Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12118 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. III, 22/06/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 22/06/2020), n.12118

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24389/2017 proposto da:

GARAGE BRINDISI DI C.A. SAS, in persona

dell’amministratore unico e l.r.p.t., domicialiato ex lege in ROMA,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati MARCO SCOGNAMIGLIO, MASSIMILIANO SCOGNAMIGLIO,

PASQUALE SCOGNAMIGLIO;

– ricorrente –

contro

CA.IG. erede universale dei coniugi CA.DE. e

D.S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, V. LUCIO PAPIRIO 83,

presso lo studio dell’avvocato ANTONIO AVITABILE, rappresentato e

difeso dall’avvocato LUIGI SCIALDONI;

– controricorrente –

e contro

D.S.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3514/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 31/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/12/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del 1 motivo;

udito l’Avvocato MARCO SCOGNAMIGLIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Garage Brindisi di C.A. & C. S.a.s. (d’ora in poi, “Garage Brindisi”) ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3514/17, del 31 luglio 2017, della Corte di Appello di Napoli, che – accogliendo il gravame esperito da D.S.F. e Ca.Ig., nella loro qualità di eredi di Ca.De., contro la sentenza n. 5989/12, del 21 maggio 2012, del Tribunale di Napoli – ha accolto la querela di falso proposta in corso di causa da Ca.De., dichiarando la falsità della scrittura privata del 25 novembre 1997, della quale ha ordinato la cancellazione ex art. 537 c.p.p., revocando, per l’effetto, il decreto ingiuntivo n. 5675/05, emesso dal Tribunale di Napoli ed opposto dal medesimo Ca., condannando la società appellata, odierna ricorrente, a pagare le spese di entrambi i gradi di giudizio.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver presentato ricorso per decreto ingiuntivo innanzi al Tribunale di Napoli, affinchè ingiungesse a Ca.De. di pagarle la somma di Euro 25.822,84, sulla base della ricognizione di debito da questi asseritamente operata con la già citata scrittura del 25 novembre 1997, documento prodotto in giudizio, inizialmente, solo in copia. Il provvedimento monitorio veniva, però, opposto dal Ca., sul duplice rilievo del difetto di autenticità sia della sottoscrizione (peraltro, di seguito, riconosciuta dallo stesso come propria, allorchè il documento venne esibito in originale), sia del contenuto della scrittura privata suddetta, assumendo l’opponente che la firma fosse stata apposta su un foglio in bianco, successivamente riempito in modo abusivo, ricorrendo, così, l’ipotesi del riempimento “absque pactis”. Proposta, quindi, querela di falso, il deducente evidenziava, innanzitutto, il contrasto tra la data apposta in calce alla scrittura privata e quella riportata nel documento con cui era stato identificato il sottoscrittore Ca.De. (carta di identità rilasciata solo nel 2001, a fronte di una scrittura datata, invece, 25 novembre 1997). Valorizzando, tuttavia, le altre prove articolate dalla società opposta (interrogatorio libero e prova testimoniale), il Tribunale partenopeo rigettava la querela di falso avverso il riconoscimento di debito, e con essa l’opposizione al decreto ingiuntivo, del quale dichiarava l’esecutorietà, condannando, infine, gli eredi del Ca. – che avevano riassunto il giudizio ex art. 645 c.p.c., dopo l’interruzione conseguente al decesso del proprio dante causa – al pagamento delle spese processuali.

Esperito gravame dagli eredi del Ca. avverso la sentenza del giudice di prime cure, la Corte territoriale lo accoglieva, riformando “in toto” la decisione impugnata. Essa, in particolare, perveniva a tale conclusione sul rilievo di alcune “significative discrepanze” presenti nella scrittura, quali l’errata indicazione del luogo di nascita del sottoscrittore ((OMISSIS), e non invece (OMISSIS)), l’incompleta trascrizione del codice fiscale dello stesso e la già segnalata identificazione del Ca. sulla base di un documento d’identità rilasciato dopo la formazione della scrittura, ritenendo poco logica e verosimile l’ipotesi di una retrodatazione del documento, argomentata dall’allora appellata (peraltro, dopo aver inizialmente sostenuto la contestualità tra dazione del danaro e sottoscrizione dell’atto di ricognizione di debito). L’appellata, infatti, aveva sostenuto che, nel 1997, il padre del legale rappresentante della Garage Brindisi, ovvero C.P., aveva dato in prestito a Ca.De., in contanti, cinquanta milioni di lire, prelevandoli dalla cassaforte della società, senza pretendere la sottoscrizione di alcun documento che attestasse l’avvenuta dazione, stante il risalente rapporto di amicizia e fiducia tra mutuante e mutuatario. Solo in seguito, ed esattamente nel 2003, il C., allorchè scoprì di essere affetto da una malattia incurabile, avrebbe chiesto al Ca., per cautelarsi, la sottoscrizione dell’atto di ricognizione di debito, retrodatandolo, ciò che spiegherebbe le rilevate discrepanze.

