Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12124 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. III, 22/06/2020, (ud. 19/12/2019, dep. 22/06/2020), n.12124

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27003/2018 proposto da:

GMGG SRL, SOCIETA’ AGRICOLA in persona del legale rappresentante pro

tempore, FIORI SOC COOP in persona del legale rappresentante pro

tempore, DITTA G.M.A., in persona dell’omonima

titolare, elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE UMBERTO TUPINI N.

113, presso lo studio dell’avvocato NICOLA CORRO, che le rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

REGIONE PUGLIA, in persona del Presidente della Giunta Regionale e

legale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO

CONFALONIERI 1, presso lo studio dell’avvocato CARLO CIPRIANI,

rappresentata difesa dall’avvocato EMMANUELE VIRGINTINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 610/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 03/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/12/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Società Cooperativa Fiori, la Società Agricola G.M.G.G. S.r.l. e G.M.A., quale titolare dell’omonima ditta individuale, ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 610/18, del 3 aprile 2018, della Corte di Appello di Bari, che – respingendo il gravame esperito dalle odierne ricorrenti contro la sentenza n. 1659/14, del 2 aprile 2014, del Tribunale di Bari – ha confermato il rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento, e di risarcimento dei danni, proposta dalle odierne ricorrenti in relazione ai rapporti contrattuali, intercorsi con la Regione Puglia in relazione all’esecuzione dei piani di miglioramento agricolo, a valere sul Fondo Sociale Europeo per la quota di competenza della Regione.

2. Riferiscono, in punto di fatto, le odierne ricorrenti di essere state tutte ammesse a fruire, a seguito di selezione operata dalla Regione Puglia, di un contributo finalizzato a piani di miglioramento agricolo a valere, come detto, sul Fondo Sociale Europeo per la quota di competenza della predetta Regione, con conseguente obbligo contrattuale, da parte della stessa, di erogazione del contributo. Avuta, pertanto, comunicazione del decreto di accoglimento degli impegni, le odierne ricorrenti avrebbero avviato i lavori – secondo quanto si legge in ricorso – senza alcuna difformità nell’esecuzione delle opere richieste, nè violando i termini temporali previsti nel decreto di concessione dei contributi e senza dare luogo ad alcun altro tipo di carenza. Ciò nonostante, con nota del 6 agosto 2008, la Regione riferiva dell’esistenza di un blocco dei pagamenti, disposto sin dal precedente 7 dicembre 2007, nei confronti di tutte le imprese aggiudicatarie del contributo. Detto blocco, peraltro, era stato operato in relazione ad una vicenda che aveva riguardato non le attuali ricorrenti, bensì un quarto soggetto, ovvero Giampiero G., come titolare dell’omonima ditta individuale (il quale, si apprende dalla lettura della sentenza impugnata, aveva, peraltro, agito in giudizio, al pari degli odierni ricorrenti, per far valere identica pretesa, quantunque, poi, la causa dallo stesso introdotta risulti essere stata sospesa, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della definizione di un procedimento penale a carico di tale soggetto, vista l’avvenuta costituzione quale parte civile, della Regione, in quel procedimento).

Secondo quanto si legge in ricorso, il predetto G.G., anch’egli – come detto – ammesso al contributo, richiedeva di fruire di un’anticipazione dello stesso, producendo, ai sensi del bando di gara, una fideiussione bancaria, tanto che la Regione emanava il relativo nulla osta alla corresponsione. Nondimeno, la medesima Regione non aveva, poi, corrisposto la relativa somma, successivamente dichiarando che si era a ciò determinata sulla base di una nota inoltrata dalla società Reale Mutua Assicurazioni (che aveva rilasciato la predetta polizza), la quale aveva invitato la Regione a non procedere alla liquidazione in favore di G.G., essendole stato notificato un ordine di esibizione di atti e documenti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari, nell’ambito di una indagine per il reato di cui all’art. 640-bis c.p..

Peraltro, successivamente, la stessa Regione, nell’ammettere di non aver provveduto alla erogazione dell’importo corrispondente alla anticipazione, avrebbe riferito di aver erroneamente interpretato l’invito rivoltole dal fideiussore come decisione di sospendere o revocare la relativa polizza.

