Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12127 del 03/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 03/06/2011, (ud. 25/01/2011, dep. 03/06/2011), n.12127

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10337/2007 proposto da:

ORTOFRUTTA S. PIETRO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA QUATTRO FONTANE 20, presso lo studio

dell’avvocato FUSILLO Matteo, che la rappresenta e difende giusta

procura speciale atto Notar LEOFREDDI ANDREA di ROMA del 23/03/2007

rep. n. 15522;

– ricorrente –

contro

S.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO

172, presso lo studio dell’avvocato PANICI Pier Luigi, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2127/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/03/2006 R.G.N. 8205/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

25/01/2011 dal Consigliere Dott. PAOLO STILE;

udito l’Avvocato FUSILLO MATTEO;

udito l’Avvocato PANICI PIERLUIGI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Roma, S.N. esponeva di avere lavorato alle dipendenze della Ortorrutta S. Piet o s.r.l. dal 25.4.91 al 16.8.00, data in cui aveva rassegnato le proprie dimissioni; di essersi sempre occupato del carico del furgone per le consegne giornaliere, nonchè dello scarico del camion e della sistemazione delle merce nelle celle frigorifere; di avere diritto ad essere inquadrato nel 4^ livello contrattuale; di avere osservato l’orario di lavoro 4,30 – 13,30 dal 1991 al 1996 per sei giorni alla settimana e dalla ore 4,30 alle ore 14,15 fino al 16.9.2000 per sei giorni alla settimana; di avere percepito una retribuzione pari a L. 1.800.000 mensili dall’aprile 1991 al 30.6.96, di L. 2.000.000 dal 1.7.96 al 30.7.98 e di L. 2.200.000 mensili dal 1.8.98 sino alla fine del rapporto di lavoro; di essere rimasto creditore della somma complessiva di L. 73.683.158 per differenze retribuutive, 13^ e 14^ mensilità, indennità sostitutiva di ferie non godute e TFR. La convenuta eccepiva la nullità del ricorso introduttivo e nel merito deduceva che tra le parti era stato sottoscritto un contratto di associazione in partecipazione in data 11.9.91 e che non vi era stata alcuna prestazione di attività lavorativa da parte del S. anteriormente a tale data; che il rapporto si era poi risolto nel settembre 1999 ad iniziativa del ricorrente; che, pertanto, era infondata ogni pretesa basata sull’assunto della natura subordinata del rapporto di lavoro; che il ricorrente aveva percepito importi variabili a titolo di acconto sulla partecipazione agli utili ed aveva osservato l’orario 6,30-13,30; che le mansioni svolte non potevano ricondursi ad un livello superiore al 5^; che i conteggi formulati dalla controparte erano apodittici ed arbitrari.

Espletata l’istruttoria testimoniale, il Tribunale con sentenza del 29 ottobre 2003 rigettava la domanda del S., osservando che le erogazioni settimanali corrisposte al ricorrente erano state calcolate sugli utili, a loro volta risultanti dagli incassi netti dell’attività commerciale del magazzino, previa detrazione dei costi di esercizio; che di detti compensi il ricorrente aveva rilasciato quietanza; che il ricorrente non aveva allegato che il rapporto di lavoro subordinato era dissimulato dal contratto associativi Avverso tale decisione proponeva appello il S. che lamentava l’erronea valutazione delle risultanze di causa quanto alla ritenuta natura del rapporto di associazione in partecipazione e chiedeva la riforma della gravata sentenza, insistendo nelle originarie pretese.

L’appellata si costituiva per resistere al gravarne e chiederne il rigetto.

Con sentenza del 6-28 marzo 2006, l’adita Corte d’appello di Roma, non definitivamente pronunciando, in riforma della impugnata decisione, dichiarava che tra le parti in causa era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dall’11 settembre 1991 al 16 settembre 1999 con diritto del lavoratore all’inquadramento nel 5^ livello contrattuale ed orario lavorativo di 54 ore settimanali fino al 1996 e di 58 ore settimanali successivamente; disponeva con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio.

