Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12117 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. III, 22/06/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 22/06/2020), n.12117

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1868/2016 proposto da:

M.P., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

DOMENICO MARIANI;

– ricorrente –

contro

C.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIOVANNI NARDELLI;

– controricorrente –

e contro

CO.GI.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1750/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 06/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/12/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato ZHARA BUDA CLAUDIA per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto notificato il 28 febbraio 2002 C.G. convenne dinanzi al Tribunale di Bari, sezione di Putignano, Co.Pa., L.P.M., M.P. e M.O., esponendo che:

-) il 4.11.2000 Co.Pa. e L.P.M. gli avevano promesso in vendita l’immobile sito a (OMISSIS);

-) le parti concordarono per la stipula del contratto definitivo il termine del 24 luglio 2001, vanamente trascorso;

-) il 17 settembre 2002 aveva convenuto, in separato i giudizio, i promittenti venditori, chiedendone la condanna all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di conclusione del contratto (domanda che in corso di causa sarà mutata in quella di restituzione del doppio della caparra); tale citazione venne trascritta il successivo 21 settembre 2001;

-) tuttavia i promittenti venditori, oltre a non avere adempiuto l’obbligo di stipulare il contratto definitivo, il 14 settembre 2001 avevano alienato a M.P. l’immobile già promesso in vendita all’odierno ricorrente; tale vendita venne trascritta in gran fretta il 18 settembre 2001;

-) la vendita dell’immobile a M.P. costituiva frutto di un piano preordinato in danno dell’odierno ricorrente, cui aveva partecipato anche il padre dell’acquirente, M.O., prendendo parte alle trattative e alla conclusione dell’affare.

Concluse chiedendo che l’alienazione del suddetto immobile a M.P. fosse dichiarata inefficace ai sensi dell’art. 2901 c.c., in quanto finalizzata a vanificare il suo diritto di credito, avente ad oggetto il risarcimento del danno scaturito dall’inadempimento del contratto preliminare.

Chiese, altresì, la condanna di M.P. e M.O. al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dei fatti sopra descritti, quantificati in Euro 20.658,28.

2. Si costituirono soltanto M.P. ed O., chiedendo il rigetto della domanda.

3. Con sentenza 10 dicembre 2009 n. 112 il Tribunale di Bari accolse la domanda revocatoria e rigettò quella di danno.

La sentenza venne appellata da M.P. in via principale e da C.G. in via incidentale.

4. Con sentenza 6 novembre 2015 n. 1750 la Corte d’appello di Bari – dichiarato estinto il giudizio nei confronti di M.O., e rilevato che Co.Pa. stava in giudizio anche quale erede di L.P.M. – rigettò l’appello principale ed accolse in parte quello incidentale, condannando Co.Pa. alla rifusione in favore di C.G. delle spese del primo grado di giudizio, che erano state invece compensate dal Tribunale.

5. Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello ha ritenuto che:

-) il separato e precedente giudizio proposto da C.G. per ottenere l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare (domanda poi mutata in quella di condanna al pagamento del doppio della caparra) si era concluso con sentenza 14 gennaio 2008, passata in giudicato;

-) tale sentenza aveva accertato che l’inadempimento dei promittenti venditori maturò il 24 luglio 2001, data prevista per la stipula del contratto definitivo, mai avvenuta;

-) il credito risarcitorio di C.G. era pertanto sorto in quella data;

-) poichè la vendita dell’immobile da parte di Co.Pa. a M.P. era avvenuta il 14 settembre 2001, il credito che l’attore intese cautelare con l’azione revocatoria era anteriore all’atto dispositivo, e di conseguenza per l’accoglimento della suddetta azione revocatoria non era necessario il requisito della participatio fraudis del terzo.

La Corte d’appello ha aggiunto che non vi era stata impugnazione nè sulla idoneità della vendita a pregiudicare le ragioni del creditore; nè sulla circostanza che gli alienanti conoscevano il pregiudizio che l’atto dispositivo avrebbe arrecato all’odierno ricorrente.

