Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12108 del 22/06/2020

Cassazione civile sez. III, 22/06/2020, (ud. 02/12/2019, dep. 22/06/2020), n.12108

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12628/2018 proposto da:

V.A., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati

GIOVANNI ALESSANDRO SAGRAMOSO, ALBERTO ANELLI;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE PASCHI SIENA SPA, in persona del Responsabile della

Direzione Group General Counsel, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DEL PLEBISCITO 102, presso lo studio dell’avvocato E ASSOCIATI

STUDIO LOMBARDI SEGNI, rappresentata e difesa dagli avvocati ALBERTO

DEASTI, MARCO DELLI NOCI, GIUSEPPE LOMBARDI, LAZARE DAVID VITTONE

TASSINARI;

– controricorrente –

e contro

FONDAZIONE MONTEPASCHI SIENA CODACONS ASSOCIAZIONE UTENTI DEI SERVIZI

BANCARI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 25/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 09/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/12/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi 8 e 9

del ricorso, assorbiti gli altri;

udito l’Avvocato ALBERTO ANELLI;

udito l’Avvocato LOMBARDI GIUSEPPE.

Fatto

SVOLGIMENTO IN FATTO

1. Con ricorso notificato per mezzo del servizio postale il 18/4/2018 avverso la sentenza n. 25/2018 della Corte d’Appello di Firenze, Sezione Specializzata per le Imprese (Sezione Seconda Civile), pubblicata in data 9/1/2018 e notificata via pec il 27/2/2018, V.A. chiede la cassazione della sentenza, con decisione della causa nel merito ovvero, ove occorra, con rinvio per un nuovo esame nel merito davanti ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze. Con controricorso notificato via pec e per mezzo del servizio postale il 25/5/2018 resiste Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a..

2. Per quanto qui d’interesse, Banca Monte dei Paschi di Siena (BMPS), con atto di citazione dell’1/3/2013, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Firenze il proprio ex Direttore Generale, V.A., esercitando nei suoi confronti l’azione sociale di responsabilità ex artt. 2392 e 2396 c.c., deliberata dall’assemblea dei soci, per atti di mala gestio andati a danno del patrimonio sociale nell’esercizio delle sue funzioni, nonchè conveniva la Deutsche Bank A.G. (DB), agendo nei confronti della stessa in via aquiliana per concorso nelle condotte illecite del primo. BMPS addebitava al suo ex Direttore Generale di aver posto in essere con DB, a partire dal dicembre 2008, una serie di operazioni estremamente rischiose – definite nel complesso “(OMISSIS)” -, non comunicate al CdA – come sarebbe stato doveroso, in ragione della rilevanza che esse avevano – e non appostate correttamente nel bilancio chiuso al 2008, operazioni rivelatesi in concreto rovinose per BMPS. La società, pertanto, agiva in giudizio per dimostrare che detta “(OMISSIS)” aveva avuto come unico obiettivo quello di occultare il “salvataggio” di una pregressa operazione in perdita e, in particolare, del contratto di Collared Equity Swap stipulato nel 2002 tra DB e Santorini Ltd (Santorini). Nel giudizio, svolgevano intervento adesivo, rispetto alle domande di BMPS, la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, il Codacons e l’Associazione Italiana Utenti dei Servizi Finanziari, Bancari e Assicurativi – Onlus. Il sig. V. e DB si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle domande formulate da BMPS.

Nel dettaglio, l’operazione contestata era consistita in tre contratti di Total Return Swap (TRS) conclusi rispettivamente tra il veicolo Santorini e DB, e tra BMPS e DB (per un totale, dunque, di sei contratti di TRS), e in un contratto di Interest Rate Swap (IRS), quest’ultimo posto in essere, in tesi, per spalmare fino al 2031 le rovinose minusvalenze derivate dalle prime tre operazioni. BMPS chiedeva la condanna dell’ex Direttore Generale, che aveva ricevuto le deleghe di gestione dal CdA, ex art. 2396 c.c., in solido con DB, al risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi in relazione all’esito di questa operazione, avente inizialmente ad oggetto sei contratti di scambio su strumenti finanziari derivati a copertura di acquisti di azioni e buoni del tesoro italiani che, con artifizi contabili non in linea con i criteri di redazione del bilancio sociale, avevano permesso di occultare le ingenti perdite prima della controllata Santorini e poi della banca controllante BMPS, riferibili al bilancio 2008, generate dalla combinazione di contratti di TRS e di IRS, su titoli di Stato a lunga scadenza, stipulati con DB.