Siffatta versione dell’accaduto è stata, tuttavia, esclusa dal giudice di appello, che ha ritenuto la stessa non verosimile, ritenendo così superata la presunzione, “iuris tantum”, di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternità dello scritto, ex art. 2702 c.c., accreditando la diversa ricostruzione degli appellanti. Secondo essi, infatti, il Ca. (rappresentante legale della società “Garage Meridionale”, affittuaria di azienda facente capo proprio alla società Garage Brindisi) ebbe a firmare un foglio in bianco per consentire gli adempimenti fiscali richiesti dal comune commercialista.

3. Avverso la decisione della Corte partenopea ha proposto ricorso per cassazione la società Garage Brindisi, sulla base – come detto di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – si assume violazione o falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1, nonchè nullità della sentenza o del procedimento.

Si censura la decisione impugnata, innanzitutto, nella parte in cui ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dall’odierna ricorrente, che aveva dedotto la mancanza delle indicazioni prescritte dall’art. 342 c.p.c., comma 1, nn. 1) e 2), vale a dire: l’indicazione delle parti della sentenza attinte da impugnazione, le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto operata dal giudice di prime cure, le norme violate, le circostanze da cui sarebbe emersa tale violazione, nonchè la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Si censura la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto sufficiente, per superare l’eccezione sollevata dall’appellata, che gli eredi del Ca. avessero individuato “in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento a specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata”.

Osserva, per contro, la ricorrente come la Corte partenopea avrebbe dovuto aderire a quell’orientamento della Suprema Corte, ritenuto più in linea col sistema a preclusioni rigide che caratterizza il processo civile e col novellato testo dell’art. 342 c.p.c., comma 1, secondo cui “l’atto di appello, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, deve offrire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo Giudice, per cui è necessario che contenga oltre ad una parte volitiva, che individui i passaggi della sentenza non condivisi, anche una parte argomentativa, che esponga le ragioni sulle quali si fonda il gravame con sufficiente grado di specificità, da correlare alla motivazione della sentenza impugnata” (richiama, sul punto, la ricorrente Cass. Sez. 1, sent. 27 settembre 2016, n. 18932 e Cass. Sez. Lav., sent. 7 settembre 2016, n. 17712). Nella specie, il terzo motivo di appello, in accoglimento del quale è stata pronunciata la sentenza oggi impugnata, si sarebbe sostanziato nella mera riproduzione letterale di una parte del contenuto della comparsa conclusionale di primo grado, risultando del tutto avulso dalla decisione oggetto di gravame e, pertanto, non conforme ai requisiti richiesti dalla norma del codice di rito civile sopra richiamata.

3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – si assume violazione o falsa applicazione dell’art. 2727 c.c. e art. 2697 c.c., comma 1 e art. 221 c.p.c., comma 2, nonchè nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1.

Secondo la ricorrente, la parte che affermi l’abusivo riempimento, “absque pactis”, di un foglio da essa firmato in bianco, ha l’onere di provare i fatti storici su cui si fonda la censura, ovvero che la firma sia stata effettivamente apposta su un foglio in bianco e che il riempimento sia avvenuto successivamente, nonchè a sua insaputa. Orbene, si censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la suddetta prova sulla base di presunzioni che, a ben vedere, sarebbero soltanto meri “argomenti” o “considerazioni” di controparte, come tali privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge. In particolare, laddove la sentenza impugnata ha ritenuto di fare proprio il rilievo degli allora appellanti (che ritenevano “probabile” che essa Garage Brindisi fosse venuta in possesso del foglio firmato in bianco “per essere stato utilizzato presso il commercialista”, comune anche alla Garage Meridionale, di cui il Ca. era il legale rappresentante), avrebbe violato il divieto della cd. “praesumptio de praesumpto”, utilizzando una prima presunzione per farne derivare un’altra presunzione.