Infine, la Corte d’appello ha ritenuto esservi la prova della consapevolezza, da parte dell’acquirente M.P., del pregiudizio che l’atto dispositivo arrecava a C.G..

Ha desunto tale prova da varie circostanze, e in particolare dalla ammissione dello stesso M.P. di conoscere l’esistenza del precedente contratto preliminare; dalla circostanza che l’acquirente si adoperò per ottenere la immediata trascrizione della vendita per assicurarsene la priorità rispetto alla trascrizione dell’atto di citazione notificato da C.G. ai promittenti venditori; dalla circostanza che l’acquirente non potesse ignorare, per la ristrettezza dell’ambiente in cui si era sviluppata la vicenda e per effetto delle visure prodromica alla stipula, che il bene acquistato era l’unico immobile di proprietà dei venditori.

6. La sentenza d’appello è impugnata per cassazione da M.P. con ricorso fondato su quattro motivi.

Ha resistito con controricorso C.G..

La causa venne discussa una prima volta nella Camera di consiglio del 12 giugno 2018, ed all’esito rinviata alla pubblica udienza con ordinanza 17 ottobre 2018 n. 26054.

Alla successiva udienza del 20 febbraio 2019 la causa venne nuovamente rinviata a nuovo ruolo, in attesa della decisione delle Sezioni Unite di questa Corte sulla procedibilità del ricorso cui fosse allegata la stampa di una copia digitale del provvedimento impugnato, priva della prescritta attestazione di conformità.

Infine, è stata fissata e discussa all’odierna udienza dell’11.12.2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso va dichiarato improcedibile ex art. 369 c.p.c..

Il ricorrente, infatti, ha dichiarato (p. 2 del ricorso) che la sentenza d’appello gli è stata notificata per mezzo di posta elettronica certificata (PEC).

Come noto, chi impugna per cassazione un provvedimento che gli è stato notificato ai sensi dell’art. 326 c.p.c., ha l’onere di depositare il provvedimento che gli è stato notificato, completo della “relazione di notificazione” (art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2).

Tale onere è prescritto a pena di improcedibilità, ed ha lo scopo di consentire alla Corte il controllo officioso del rispetto del termine per proporre l’impugnazione, previsto dall’art. 325 c.p.c..

2. Quando il provvedimento impugnato per cassazione sia stato notificato per mezzo della posta elettronica certificata, il ricorrente deve assolvere l’onere di deposito “della decisione impugnata con la relazione di notificazione”, di cui all’art. 369 c.p.c., depositando:

(a) il provvedimento impugnato;

(b) il messaggio cui era allegato;

(c) la relazione di notificazione.

Tale deposito, tuttavia, da solo non è sufficiente.

Le regole sul processo civile telematico infatti sono ancora inapplicabili al giudizio di legittimità, e di conseguenza dinanzi alla Corte di cassazione è ancora necessario il deposito di copie cartacee (definite dalla legge e dalla prassi “analogiche”) di tutti gli atti processuali.

Quando, dunque, gli atti processuali sono stati formati e trasmessi con modalità informatiche, la produzione in giudizio deve avvenire:

(a) stampando e depositando il documento elettronico;

(b) attestando, da parte del difensore, che la copia depositata è conforme all’originale.

Tutti i principi appena riassunti sono già stati ripetutamente affermati da questa Corte, ed in particolare da Sez. 6, Ordinanza n. 30765 del 22/12/2017, Rv. 647029-01, la quale ha stabilito che “qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, per soddisfare l’onere di deposito della copia autentica della decisione con la relazione di notificazione, il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, deve estrarre copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato), attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1 bis e 1 ter e depositare nei termini quest’ultima presso la cancelleria della S.C.”, e ribaditi anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 10266 del 27/04/2018, Rv. 648132-01; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 17450 del 14/07/2017, Rv. 644968-01.

Alla mancanza della suddetta attestazione è consentito ovviare soltanto nel caso in cui il controricorrente o uno dei controricorrenti provveda a depositare una copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca la conformità della copia informale all’originale.