A sostegno della decisione osservava, tra l’altro, che dal materiale probatorio acquisito emergevano connotati dell’intercorso rapporto che escludevano la sussistenza di un rapporto di associazione in partecipazione e cioè la partecipazione del S., come associato, al rischio di impresa ed il controllo della gestione, mentre risultavano presenti elementi indicativi della subordinazione:

orario determinato, stipendio fisso, organizzazione del lavoro e direttive di B.C., amministratrice dell’azienda.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre l’Ortofrutta S. Pietro srl in liquidazione con due motivi.

Resiste il S. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso la Ortofrutta San Pietro srl, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., e segg. e art. 2549 c.c., e segg., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamenta che la Corte territoriale si sia discostata dai criteri affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di distinzione fra rapporti di lavoro autonomo e subordinato, secondo cui ai detti fini ha rilevanza prioritaria il nomen iuris concordato dalle parti, ove la qualificazione negoziale non sia contrastata univocamente da elementi probatori correlati alle concrete modalità di svolgimento del rapporto stesso.

Pertanto – prosegue la ricorrente – soltanto in presenza di evidenti discordanze fra l’analisi del nomen iuris ed il concreto atteggiarsi del rapporto, nel suo effettivo svolgimento, deve essere verificata l’esistenza dei parametri qualificanti la natura subordinata del rapporto stesso.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 421 c.p.c., lamenta che la Corte d’appello abbia privilegiato tra le risultanze probatorie la prova testimoniale resa da lavoratori aventi controversie contro la medesima ricorrente anzichè l’unico altro testimone escusso.

Entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente perchè strettamente connessi, sono infondati.

Invero, la Corte distrettuale, dopo avere correttamente osservato che, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro di cui le parti abbiano convenuto una determinata qualificazione con un atto scritto, la questione della identificazione del reale tipo di rapporto deve essere affrontata in relazione alle effettive caratteristiche dello stesso, quali desumibili anche dalle modalità della sua attuazione, in quanto nei rapporti di durata il comportamento delle parti è idoneo ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale, sia una nuova diversa volontà (Cass. n. 14294/04), ha proceduto alla identificazzione degli elementi che differenziano il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato dal rapporto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa.

A tal fine, richiamando la giurisprudenza di questa Corte in materia, ha correttamente affermato che elemento differenziale tra le due fattispecie risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa, dovendo egli partecipare sia agli utili che alle perdite (Cass. n. 19475/03); sicchè – prosegue la Corte di merito – può ben affermarsi che elementi che caratterizzano il contratto di associazione sono il controllo della gestione dell’impresa da parte dell’associato e il periodico rendiconto dell’ assodante.

Tanto chiarito, in punto di diritto, il Giudice a quo ha osservato che, nel caso di specie, non solo mancava del tutto la prova sia del periodico rendiconto da parte dell’assodante, sia della partecipazione dell’associato alle perdite dell’impresa e, comunque, dell’esistenza di una qualsivoglia attività di controllo della gestione dell’impresa da parte dell’associato, ma vi era, anzi, la prova contraria, come emergeva dalla deposizione del teste P. a conoscenza dei fatti per avere lavorato insieme al ricorrente e particolarmente attendibile non avendo vertenze in corso con la società.

Nè rileva che a distanza di pochi giorni dalla deposizione il suddetto P. – a dire della ricorrente – abbia inviato alla Direzione Provinciale del Lavoro la richiesta di convocazione per l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, sia perchè la circostanza non esprime di per sè un interesse che determina una incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., sia perchè la contestata decisione si fonda anche sulle deposizioni di altri testi, specificamente indicati, da cui la Corte d’appello ha tratto gli elementi caratterizzanti il dedotto rapporto come subordinato, ai sensi dell’art. 2094 c.c., ossia mansioni svolte (carico e scarico di merce, consegna delle stesse, sistemazione nelle celle frigorifere ecc.), orario predeterminato di lavoro, compenso percepito, esclusione di rischio a carico del S. e sottoposizione a direttive e potere gerarchico altrui.

Devesi, in proposito, ancora rammentare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

Per quanto precede il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2011

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