Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12138 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. III, 22/06/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 22/06/2020), n.12138

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27913/2019 proposto da:

K.N.A., domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato MICHELE CAROTTA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1490/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 08/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/03/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.

Fatto

RILEVATO

che:

1. K.N.A., cittadino proveniente dal Camerun, chiese alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento della sua istanza dedusse di essere fuggito dalla Camerun per sottrarsi al rischio di persecuzioni da parte del nuovo marito della madre che lo sottoponeva a continui soprusi perchè non tollerava che praticasse il cristianesimo e desiderava ardentemente impossessarsi dei beni ereditari.

3. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza. Avverso tale provvedimento propose opposizione ex art. 702 bis c.p.c., dinanzi al Tribunale di Venezia, che con ordinanza del 6 luglio 2017e comunicata il 2 settembre 2017 rigettò il reclamo.

Il Tribunale ritenne che:

a) il richiedente asilo non era minimamente credibile;

b) la domanda di protezione internazionale fosse in ogni caso infondata perchè il richiedente asilo non aveva dedotto a sostegno di essa alcun fatto di persecuzione;

c) la domanda di protezione sussidiaria fosse infondata perchè nella regione di provenienza del richiedente asilo non era in atto un conflitto armato;

d) la domanda di protezione umanitaria fosse infondata poichè l’istante non aveva nè allegato, nè provato, alcuna circostanza di fatto, diversa da quelle poste a fondamento delle domande di protezione “maggiore” (e ritenute inveritiere), di per sè dimostrativa d’una situazione di vulnerabilità.

3.1. La Corte d’Appello di Venezia con sentenza n. 1490 del 8 aprile 2019 ha confermato la statuizione di primo grado.

4. Avverso tale pronuncia per cassazione K.N.A. ricorre per cassazione con 4 motivi. Il Ministero dell’Interno non si è difeso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

5.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità ed erroneità della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c. (come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità) per violazione o falsa applicazione dei principi che regolano l’onere della prova in tema di riconoscimento dello status di rifugiato. Denuncia che nonostante il ricorrente si sia adoperato, per quanto nelle proprie possibilità, per recuperare la documentazione idonea a provare la veridicità delle proprie dichiarazioni, fotografie e altri documenti depositati, il Tribunale di Venezia prima e la Corte di Appello poi non hanno apprezzato e valutato la documentazione prodotta e le dichiarazioni rese dal richiedente e non hanno minimamente assolto al dovere di cooperazione e di integrazione prescritti dal dettato normativo e dalla giurisprudenza.

Il motivo è infondato nel merito, anche se la motivazione deve essere corretta, pur predicando, in astratto, un corretto principio di diritto.

Il giudice del merito ha condivisibilmente ritenuto, con motivazione che risponde, in parte qua, al requisito del cd. “minimo costituzionale”, insussistenti i presupposti per il riconoscimento di tale forma di protezione maggiore.

Il dovere c.d. “di cooperazione istruttoria”, infatti, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.

Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve, in limine, prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è sicuramente funzionale, in astratto, all’attivazione officiosa del dovere di cooperazione volta all’accertamento della situazione del Paese di origine del richiedente asilo; ma non appare conforme a diritto l’affermazione secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono poi un approfondimento istruttorio officioso (in tal senso, non condivisibilmente, tra le altre, Cass. Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, ma la relativa subordinazione, tout court, al giudizio di veridicità della narrazione alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca: Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202) non appare legittimamente predicabile.

Il principio secondo il quale le dichiarazioni del richiedente giudicate inattendibili non richiedano, comunque, un approfondimento istruttorio officioso va, difatti, opportunamente precisato e circoscritto, nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), qualora la mancanza di tali presupposti emerga ex actis. Di converso, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Cass. 2954/2020; Sez. 1, 3016/2019).

Nella specie – per quanto di qui a breve meglio si dirà – risulta tuttavia accertato che, nella regione di provenienza dell’odierno ricorrente, non sussiste una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato.

5.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., per utilizzo ai fini della elaborazione del giudizio di criteri insufficienti e/o illegittimi nella valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

La corte d’appello avrebbe errato perchè ha basate il giudizio di non credibilità sui seguenti elementi: “poco credibile che egli non fosse a conoscenza del nome del nuovo marito della madre… appariva scarsamente verosimile, che il patrigno esigesse la conversione del solo richiedente non anche dei suoi fratellì mentre dalle fonti consultate emergeva un quadro di Pacifica convivenza tra le diverse fedi religiose in Camerun”.

Il motivo non è che una replica degli argomenti già spesi col primo motivo di ricorso, ed è manifestamente infondato per le stesse ragioni.

5.3. Con il terzo il ricorrente si duole del rigetto della domanda di protezione e/o umanitaria. Sostiene, da un lato, che la Corte d’Appello ha errato nel ritenere che i presupposti per la concessione della protezione umanitaria fossero diversi da quelli necessari per la concessione della protezione sussidiaria; dall’altro che comunque la avrebbe dovuto compiere una “più approfondita verifica delle effettive (sue) condizioni di vulnerabilità personale”; e che comunque è mancata nella specie una “comparazione” tra il “contesto di vita” attuale del ricorrente in Italia, e quello in cui si troverebbe in Camerun.

5.4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della illegittimità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento agli artt. 2 e 111 Cost., per difetto di motivazione sostanziale della sentenza impugnata – insufficienza della sentenza impugnata.