La Corte territoriale sarebbe, dunque, incorsa in violazione o falsa applicazione dell’art. 2727 c.c. e art. 2697 c.c., comma 1, oltre che dell’art. 221 c.p.c., comma 2, ritenendo soddisfatto l’onere probatorio incombente sull’appellante circa la dimostrazione dell’asserita falsità del contenuto del documento censurato.

Infine, la ricorrente, sebbene si ritenga dispensata – a norma dell’art. 2728 c.c., comma 1 – dall’onere di fornire una qualunque prova, stante la presunzione “iuris tantum”, ex art. 2702 c.c. (non superata, a suo dire, da controparte), afferma di avere, comunque, provato la propria domanda creditoria sulla base delle prove orali assunte, e mal valutate dalla Corte partenopea, che ha ritenuto “scarsamente articolate” le dichiarazioni testimoniali, in palese violazione del disposto di cui all’art. 116 c.p.c., comma 1.

3.3. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1988 c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha evidenziato, sia pure solo incidentalmente, che le ragioni del prestito sarebbero “rimaste sconosciute”.

Sul punto, la ricorrente sottolinea che la scrittura privata del 25 novembre 1997 integra una “ricognizione di debito ex art. 1988 c.c., che, in quanto tale, dispensa il creditore dall’onere di dimostrare il rapporto fondamentale sottostante (cd. astrazione processuale della “causa debendi”), la cui esistenza si presume fino a prova contraria, nella specie non offerta dal Ca., nè tampoco dai suoi aventi causa”. Pertanto, alla luce di tale considerazione, si assume che l’odierna ricorrente non fosse affatto tenuta a provare il titolo della effettuata dazione di denaro.

4. Ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità, il solo Ca.Ig., essendo deceduta nelle more del giudizio anche D.S.F..

Quanto al primo motivo di ricorso, se ne chiede la declaratoria di inammissibilità ai sensi del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio).

La disposizione viene interpretata nel senso che alla fattispecie “de qua” (querela di falso ex artt. 221 e 222 c.p.c.) deve applicarsi dell’art. 348-bis c.p.c., comma 2, che escluderebbe non solo l’operatività del cd. “filtro in appello” per le cause di cui all’art. 70 c.p.c., comma 1 (nelle quali, come la presente, è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero), ma anche dell’art. 342 c.p.c.; la Corte di Appello di (OMISSIS) non sarebbe, pertanto, incorsa in alcun vizio di omessa pronuncia, in quanto ha ritenuto, sulla scorta del disposto di cui all’art. 348-bis c.p.c., non degna di scrutinio la inammissibile eccezione di nullità proposta dall’appellata.

Anche il secondo motivo di ricorso sarebbe inammissibile, poichè le doglianze mosse dal ricorrente comporterebbero un riesame degli elementi di fatto, riservato al giudice di merito e, come tale, non consentito nel giudizio di legittimità, a maggior ragione se si considera che tutti i profili evidenziati dall’odierno ricorrente sarebbero già stati esaminati e rigettati dal giudice di appello con una “motivazione attenta, coerente e immune da vizi logico-giuridici”.

Infine, il resistente chiede che anche il terzo motivo di ricorso venga dichiarato inammissibile, poichè non vi sarebbe stata alcuna violazione o falsa applicazione dell’art. 1988 c.c., in quanto la Corte territoriale ha accolto la querela di falso, dichiarando la falsità del documento contestato e disponendone la cancellazione ex art. 537 c.p.c., sicchè tale documento avrebbe perso “ogni valore nel mondo giuridico e non può essere assimilato ad una ricognizione di debito”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. “In limine”, peraltro, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del motivo sollevata dal controricorrente.

Si assume, infatti, che le cause di falso – come, in genere, tutte quelle con intervento obbligatorio del Pubblico Ministero – sarebbero sottratte all’operatività della nuova disciplina sui requisiti dell’atto di appello. Tale affermazione fraintende il contenuto del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134.