4. Per quanto qui di interesse, la vicenda, per come ricostruita dai giudici di merito, attiene a una complessa operazione finanziaria che era frutto della ristrutturazione di una precedente operazione di Collared Equity Swap stipulata nel 2006 da BMPS e DB, il cui sottostante era rappresentato da azioni San Paolo IMI, con utilizzo del veicolo Santorini LTD (società “veicolo” scozzese inizialmente detenuto al 49% da BMPS e per il 51% da DB), che aveva generato perdite per oltre 300 milioni di Euro allorchè DB era uscita dalla compagine sociale e Santorini era diventata una società interamente controllata da BMPS. L’assunto di fondo è che il Direttore Generale di BMPS, tramite le suddette complesse operazioni finanziarie di copertura delle perdite del titolo sottostante, avesse determinato il formale nascondimento sia di quelle della controllata Santorini sia di quelle della controllante, in sostanza trasferendo su quest’ultima le perdite generate dalle precedenti operazioni intrattenute con DB (dopo che questa era uscita dalla compagine sociale della controllata), contestualmente mascherandole con artifizi contabili nel bilancio di BMPS, il tutto senza informare il CdA e le autorità di vigilanza dell’impatto che tali operazioni avevano sul patrimonio sociale: in particolare, fra il 4 e il 5 dicembre 2008 il veicolo societario Santorini e BMPS, rappresentata dal Direttore Generale, avevano posto in essere con la branca londinese di DB l’operazione in questione, consistente in tre contratti di TRS su titoli di Stato italiani per l’ammontare di due miliardi di Euro di valore di nozionale, cui si aggiungevano i due miliardi della pregressa esposizione della controllata Santorini, sempre valutata in relazione al valore nozionale del titolo sottostante (azioni Intesa San Paolo). Ne era risultato che la controllata Santorini si era ritrovata con un profitto corrispondente alla perdita maturata, mentre la controllante BMPS aveva acquisito una posizione fortemente negativa, non indicata nel bilancio: difatti, mentre i primi tre TRS stipulati da Santorini, erano stati chiusi in via anticipata ottenendo un profitto complessivo di Euro 364 milioni, la medesima controllante tra il 29 maggio e il 19 giugno 2009 aveva chiuso a scadenza il vecchio Collared Equity Swap con un esborso di Euro 362 milioni, registrando una perdita di Euro 26 milioni nel bilancio consolidato della BMPS al 31 dicembre 2008 e di Euro 17 milioni nel bilancio consolidato al 31 dicembre 2009.

5. Nel luglio 2009, dopo la liquidazione di Santorini, l’operazione era stata ristrutturata nel suo complesso, con ulteriori aggravi per BMPS, in quanto le parti avevano concordato di allungare la durata dei tre TRS attraverso la sostituzione dei titoli di Stato di riferimento ed era stata lievemente ridotta la media degli spread sul tasso variabile dovuto a DB: tale operazione aveva attenuato il peso degli interessi periodici, ma allo stesso tempo aveva inasprito il rischio, attesa la sua maggiore durata di ben 22 anni, del tutto atipica rispetto al portafoglio titoli della banca. Tale rischio era stato coperto associando all’operazione un separato contratto di Interest Rate Swap che si innestava sui flussi dei tre TRS, trasformando il tasso fisso in tasso variabile. Tramite questo meccanismo i fluissi legati alla cedola dei BTP, essendo di pari importo e di segno opposto, si annullavano: i TRS erano poi stati ulteriormente ristrutturati il 9 febbraio 2010 e il 14 gennaio 2011 con un risultato di aggravamento delle condizioni originarie, dovute al versamento dei correlati depositi di garanzia, che drenavano la liquidità della banca (a fine novembre per un ammontare pari a 1,62 miliardi di Euro), che venivano remunerati a un tasso di interesse Eonia appena superiore allo 0, inferiore al rendimento di mercato di un investimento a lungo termine, impedendo tra l’altro altre operazioni profittevoli. Pertanto le operazioni con DB, considerate nel complesso, non rispondevano ad alcun interesse della banca, ma avevano sortito un devastante effetto di illiquidità.