Ciò detto, le odierne ricorrenti lamentano che nessun provvedimento era stato assunto dalla Regione per l’erogazione degli importi ad esse dovuti, nè alcuna comunicazione veniva loro trasmessa, volta a comprovare un legittimo impedimento o altro elemento ostativo alla erogazione del contributo; solo successivamente, il blocco dei finanziamenti e dei pagamenti disposto dalla Regione veniva dalla stessa giustificato, come in particolare risulta dalla sentenza impugnata, con nota del 7 aprile 2008, che riferiva dell’avvenuto sequestro penale, ex art. 283 c.p.p., del fascicolo inerente al finanziamento della ditta facente capo al predetto G.G..

Radicato, come detto, innanzi al Tribunale di Bari il giudizio volto a conseguire la risoluzione, per inadempimento della Regione, della relazione contrattuale intercorsa con gli odierni ricorrenti, oltre al risarcimento del danno, la causa veniva istruita, tra l’altro, con lo svolgimento di consulenza tecnica d’ufficio, affidata al geometra Ga.Gi.. A costui, in particolare, era affidato il compito di verificare l’avvenuta esecuzione delle attività cui erano tenuti i soggetti beneficiari del contributo. L’adito Tribunale, tuttavia, disattendendo le conclusioni proposte dal consulente d’ufficio (che attestava la regolare esecuzione dei lavori “de quibus”), rigettava la domanda.

Proposto gravame dalle attrici soccombenti, il giudice di appello lo respingeva, confermando la decisione del primo giudice anche sul rilievo che la Regione, nel corso del giudizio di secondo grado, aveva prodotto sentenza ex art. 444 c.p.p., emessa a carico del Ga., in relazione al reato di falsa perizia contestatogli proprio con riferimento all’elaborato predisposto nell’ambito del presente giudizio.

3. Avverso la decisione della Corte barese hanno proposto ricorso per cassazione le già attrici e appellanti, sulla base di due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si assume violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e di ogni altro principio e norma in materia di responsabilità contrattuale.

Nel sottolineare come la responsabilità contrattuale sia ipotizzabile in ogni caso in cui l’obbligo di prestazione resti inadempiuto, qualunque ne sia la fonte, nonchè richiamando la “regula iuris” secondo cui il creditore che faccia valere l’inadempimento, al fine sia di pretendere la risoluzione del contratto sia solo il risarcimento del danno, è tenuto unicamente ad allegare l’inadempimento stesso (dovendo il debitore, per esonerarsi da responsabilità, dimostrare l’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile), le ricorrenti censurano la sentenza impugnata laddove afferma che “gli attori avrebbero dovuto provare l’inadempimento della Regione Puglia agli obblighi contrattuali assunti con le delibere di approvazione dei finanziamenti concessi”.

Le ricorrenti si dolgono, inoltre, del fatto che la sentenza impugnata le abbia ritenute inadempienti, pervenendo a tale conclusione esclusivamente sul rilievo che la consulenza tecnica d’ufficio, attestante invece l’esatto contrario, è stata riconosciuta falsa, per effetto della già richiamata sentenza di applicazione della pena su richiesta, emessa a carico del geometra Ga. per il reato ex art. 373 c.p..

Reputano, infatti, le odierne ricorrenti che alla falsità di quell’elaborato non possa essere riconosciuta portata più ampia di quella che possiede, nel senso che, una volta rimosso il documento sul quale le allora attrici avevano fondato alcune delle loro tesi difensive, esse, per ciò solo, non possono essere ritenute inadempienti, “con traslazione, a loro danno, dell’onere probatorio”.

3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si assume violazione e falsa applicazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c. e di ogni altro principio e norma in materia di garanzia del contraddittorio e rilevabilità d’ufficio.

Richiamato, in questo caso, il principio secondo cui deve ritenersi nulla la pronuncia del giudice che ponga a fondamento della propria decisione una questione rilevata d’ufficio e non rimessa al dibattito processuale, le ricorrenti evidenziano come l’inadempimento ad esse ascritto sia stato rilevato “ex officio” dalla lettura della sentenza di applicazione della pena emessa nei confronti del geometra Ga., senza che le parti abbiano avuto modo di dialogare in ordine a tali a tale questione.