Infatti, laddove tale norma stabilisce che “il comma 1 non si applica”, in caso di appello “proposto relativamente ad una delle cause di cui all’art. 70 c.p.c., comma 1”, tra le quali rientra quella di falso (che contempla, appunto, come obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero), intende, con tutta evidenza, riferirsi dell’art. 348-bis c.p.c., comma 1. Scopo della norma è, infatti, sottrarre le cause con intervento obbligatorio del Pubblico Ministero a quella modalità di definizione semplificata del giudizio di appello che consente di provvedere sul proposto gravame con ordinanza di manifesta inammissibilità, allorchè esso non presenti ragionevole probabilità di accoglimento. Il “comma 1”, dunque, al quale si fa riferimento non è quello dello stesso art. 54 (come, invece, reputa l’odierno controricorrente, peraltro con esegesi erronea anche dal punto di vista letterale, come si dirà appena di seguito), ovvero la norma che ha “novellato” il testo dell’art. 342 c.p.c..

Invero, il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, stabilisce che al codice di rito civile siano apportate una serie di modifiche, in particolare recando – con la lett. Oa), inserita in sede di conversione in legge del decreto suddetto – il nuovo testo dell’art. 342 c.p.c.; è, invece, la successiva lett. a) quella che introduce nel codice di rito civile, “ab ovo”, il già citato art. 348-bis, articolo che si compone di due commi, il secondo dei quali – alla lettera a) – introduce una disciplina derogatoria del medesimo art. 348-bis, comma 1.

Dunque, il mero esame letterale del citato art. 54, smentisce l’eccezione del controricorrente, secondo cui il primo motivo del presente ricorso sarebbe inammissibile, per essere – come detto – i giudizi di falso sottratti all’operatività dell’art. 342 c.p.c., nuovo testo.

6.1.2. Ciò detto, e passando ad esaminare il presente motivo di ricorso, dello stesso va esclusa – come anticipato – la fondatezza.

Il suo esame, naturalmente, va effettuato alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte – con pronuncia sopravvenuta rispetto alla proposizione del presente ricorso – in ordine alla corretta interpretazione del novellato testo dell’art. 342 c.p.c..

Tale arresto, in particolare, ha enunciato il principio secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, vanno, si, “interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”, precisando, però, come a tal fine non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01).

Nel caso di specie, la sentenza pronunciata dal giudice di prime cure (come, del resto, anche quella di appello oggi impugnata), nel decidere in ordine alla falsità del documento, o meglio del suo contenuto, per essere stato lo stesso – secondo la prospettazione dell’allora parte attrice in opposizione, ex art. 645 c.p.c., oggetto di un abusivo riempimento, ha operato, sulla scorta delle risultanze istruttorie in atti, un ragionamento di tipo inferenziale. In questo modo si è utilizzato un “modus operandi”, come si vedrà meglio di seguito, di per sè non censurabile (salvo che non si sia tradotto in violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c.). Infatti, in base a costante giurisprudenza di questa Corte, il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova, e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili, in particolare, quando il disconoscimento dell’autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento del documento fuori di qualsiasi intesa, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore.

Ciò detto, pertanto, la “critica” alla sentenza gravata con appello (e, dunque, la “parte argomentativa” del relativo atto) non poteva che sostanziarsi nella riproposizione di quella “lettura” delle risultanze istruttorie idonee, a dire della parte già attrice in opposizione e poi appellante, a fornire la prova presuntiva del riempimento della scrittura “absque pactis”, “lettura” proposta in contrapposizione a quella di controparte (ed accolta dal giudice di prime cure).

Tanto basta, dunque, per ritenere che l’allora appellante abbia soddisfatto il requisito di cui all’art. 342 c.p.c..

Invero, come è stato ancora di recente ribadito da questa Corte, la “specificità dei motivi di appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01), nel senso che la prima va sempre “commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice” (Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2016, n. 15790, Rv. 641584-01). Di conseguenza, l’appellante “che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare “ex novo” le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sè l’inammissibilità dell’appello”, e ciò in quanto, sostenere il contrario, “significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un “quid novi” rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di “nova” prescritto dall’art. 345 c.p.c.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 8 febbraio 2018, n. 3115, Rv. 648034-01).

In conclusione, quando “l’atto d’appello denunci l’erronea valutazione, da parte del giudice di primo grado, degli elementi probatori acquisiti”, risulta “sufficiente, al fine dell’ammissibilità dell’appello, l’enunciazione dei punti sui quali si chiede al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie per la formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto che l’impugnazione medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata” (così Cass. Sez. 2, sent. 12 settembre 2011, n. 18674, Rv. 618982-01, sebbene con riferimento al previgente testo dell’art. 342 c.p.c., ma con principio applicabile – per le ragioni appena chiarite – anche al suo testo “novellato”).