Nell’ipotesi in cui, invece, la controparte (o anche solo una delle controparti) sia rimasta soltanto intimata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in Camera di consiglio (così Sez. U., Sentenza n. 8312 del 25/03/2019, Rv. 653597-02).

3. Nel caso di specie, la copia della sentenza depositata dal ricorrente è priva del messaggio PEC cui era allegata, e nè la stampa della relazione di notificazione, nè la sentenza, sono munite dell’attestazione di conformità all’originale, richiesta dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 bis.

Il ricorso quindi va considerato privo della necessaria allegazione della relazione di notificazione del provvedimento impugnato, prescritta dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 e va dichiarato per questa ragione improcedibile.

4. Per quanto il rilievo che precede abbia carattere assorbente, ritiene il Collegio non inutile, a scopo nomofilattico, rilevare che il ricorso, ove lo si fosse potuto esaminare nel merito, sarebbe stato comunque infondato in tutti i motivi in cui si articola.

Col primo motivo, infatti, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1385 e 2901 c.c.. Il motivo censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il credito di C.G. fosse anteriore all’atto dispositivo stipulato dai coniugi con M.P..

Sostiene che questa valutazione sarebbe erronea perchè:

-) la Corte d’appello l’ha ricavata dalla sentenza pronunciata nel giudizio tra i promittenti venditori ed il promissario acquirente, giudizio al quale M.P. era rimasto estraneo;

-) la Corte d’appello non ha considerato che in quel giudizio l’attore C.G., dopo aver chiesto la condanna dei convenuti all’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare, mutò la propria domanda, limitandosi a domandare la condanna dei convenuti alla restituzione del doppio della caparra versata; pertanto il credito vantato da C.G. aveva ad oggetto soltanto il doppio della caparra, e tale credito doveva ritenersi sorto soltanto nel momento in cui il promissario acquirente, abbandonando la originaria domanda di esecuzione in forma specifica, aveva chiesto la condanna dei convenuti ai sensi dell’art. 1385 c.c..

Tale modifica della domanda era avvenuta con la memoria depositata ex art. 183 c.p.c., il 29 marzo 2004, e quindi oltre tre anni dopo la stipula del contratto di vendita dell’immobile a M.P..

4.1. Tale motivo, nella parte in cui lamenta la violazione del giudicato, sarebbe stato infondato.

La Corte d’appello, infatti, non ha affatto affermato che nel presente giudizio esercitasse una efficacia vincolante la sentenza pronunciata nel separato giudizio già svoltosi tra promittenti venditori e professare acquirente.

Ha semplicemente tratto da quella sentenza, come era sua facoltà e potere, la prova della data in cui si verificò, da parte dei promittenti venditori, l’inadempimento definitivo del contratto preliminare.

Anche nella parte restante il motivo è infondato.

Il diritto alla restituzione del doppio della caparra non sorge infatti nel momento in cui tale restituzione è richiesta, ma sorge nel momento dell’inadempimento dell’obbligazione da parte del promettente venditore.

L’inadempimento infatti fa sorgere nella parte non inadempiente una facoltà di triplice scelta: o domandare l’esecuzione in forma specifica;

o domandare la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno;

o domandare la restituzione del doppio della caparra (art. 1385 c.c.). Ma ciascuno di tali diritti sorge (art. 1173 c.c.) al momento dell’inadempimento, e quel che è differito al momento della dichiarazione del creditore è solo la concentrazione dei tre diritti alternativi in uno solo, quello prescelto dal creditore.

4.2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2644 e 2901 c.c..

Nella illustrazione del motivo si sostiene una tesi così riassumibile:

-) quando il proprietario di un immobile lo venda due volte, ed il secondo acquirente trascriva per primo il proprio acquisto, il primo acquirente acquisisce un diritto al risarcimento del danno, e può di conseguenza esercitare l’azione revocatoria per conservare la garanzia di tale credito;

-) tuttavia il credito risarcitorio nasce soltanto con la trascrizione della seconda vendita, la quale ovviamente non può che essere posteriore alla seconda alienazione;

-) di conseguenza, in simili casi, l’attore in revocatoria ha l’onere di provare la participatio fraudis del terzo acquirente.