4. La Regione Puglia ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità, ovvero il rigetto.

Rileva, in punto di fatto, l’odierna controricorrente come nel corso del giudizio di primo grado ebbero a verificarsi una serie di fatti, dei quali è stata omessa la narrazione nell’avversario ricorso, rilevanti ai fini della decisione da adottarsi da parte di questa Corte.

In particolare, la Regione riferisce che, in data 22 agosto 2011, le vennero notificati i rapporti redatti dalla Guardia di Finanza – ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 17 – nei confronti, tra gli altri, di G.M.A. e di G.G., sia in proprio che quali amministratori, l’una, della Società G.M.G.G. S.r.l., l’altro, invece, della Società Cooperativa Fiori. In particolare, dagli accertamenti svolti dalla guardia di finanza, anche con l’ausilio di un’apposita consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica di Bari, emerse che le odierne ricorrenti avevano presentato documentazione amministrativo-contabile, a corredo delle istanze tendenti ad ottenere il finanziamento comunitario, viziate “ab substantiam actus”, in quanto recanti dati che non trovavano corrispondenza con la realtà, essendo riferiti ad operazioni in tutto o in parte inesistenti.

Su tali basi, pertanto, i predetti germani G. risultavano essere stati rinviati a giudizio per i reati di cui agli artt. 81,110 e 640-bis c.p., oltre che del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2.

Ciò detto, la controricorrente assume l’inammissibilità, e comunque l’infondatezza, di entrambi i motivi di ricorso. In particolare, quanto al primo, si sottolinea come la Corte barese, nel dichiarare inattendibili le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, abbia ritenuto di dover prescindere completamente da essa, fondando la propria decisione sui documenti prodotti dalla Regione Puglia ed attestanti, comunque, l’inadempimento dell’odierne ricorrenti. Quanto, invece, al secondo motivo, essendo stato il presente giudizio instaurato il 20 ottobre 2008 si reputa non applicabile, “ratione temporis”, l’art. 101 c.p.c., comma 2; sotto altro aspetto, invece, si ribadisce come la sentenza impugnata non abbia fatto accertato l’inadempimento delle ricorrenti sulla base della sola consulenza tecnica d’ufficio la cui falsità è stata accertata all’esito del giudizio ex art. 444 c.p.p., celebrato a carico del Ga..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso va rigettato.

5.1. I motivi – da esaminarsi congiuntamente, data la loro connessione – non sono fondati.

5.1.1. Tale esito, per vero, s’impone – in relazione al primo motivo – a prescindere dal rilievo, che, mentre risulta certamente ipotizzabile la responsabilità ex art. 1218 c.c., quanto al mancato adempimento di un obbligo “riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”, ovvero una “responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica” assunta dall’obbligato, anche se “non propriamente “ex contractu”” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 6 marzo 2015 n. 4628, Rv. 634761-01), è da escludere, invece, che la strumento della risoluzione per inadempimento possa prescindere dall’esistenza di un accordo contrattuale, atteso che la funzione dell’azione ex art. 1453 c.c., è quello di “sciogliere” le parti da detto accordo.

La questione, tuttavia, resta su un piano puramente teorico, avendo, comunque, le ricorrenti agito, “temporibus illis”, (anche) per il risarcimento del danno da inadempimento. Evenienza, questa, che indubbiamente comporta l’applicazione del principio – dalle stesse richiamato – secondo cui “il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l’adempimento deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento” (da ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 2015, n. 826, Rv. 634361-01).

Il rilievo, tuttavia, non giova alle odierne ricorrenti, poichè la Corte territoriale – al di là del riferimento ad un (invero, inesistente) “onere”, da parte delle stesse, di provare l’inadempimento della Regione – non ha fatto altro che, nel valutare i reciproci inadempimenti addebitati, rispettivamente, ai beneficiari del contributo e all’ente erogatore, che dare prevalenza a quelli dei primi.

Sul punto, invero, occorre rammentare che, nell’ipotesi di un impegno contrattuale contraddistinto da prestazioni corrispettive, “in caso di inadempienze reciproche deve procedersi ad un esame del comportamento complessivo delle parti”, onde “stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale, con la conseguenza che, qualora l’inadempimento di una delle parti sia valutato come prevalente deve considerarsi legittimo il rifiuto dell’altra di adempiere alla propria obbligazione” (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 22 maggio 2019, n. 13827, Rv. 654177-01).