6.2. Anche il secondo motivo non è fondato.

6.2.1. Sul punto, deve muoversi dalla constatazione – già sopra anticipata – che il soggetto il quale “proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova, e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili in particolare quando il disconoscimento dell’autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento del documento fuori di qualsiasi intesa, con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore” (così, quale “leading case”, Cass. Sez. 2, sent. 6 luglio 1983, n. 4571, Rv. 429447-01; in senso conforme, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 1998, n. 6050, Rv. 516554-01).

Orbene, un ragionamento presuntivo (o meglio, di tipo “inferenziale”, dato il rilievo attribuito dalla Corte partenopea, ex art. 116 c.p.c., comma 2, anche all’argomento di prova tratto dal contegno processuale dell’odierna ricorrente) è quello, appunto, operato dalla sentenza impugnata.

Contro di esso, dunque, la sola censura utilmente scrutinabile è quella proposta ai sensi dell’art. 2727 c.c..

6.2.2. Difatti, quanto alla censura articolata sul presupposto che la prova testimoniale sarebbe stata “mal valutata” dal giudice di appello, va data continuità al principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).

D’altra parte, la “valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 4 luglio 2017, n. 16467, Rv. 644812-01; in senso analogo, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 23 maggio 2014, n. 11511, Rv. 631448-01).

Inoltre, poichè l’odierno ricorrente – come detto – lamenta un cattivo apprezzamento delle risultanze istruttorie, non pare pertinente neppure il riferimento all’art. 2697 c.c., visto che la sua violazione “è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

6.2.3. Per contro, e diversamente da quanto invece eccepito dal controricorrente, è ammissibile – come premesso – la censura formulata “sub specie” di violazione dell’art. 2727 c.c., dovendo qui confermarsi che “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., n. 3), (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; in senso sostanzialmente analogo pure Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01 e Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto).

6.2.4. Sebbene ammissibile, tuttavia, la censura di violazione dell’art. 2727 c.c., non è, però, fondata.

6.2.4.1. Nel compiere il proprio ragionamento presuntivo – o meglio, “inferenziale”, se è vero che l’art. 2727 c.c., come ha notato autorevole dottrina processualcivistica, nel momento in cui afferma che il giudice muove da un “fatto noto”, per risalire ad un “fatto ignorato”, prefigura un “iter” logico che non è un risalire all’indietro, ma piuttosto un procedere “in avanti”, verso un’ipotesi da verificare, ovvero verso la dimostrazione di un fatto che è prefigurato come possibile conclusione dell’inferenza in cui si articola il ragionamento presuntivo – la Corte partenopea ha preso le mosse da un fatto incontrovertibile: l’identificazione di Ca.De., nella scrittura privata datata 25 novembre 1997, recante la sua sottoscrizione autografa, mediante un documento rilasciato, invece, in epoca successiva (per l’esattezza, nell’anno 2001).

Da tale “premessa” la Corte partenopea – sulla base di un’inferenza alla quale non può certo negarsi il carattere della “gravità” e “precisione” (riscontrabile ogni qual volta dal fatto noto “sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità”; Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto, nello stesso senso più di recente, Cass. Sez. 2, sent. 6 febbraio 2019, n. 3513, n. 652361-01; Cass. Sez. 2, sent. 31 ottobre 2011, n. 22656, Rv. 619955-01) – ha tratto una prima conclusione: ovvero, che il contenuto del documento fosse stato predisposto in data successiva al 25 novembre 1997, momento, questo, nel quale, secondo l’odierna ricorrente, sarebbe avvenuta la dazione di denaro del quale il D., con la suddetta scrittura, si sarebbe (successivamente) riconosciuto debitore.

Su tale base, in via di ulteriore inferenza, la sentenza impugnata ha ritenuto che la predisposizione del contenuto del documento non solo fosse successiva a tale data, ma che, lungi dall’integrare un caso di retrodatazione, fosse avvenuta “absque pactis”. A tale fine, essa ha valorizzato, innanzitutto, la circostanza che, nella scrittura “de qua”, il luogo di nascita del Ca. era stato riportato erroneamente ((OMISSIS), e non invece (OMISSIS)), così come il suo codice fiscale era indicato in modo incompleto; duplice circostanza che lascia presumere – secondo il cd. “id quod plerumque accidit” – che il riempimento non sia avvenuto alla presenza del Ca., giacchè è ragionevole immaginare che lo stesso avrebbe fatto, altrimenti, rettificare tali dati.