Aggiunge che la Corte d’appello, ritenendo superfluo il suddetto requisito della participatio fraudis, avrebbe trascurato di considerare le stesse argomentazioni difensive dell’attore, il quale “ha specificamente riportato la fattispecie di cui è ricorso a quella della doppia vendita del medesimo immobile in tempi successivi”.

4.3. Anche questo motivo sarebbe stato infondato, se esaminato nel merito.

I principi stabiliti dalla Corte di cassazione in tema di doppia vendita immobiliare non sono infatti pertinenti nel nostro caso.

Nella vicenda oggetto del presente giudizio, infatti, l’attore ha promosso l’azione revocatoria per cautelare non già il credito risarcitorio scaturente dall’avere stipulato un contratto di vendita inopponibile ad un successivo acquirente del medesimo immobile che trascrisse per primo; ha invece proposto l’azione revocatoria per cautelare il credito scaturente dall’inadempimento del contratto preliminare.

La circostanza, poi, che l’attore nell’atto introduttivo del presente giudizio abbia invocato i principi giurisprudenziali in tema di doppia alienazione immobiliare è del tutto irrilevante, in quanto si tratta di una deduzione in diritto, come tale non vincolante per il giudice in virtù del principio jura novit curia.

4.4. Col terzo motivo il ricorrente lamenta il vizio di omesso esame del fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il “fatto decisivo” che la Corte d’appello avrebbe trascurato di considerare sarebbe, nella prospettazione del ricorrente, che le parti per tutto il corso del giudizio avevano discusso unicamente della applicabilità nel caso di specie dei principi stabiliti dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi della doppia vendita immobiliare, e di conseguenza della questione della anteriorità del credito fatto valere da C.G. rispetto all’atto d’acquisto di M.P..

La Corte d’appello, invece, avrebbe “glissato in modo evidente” su tale questione, non prendendola in considerazione.

Tale motivo è innanzitutto inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 4, essendovi stata una doppia pronuncia conforme sul fatto nei gradi di merito.

In ogni caso è infondato, dal momento che col motivo in esame il ricorrente lamenta non già l’omesso esame di un fatto, ma la mancata considerazione di una prospettazione giuridica.

4.5. Col quarto motivo il ricorrente invoca la nullità della sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Sostiene che la sentenza sarebbe nulla perchè la Corte d’appello avrebbe attribuito al tribunale una affermazione da quest’ultimo mai compiuta: e cioè che l’anteriorità del credito di C.G. rispetto all’atto d’acquisto compiuto da M.P. risulterebbe dalla sentenza del Tribunale di Bari 14 gennaio 2008, pronunciata all’esito del giudizio di risarcimento del danno da inadempimento del contratto preliminare.

Precisa il ricorrente che “il tribunale in prime cure mai ha preso in considerazione la ridetta sentenza (del Tribunale di Bari 14 gennaio 2008) e non ha mai basato la prova del danno sulle motivazioni o sul dispositivo della stessa”.

Anche questo motivo sarebbe stato infondato.

Una sentenza può dirsi nulla per difetto di motivazione quando questa manchi del tutto, sia insanabilmente contraddittoria o sia totalmente inintelligibile.

Nessuna delle tre ipotesi suddette ricorre nel nostro caso.

Vale la pena aggiungere che nemmeno sussiste il misunderstanding denunciato dal ricorrente: il Tribunale, infatti, aveva ritenuto il credito di C.G. anteriore all’atto dispositivo, e la Corte d’appello ha ritenuto altrettanto, reputando perciò corretta la sentenza di primo grado.

La circostanza, poi, che le motivazioni del giudice di primo e di secondo grado, per arrivare a tale conclusione, siano coincidenti in tutto o solo in parte, ovviamente non può mai costituire causa di nullità della sentenza d’appello.

5. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1 e sono liquidate nel dispositivo.

Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

la Corte di Cassazione:

(-) dichiara improcedibile il ricorso;

(-) condanna M.P. alla rifusione in favore di C.G. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di M.P. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

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