove documentali ed orali erroneamente valutate.

Vero è che il giudice di merito, sebbene non sia tenuto ad analizzare e discutere distintamente i singoli elementi di prova acquisiti al processo, deve comunque tener conto, nella valutazione complessiva dei medesimi, di tutte le circostanze decisive e mettere in rilievo quanto è necessario per chiarire e sorreggere adeguatamente la “ratio decidendi”; ma, nel caso in cui la sentenza di merito sia impugnata per cassazione per vizio di motivazione, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso o insufficiente esame di talune circostanze assume rilevanza quando le stesse siano idonee – secondo la valutazione al riguardo condotta in via presuntiva dalla Corte – a fornire la prova di fatti che possano ritenersi decisivi, in quanto atti ad orientare il giudice di merito verso una decisione diversa da quella della sentenza impugnata.

Spetta, invero, in via esclusiva al giudice di merito i compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere, anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare: per ogni mezzo istruttorie le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass. 15 luglio 2009 n. 16499).

Anche il quinto motivo si rivela privo di riferimenti idonei a configurare il necessario momento di sintesi in relazione al rilievo della omessa e insufficiente motivazione in mento alle risultanze della ctu, che avrebbero condotto, secondo quanto sostenuto dal ricorrente, a differenti conclusioni circa la sussistenza del nesso eziologico tra comportamento datoriale e patologie manifestatesi, fonte di danno biologico risarcibile nella misura indicata dal CTU, e ciò a prescindere dalla considerazione che le precedenti censure ed il relativo accoglimento avrebbero rappresentato il necessario logico presupposto per ritenere configurabile un pregiudizio nei termini prospettati.

Infine, con riguardo alla deduzione, contenuta nel sesto motivo di ricorso, afferente la violazione dei principi in materia di prova e l’inversione del relativo onere per effetto del ritenuto mancato assolvimento da parte del lavoratore dell’obbligo di indicare e dimostrare il comportamento che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare, il quesito risulta inconferente, in quanto il giudice d’appello ha accertato in fatto che il datore aveva fatto quanto in suo potere per evitare ogni pregiudizio alla salute del dipendente, adibendo lo stesso alle più diverse mansioni, per cui altro sarebbe dovuto essere il contenuto del quesito per renderlo idoneo ad apportare una critica incisiva all’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale.

In conclusione, deve essere confermata la pronunzia impugnata, per essere le censure formulate inconferenti e comunque inidonee ad evidenziare la omessa o insufficiente valutazione del materiale probatorio in termini di decisività rispetto alla ricostruzione della fattispecie Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte cosi provvede;

rigetta i ricorso e condanna il D. al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2040,00, di cui Euro 2000,00 per onorario, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2011

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