Che si tratti circostanze concordanti con l’ipotesi del riempimento abusivo è conclusione, d’altra parte, conforme alla nozione di concordanza delineata da questa Corte, che la definisce come un “requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi” (così, nuovamente, Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.).

6.2.4.2. Nella stessa prospettiva, ovvero di accreditare l’ipotesi del riempimento “absque pactis”, il giudice di appello ha valorizzato, poi, altri “ragionamenti presuntivi”, a cominciare da quello che reputa non rispondente al cd. “id quod plerumque accidie che la dazione di una somma di denaro tanto ingente (pari a cinquanta milioni di Lire) possa essere avvenuta – come sostiene l’odierna ricorrente – in contanti, con un prelievo degli stessi in cassaforte e, per giunta, con carattere estemporaneo, giacchè il C. avrebbe soddisfatto “rebus sic stantibus” la richiesta di prestito avanzatagli, quello stesso 25 novembre 1997, dal Ca..

Sempre nella stessa prospettiva, la Corte napoletana ha, poi, assegnato rilievo alla circostanza che il prestito – sebbene formalmente “imputato” alla società Garage Meridionale (che è, difatti, il soggetto che ha azionato, nel presente giudizio, la pretesa restitutoria) – fu erogato da un soggetto, C.P., che non ne era il legale rappresentante, e senza che dell’erogazione fosse dato alcun riscontro nella contabilità della società. Singolare, inoltre, è stata ritenuta la scelta che la parti avrebbero compiuto (sempre secondo la versione dell’odierna ricorrente) di retrodatare il momento dell’assunzione dell’impegno restitutorio, in modo da farlo coincidere con quello della dazione, mentre sarebbe stato, piuttosto, ben più logico (ovvero rispondente all'”id quod plerumque accidit”) che nel documento si desse atto della preesistenza dell’avvenuta erogazione. Poco verosimile, infine, è stata ritenuta la coincidenza che, tanto all’avvenuta consegna della somma, quanto alla sottoscrizione della ricognizione di debito (risalente a non meno di sei anni dopo, sempre nella prospettiva della ricorrente), avrebbero assistito le medesime persone, poi escusse in giudizio quali testimoni.

6.2.4.3. Se già questi elementi appaiono idonei a dimostrare la correttezza del ragionamento inferenziale (alla stregua del già più volte richiamato principio secondo cui, ai fini della prova presuntiva, “non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'”id quod plerumque accidit””; cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 9 febbraio 2019, n. 3513, Rv. 652361-01), non può sottacersi neppure un’ulteriore circostanza, anch’essa valorizzata in sentenza.

Il riferimento è al fatto che l’odierna ricorrente, nei propri scritti defensionali di primo grado, aveva sempre sostenuto la contestualità tra erogazione del prestito e sottoscrizione della ricognizione di debito (entrambi fatti risalire al 25 novembre 1997), al punto da articolare, su tale presupposto, i capitoli della richiesta prova testimoniale, salvo, poi, mutare ricostruzione dell’accaduto all’esito dell’interrogatorio libero del legale rappresentante di essa Garage Meridionale ( C.A., figlio di quel C.P. che è individuato quale supposto autore materiale della dazione). Interrogatorio, peraltro, disposto dal Tribunale su sollecitazione del Pubblico Ministero, che aveva rilevato la già segnalata discrasia tra la data della scrittura e quella del rilascio della carta di identità, in base alla quale il Ca. era stato identificato nella medesima scrittura.

Orbene, anche da tale contegno processuale la Corte partenopea ha tratto argomento per corroborare l’ipotesi dell’abusivo riempimento del foglio.

Anche in questo caso si è trattato di un corretto “modus operandi”, giacchè, secondo questa Corte, l’art. 116 c.p.c., “che attribuisce al giudice il potere di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti, va inteso nel senso che tale comportamento non solo può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma può anche costituire unica e sufficiente fonte di prova” (Cass. Sez. 3, sent. 16 luglio 2002, n. 10268, Rv. 555756-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 10 ottobre 2003, n. 15172, Rv. 567402-01; Cass. Sez. 3, ord. 3 marzo 2005, n. 4651, Rv. 580699-01).