6. In punto di illegittimità e anomalia delle operazioni gli addebiti consistono i) nel mancato rilievo della perdita maturata sul collared equity swap contratto dalla controllata Santorini e accollata alla società controllante con le operazioni sopra descritte, ii) nel mancato rilievo delle passività e rischi insiti nella nuova struttura contrattuale realizzata con le operazioni del dicembre 2008, non correttamente rappresentata nel bilancio di BMPS chiuso al 2008 quanto alla perdita conseguita, iii) nell’avere il Direttore Generale esposto la banca, senza informare il CdA, a un alto rischio di perdite, in contrasto con i doveri insiti nella sua funzione iii) nell’avere agito in conflitto di interessi, essendo stato indotto ad occultare perdite e minusvalenze sul derivato della controllata Santorini, pari a Euro 303.000.000, in ragione dell’incidenza negativa che tale risultato avrebbe avuto sulla sua posizione apicale, sul bonus annuale e sull’entità del relativo dividendo, sì da evidenziare che l’interesse a mantenere, e ad aumentare, il margine di rischio delle suddette operazioni era tutto del manager, e non della banca che egli rappresentava, in concorso con DB che, come controparte, aveva tutto l’interesse a mantenere la sua iniziale posizione di vantaggio, andata via via aumentando per effetto delle ristrutturazioni del debito di BMPS relativo al nominale sottostante e delle plusvalenze generate dalle suddette operazioni finanziarie di copertura delle passività e minusvalenze gravanti su BMPS. Quanto al danno risarcitorio, la banca attrice indicava l’importo di Euro 92 milioni per commissioni, di Euro 62,4 milioni per costi sostenuti, oltre quelli volti a far fronte alle minusvalenze maturate sui titoli di Stato, ai maggiori costi derivanti dal declassamento del rating e al conseguente incremento del costo della provvista, ai danni alla reputazione della banca, etc.; rappresentava, inoltre, che a seguito della transazione intervenuta con DB in data 19/12/2013 nel corso del giudizio di primo grado, aveva limitato le proprie richieste risarcitorie nella misura di Euro 50 milioni di Euro, e ciò in forza della risoluzione consensuale anticipata dei contratti che aveva comportato un risultato negativo finale di Euro 438 milioni, cui si aggiungevano i suddetti costi di “marginazione”, pari a non meno di Euro 70 milioni di Euro. In sede di memorie di replica, BMPS limitava la domanda di condanna del Direttore Generale all’importo di Euro 50 milioni. Con sentenza n. 874/2016, pubblicata in data 2/3/2016, il Tribunale di Firenze, dopo avere acquisito una CTU tecnico – contabile volta a ricostruire la complessa vicenda e a determinarne la corretta rappresentazione o meno nel bilancio, nonchè a individuarne l’impatto sul patrimonio sociale della banca, accoglieva l’azione sociale di responsabilità promossa nei confronti dell’ex Direttore Generale e lo condannava a pagare a BMPS, a titolo di risarcimento dei danni, l’importo di Euro 244.165.102,00, sull’assunto che la riduzione della domanda risarcitoria fosse stata formulata tardivamente, dando atto dell’intervenuta estinzione del giudizio nei confronti di DB, pronunciata con separata ordinanza.

7. Il Direttore Generale convenuto impugnava la sentenza dinanzi alla Corte d’Appello di Firenze per ottenerne l’integrale riforma. BMPS si costituiva in giudizio per perorare il rigetto di tutti i motivi d’appello, eccezion fatta per il settimo – inerente alla predetta riduzione del quantum dovuto dal Direttore Generale – in relazione al quale si rimetteva a giustizia. Nel giudizio si costituivano il Codacons e, alla prima udienza d’appello, la Fondazione MPS per aderire alle prospettazioni di BMPS.