Orbene, nel compiere tale valutazione la sentenza impugnata ha ritenuto – e non solo sulla scorta, come si dirà, della CTU riconosciuta come falsa, all’esito della pronuncia di applicazione della pena su richiesta, per il delitto ex art. 373 c.p., a carico del Geometra Ga. – che le odierne ricorrenti non avessero fatto quanto loro imposto dalla “lex contractus” costituita dal bando regionale.

La Corte barese, per vero, non ha dato unicamente rilievo alla falsità dell’elaborato predisposto dall’ausiliario, per affermare che “le opere non erano state regolarmente effettuate e/o rendicontate in conformità del bando regionale”.

Invero, la sentenza impugnata ha valorizzato anche “gli atti di indagine compiuti dalla Guardia di Finanza-Nucleo di Polizia Tributaria di Bari”, e particolarmente al “rapporto indirizzato alla Regione Puglia il 22 agosto 2011”.

Da quest’ultimo, in particolare si desume – sempre secondo la sentenza impugnata – che “gli accertamenti svolti anche mediante l’esecuzione di intercettazioni telefoniche ed ambientali” (queste ultime “supportate da ulteriori riscontri quali controlli incrociati, assunzione di sommarie informazioni, accertamenti bancari”) avevano “permesso di appurare” quanto segue. Ovvero, che G.G.D., padre di G.M.A. e G. (vale a dire, i due rappresentanti legali delle società odierne ricorrenti, nonchè, la prima, titolare della ditta individuale anch’essa da annoverare fra i ricorrenti), “aveva ideato un particolare sistema di frode consistente nell’utilizzare imprese agricole – anche appositamente costituite – formalmente intestati ai propri familiari, al fine di ottenere, con la consapevole partecipazione di questi ultimi, la concessione di finanziamenti agevolati da parte della regione Puglia”, tanto che detti soggetti, come attesta sempre la sentenza impugnata, risultano tutti rinviati a giudizio per i già descritti i reati di cui agli artt. 110 e 640-bis c.p..

In particolare, la sentenza impugnata sottolinea come gli operatori della Guardia di Finanza avessero riferito che il predetto G.G.D., con la collaborazione dei componenti del proprio nucleo familiare, “aveva appositamente costituito imprese individuali e societarie, anche in concomitanza alla presentazione delle singole istanze di finanziamento agevolato, già con l’intento fraudolento di porre in essere artifici e raggiri finalizzati a percepire detti finanziamenti in modo illecito, costituendo, all’uopo, un soggetto giuridico di comodo” (la società cooperativa “Servagri”) che “avrebbe emesso documenti fiscali a giustificazione dei costi sostenuti per la realizzazione dei progetti”. Infine, la sentenza ha dato atto come i predetti G.G. e M.A., “sebbene formali intestatari di tutte le imprese agricole sia individuali che societarie, per qualificati come coltivatori diretti ovvero imprenditori agricoli professionali, nel periodo oggetto di indagine, da marzo 2007 a novembre 2008, erano, in realtà, studenti frequentanti istituti di scuola media superiore o corsi universitari, motivo per il quale non avrebbero potuto espletare le incombenze relative alla gestione delle imprese agrarie”.

Tali affermazioni, dunque, non lasciano lo spazio alcuno per ritenere che l’accertato inadempimento, da parte delle odierne ricorrenti (e non della Regione), degli impegni nascenti dall’ammissione al contributo, sia stata fondata non sulla sola consulenza tecnica d’ufficio, la cui riscontrata falsità, secondo la prospettazione delle ricorrenti, sarebbe stata “utilizzata” dalla Corte barese per “traslare” su di esse l’onere della prova di essere state adempienti agli obblighi nascenti dal bando.

5.1.2. Per le stesse ragioni, anche il secondo motivo di ricorso risulta, pertanto, non fondato, non senza rilevare, comunque, l’erroneità dell’interpretazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, proposta dalle odierne le ricorrenti.