Orbene, se l’argomento di prova desunto dal comportamento processuale della parte ha, come appena rilevato, addirittura autonoma efficacia probatoria, esso può, a maggior ragione, corroborare le conclusioni raggiunte dal giudice attraverso l’uso delle presunzioni. Invero, la sua utilizzazione, lungi dall’offrire una “probatio minor”, condivide la stessa logica di tipo inferenziale che sta alla base del ragionamento presuntivo, tanto che – nuovamente da parte della già citata dottrina – è stata rimarcata l’esistenza di una “analogia strutturale” tra l’argomento di prova e le presunzioni, sostenendosi, in particolare, che il primo ha la stessa efficacia probatoria delle presunzioni semplici, nel senso che l’art. 116 c.p.c., comma 2, autorizza il giudice a considerare i comportamenti delle parti come possibili premesse di inferenze probatorie relative a fatti rilevanti per la decisione.

Una conclusione, del resto, conforme alle indicazioni offerte dal p.. 29 della Relazione del Ministro Guardasigilli al Re sul codice civile, che definisce l’argomento di prova “un sussidio ermeneutico di primaria importanza” messo a disposizione del giudice, poichè “dal modo con cui la parte risponderà alle richieste di schiarimento rivoltele dal giudice e in generale dal modo con cui la parte si comporterà nel processo, il giudice potrà, obbedendo soltanto al suo discernimento, trarre preziosi indizi per ricostruire la psicologia dei contendenti e comprendere da che parte sta la buona fede”; in questa maniera realizzandosi, sempre secondo la citata Relazione, quella “integrale considerazione dell’uomo che costituisce anche nei giudizi il canone fondamentale per non intendere in modo meccanico la realtà”.

6.2.4.4. In questa prospettiva, che è, dunque, quella di un ragionamento inferenziale articolatamente (e solidamente) motivato, non ha alcun rilievo decisivo l’affermazione – compiuta dalla Corte partenopea, in definitiva, solo “ad abundantiam” – secondo cui è da ritenere verosimile che il foglio recante la firma del Ca. fosse stato dallo stesso firmato, come “talora” già avvenuto in passato, “per consentire gli adempimenti fiscali richiesti dal commercialista” (indicato come comune sia alla società di cui il Ca. era il legale rappresentante, sia a quella odierna ricorrente, società, peraltro, legate tra loro da un rapporto di affitto di azienda).

Per tale ragione, dunque, questa Corte è esonerata dal dover prendere posizione sull’ammissibilità della cd. “praesumptio de praesumpto” (peraltro, nuovamente esclusa, di recente, da Cass. Sez. 3, ord. 18 gennaio 2019, n. 1278, Rv. 652469-01)

Invero, essendo “inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, e pertanto non costituente una “ratio decidendi” della medesima” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 10 aprile 2018, n. 8775, Rv. 648883-01; nello stesso senso Cass. sez. Lav., sent. 22 ottobre 2014, n. 22380, Rv. 633495-01), non occorre che questa Corte si soffermi sul tema – posto da una parte della dottrina processualcivilista – se proprio la natura “inferenziale” dell’accertamento presuntivo non comporti il superamento del principio secondo cui “praesumptio de presumpto non admittur”, e ciò almeno nella situazione in cui esiste una serie lineare di inferenze, ognuna delle quali configura, nella sua conclusione, la premessa dell’inferenza successiva. E ciò perchè, sottolinea l’indicata dottrina, se questo tipo di ragionamento è efficace al fine di stabilire la verità del fatto ignorato, quando questo è un fatto principale della causa, non vi sarebbe nessuna ragione per escludere che ciò accada anche quando il fatto prima ignorato è in realtà un fatto secondario, sicchè una volta stabilito – anche per mezzo di presunzioni semplici – che un fatto secondario è vero, non vi sarebbe nessuna ragione per escludere che il relativo enunciato possa costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva, a prescindere dalla circostanza che sia destinata a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale oppure secondario.

Ma, come detto, questa Corte non ha necessità – per la ragione sopra indicata – di dover pronunciarsi sul punto.

6.3. Il terzo motivo è, infine, inammissibile.

6.3.1. Esclusa, dalla Corte territoriale, la “paternità” della scrittura privata oggetto di causa in capo a Ca.De. (essendo stato ravvisato il cd. “abuso di biancosegno”), viene meno la configurabilità del documento come “ricognizione di debito”, divenendo irrilevante stabilire se ricorra violazione dell’art. 1988 c.c..

Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, sicchè vanno poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.

8. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando la società Garage Brindisi di C.A. & C. S.a.s. a rifondere a Ca.Ig. le spese del presente giudizio, liquidate in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, più spese forfetarie in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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