Lamenta che la motivazione è pura apparenza o manifestamente incomprensibile, in quanto slacciata logicamente dalla vicenda storica personale del ricorrente. La stringata sezione relativa alla situazione del Camerun in relazione al diniego dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, appaiono del tutto non dirimenti rispetto al thema decidendum e del tutto stravaganti e superflue rispetto alla vicenda personale del ricorrente.

I motivi, congiuntamente esaminati, sono fondati.

In tema protezione internazionale, il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, che è disancorato dal principio dispositivo e libero da preclusioni e impedimenti processuali, presuppone l’assolvimento da parte del richiedente dell’onere di allegazione dei fatti costitutivi della sua personale esposizione a rischio, a seguito del quale opera il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine del richiedente si verifichino fenomeni tali da giustificare l’applicazione della misura, mediante l’assunzione di informazioni specifiche, attendibili e aggiornate, non risalenti rispetto al tempo della decisione, che il giudice deve riportare nel contesto della motivazione, non potendosi considerare fatti di comune e corrente conoscenza quelli che vengono via via ad accadere nei Paesi estranei alla Comunità Europea (Cass. 11096/2019).

Pertanto sulla base di tali principi il giudice del merito deve verificare la situazione attuale del Paese attraverso delle Coi aggiornate. Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha errato perchè non ha indicato l’anno di pubblicazione delle Coi di riferimento per verificarne l’attualità (cfr. sentenza impugnata, pag. 9 ultimo capoverso). Tale questione impedisce già di per sè sola considerata, di valutare i presupposti del riconoscimento della protezione umanitaria.

Posta tale premessa, deve ancora osservarsi – in applicazioni di principi di diritto già affermati da questa Corte (Cass. 7546/2020) – sul piano della struttura del giudizio di protezione umanitaria che:

a) alla luce di Cass. S.U. n. 29459 del 2019, i presupposti utili per ottenere la protezione umanitaria devono identificarsi autonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori.

Le due valutazioni non sono sovrapponibili. Non si può trascurare, difatti, la necessità di collegare la norma che prevede la protezione umanitaria ai diritti fondamentali che l’alimentano. Gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento ai valori costituzionali e sovranazionali; sicchè, come già puntualizzato da questa Corte ancor prima della pronuncia a sezioni unite, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra le altre, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).

Come ricordato dalle Sezioni unite, le relative basi normative “non sono affatto fragili”, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione. In conformità all’approccio scelto dall’orientamento della Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, seguita, tra varie, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, nonchè, a quanto consta, dalla preponderante giurisprudenza di merito) e condiviso dalle Sezioni Unite, occorre, pertanto, accordare rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

b) la valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo non deve essere rivolta alla capillare ricerca delle eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione della sua personale situazione, volta che il procedimento giurisdizionale di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale assenza di contraddittorio (stante l’assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte.

Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, vanno comunicate al richiedente, che deve avere l’opportunità di spiegare le ragioni delle eventuali contraddizioni rilevate dall’organo giudicante.

Nel settore della protezione internazionale devono riaffermarsi, ratione materiae, i principi affermati da questo stesso giudice di legittimità (Cass. ss.uu. 10531/2013) sul tema della giustizia della decisione, sottolineandosi come la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato (tematica “classica” di diritto processuale) sia posta in funzione di una concezione del processo che semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, ma che, andando a fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione, che deve ritenersi valore primario del processo (valori di cui quei procedimenti sono intrisi e che riguardano le persone, la loro storia, i diritti fondamentali, garantiti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali).

c) Quanto all’attendibilità complessiva del richiedente asilo, la valutazione dell’organo giudicante non può risolversi nell’adozione di formule stereotipate in spregio all’insegnamento delle Corti sovranazionali, predicative della legittimità dell’applicazione del principio del beneficio del dubbio. Il D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3, infatti, dispone che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. Come opportunamente ricordato dal rapporto Beyond Proof Credibility Assessment Asylum Systems dell’UNHCR, “nonostante gli sforzi che il richiedente (ed eventualmente anche la stessa autorità accertante) possa fare per cercare di raccogliere le prove dei fatti affermati, può darsi che permangano tuttavia dubbi relativamente a tutte o ad alcune delle sue affermazioni” e che, talvolta, “la stessa vita o l’incolumità del richiedente potrebbero essere messe a rischio ove la protezione internazionale gli fosse ingiustamente negata”. Tali principi risultano, inoltre, significativamente suffragati dal dictum della stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di onere della prova, secondo cui “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (cfr.: CEDU, R.C. v. Svezia, 2010, paragrafo 50; CEDU, v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU, A.A. v. Svizzera, 2014, paragrafo 59).

Nel caso di specie il giudizio comparativo sulla vulnerabilità del ricorrente (in ordine ai cui criteri, sia pur in diversa fattispecie, cfr. Cass. 1104/2020) deve essere condotto alla luce dei principi poc’anzi indicati, risultando dagli atti che il ricorrente si sia adoperato, per quanto nelle proprie possibilità, per recuperare la documentazione idonea a provare la veridicità delle proprie dichiarazioni, fotografie e altri documenti depositati. Pertanto ha errato la Corte di Appello che nella valutazione sia della documentazione prodotta e sia delle dichiarazioni rese dal richiedente non si è attenuta ai sopradetti principi.

6. Pertanto la Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo e quarto motivo, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.

P.Q.M.

Pertanto la Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo e quarto motivo, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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