Sul punto, infatti, va ribadito come sia da respingere quell’interpretazione del “divieto” delle “sentenze della terza via” (certamente operante, a dispetto di quanto eccepito dalla controricorrente, anche per i giudizi incardinati prima del 20 ottobre 2008; cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 27 novembre 2018, n. 30716, Rv. 651531-01) “secondo la quale, ogniqualvolta il giudicante intendesse accingersi a dare di uno degli atti del giudizio una lettura diversa da quella prospettata dalla parte, dovrebbe prima sottoporre quest’ultima alle parti”, non tutelandosi, infatti, attraverso tale divieto “il diritto al contraddittorio fino al punto da garantire alla parte di interloquire sui singoli passaggi argomentativi e prima che essi siano anche solo ipotizzati “in mente sua” dal giudicante”, trattandosi di “momenti obiettivamente riservati al foro interno del decidente e propri della sua attività propriamente intellettiva di elaborazione del materiale” istruttorio, dovendo alle parti assicurarsi solo la facoltà di “dire” e “contraddire” in “merito all’oggetto della questione nel suo complesso” (si veda, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16504, Rv. 644957-02).

6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

7. Deve essere, inoltre, disposta la condanna delle ricorrenti – ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3 – a pagare alla Regione Puglia l’ulteriore somma che si reputa equo fissare in Euro 10.000,00.

Sul punto va premesso, invero, che lo scopo di tale norma è quello di sanzionare una condotta “oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”” (tra le più recenti, “ex multis”, Cass. Sez. 3, sent. 30 marzo 2018, n. 7901, Rv. 648311-01; Cass. Sez. 2, sent. 21 novembre 2017, n. 27623, Rv. 646080-01), e, dunque, nel giudizio di legittimità, di uso indebito dello strumento impugnatorio.

Siffatta evenienza, in particolare, è stata ravvisata in casi o di vera e propria “giuridica insostenibilità” del ricorso (Cass. Sez. 3, sent. 14 ottobre 2016, n. 20732, Rv. 642925-01), “non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate” con lo stesso (così, Cass. Sez. Un., sent. 20 aprile 2018, n. 9912, Rv. 648130-02), ovvero in presenza di altre condotte processuali – al pari indicative dello “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali”, e suscettibili, come tali, di determinare “un ingiustificato aumento del contenzioso”, così ostacolando “la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione” – quali “la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ove sia applicabile, “catione temporis”, l’art. 348-ter c.p.c., comma 5, che ne esclude l’invocabilità” (Cass. Sez. 3, ord. 30 aprile 2018, n. 10327, Rv. 648432-01).

Nella specie, come visto, le ricorrenti, oltre a “strumentalizzare” un passaggio della sentenza – inserito, per vero inopportunamente, ma nella sostanza solo “ad colorandum” (visto che la Corte territoriale ha ampiamente esplicitato i motivi per cui la Regione aveva sospeso il pagamento dei contributi alle ricorrenti) – sugli inadempimenti che le parti in causa si erano reciprocamente addebitati, si dolgono di una circostanza che risulta smentita “per tabulas”; cioè il fatto che il giudice di appello avrebbe attribuito rilievo esclusivo, per pervenire a tale conclusione, alla falsità, riconosciuta in sede penale, dell’elaborato del CTU. La mera lettura della sentenza “restituisce”, per contro, un quadro assai diverso, facendo emergere come almeno nel “costrutto” motivazionale del giudice di appello (in altra sede giudiziaria dovrà accertarsi se ciò, poi, corrisponda alla effettiva realtà dei fatti) – rilievo preponderante sia stato attribuito, sulla base di una pluralità di elementi istruttori, all’ipotesi che le società, e l’imprenditrice individuale, richiedenti il contributo fossero mere “prestanome” di un unico soggetto, responsabile di una complessa attività addirittura criminale. Orbene, a prescindere dalla – effettiva fondatezza di tale ipotesi (da accertarsi, come detto, in diversa sede giudiziale), tanto bastava per ritenere che la Corte barese avesse adeguatamente soddisfatto i propri oneri motivazionali, ciò che fa apparire del tutto defatigatoria l’odierna iniziativa volta a porre tale assunto in discussione.

Di qui, pertanto, la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3.

8. A carico delle ricorrenti sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando, in solido, la Società Cooperativa Fiori, la Società Agricola G.M.G.G. S.r.l. e G.M.A. a rifondere alla Regione Puglia le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 10.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, condanna, in solido, la Società Cooperativa Fiori, la Società Agricola G.M.G.G. S.r.l. e G.M.A. a rifondere alla Regione Puglia la somma di Euro 10.000,00.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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