8. Con sentenza n. 25/2018, pubblicata in data 9/1/2018, la Corte d’Appello di Firenze rigettava tutti i motivi di ricorso, eccezion fatta per il solo settimo motivo, in conseguenza del quale la condanna risarcitoria veniva ridotta a Euro 50 milioni, come richiesto dalla banca attrice appellata. Nel merito, il giudice di secondo grado accoglieva sostanzialmente la ricostruzione in fatto operata dal CTU e la valutazione in diritto allegata da BMPS e accertata dal giudice di primo grado.

9. Il sig. V.A. affida il ricorso per cassazione a tredici motivi. BMPS resiste con controricorso. Il ricorso è stato discusso alla udienza pubblica del 2 dicembre 2019; le parti depositavano memorie; il Pubblico Ministero concludeva come in atti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 115,116 e 342 c.p.c., nonchè dell’art. 1218,2043,2392,2393,2396 e 2697 c.c.. In primo luogo, il ricorrente denuncia grave violazione delle norme in materia di riparto dell’onere probatorio sull’assunto che, avendo Banca MPS proposto un’azione di responsabilità contro il suo ex Direttore Generale, sulla banca attrice incomba l’onere di provare la sussistenza dei fatti posti a fondamento della propria domanda, invece non compiutamente assolto. Il mancato rilievo di tale mancata prova costituirebbe violazione del principio di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c., in relazione alle specifiche norme in tema di responsabilità contrattuale del debitore (art. 1218 c.c.) e a quelle in tema di responsabilità degli amministratori (con conseguente violazione, in particolare, degli artt. 2392,2393,2396 c.c.), applicabili al caso di specie. In secondo luogo, deduce la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in materia di disponibilità e valutazione delle prove, assumendo che il Giudice di secondo grado avrebbe erroneamente posto a fondamento dell’affermazione di responsabilità, in difetto della prova dei fatti posti a fondamento della domanda (prova gravante, per quanto innanzi detto, su BMPS), l’assunto che gli stessi non erano stati “specificamente contestati dalla parte costituita”. Sul punto, il ricorrente individua un duplice errore di diritto: la Corte d’Appello avrebbe fondato la decisione, da un lato, su fatti non provati dalla parte che ne era onerata e, dall’altro, su fatti che erano stati oggetto di contestazione, in violazione del principio di disponibilità delle prove ex art. 115 c.p.c.. Tali violazioni avrebbero comportato una inammissibile inversione dell’onere probatorio, in quanto la Corte d’Appello – anzichè verificare se i fatti contestati fossero stati provati da BMPS così da poterli correttamente porre a base della decisione – ha respinto il gravame sull’assunto che sarebbe stato onere dell’appellante fornire, nel giudizio d’impugnazione, prova idonea a confutare specificamente i fatti che nel giudizio di primo grado la parte onerata non aveva provato, in tal modo facendo malgoverno anche dell’art. 342 c.p.c., in materia di contenuto e forma dell’atto di appello: si era infatti preteso che il convenuto appellante fornisse i “dati obiettivi” per confutare le valutazioni probabilistiche fatte dal CTU, sebbene le avesse contestate e la parte onerata (l’attrice nel giudizio di primo grado) non avesse assolto il relativo onere di prova.

1.1 Il motivo è inammissibile.

1.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte “in materia di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.” (così, Cass., Sez. 6-3, ordinanza n. 26769 del 23/20/2018; Sez. 3, sentenza n. 20382 dell’11/10/2016; Sez. 3, sentenza n. 11892 del 10/6/2016). Si consideri, infatti, sotto il profilo giuridico, che l’art. 115 c.p.c., di cui si denuncia la violazione è stato sostituito ex L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha apportato alcuni correttivi al testo originario, tra cui la necessità di una contestazione “specifica” della parte costituita. La legge – sanando il contrasto giurisprudenziale delineatosi in merito alla rilevanza da attribuire al contegno processuale di contestazione generica – ha introdotto l’onere per ciascuna parte costituita di prendere posizione in maniera specifica in merito ai fatti dedotti ex adverso. E’, dunque, sempre necessario articolare una specifica critica ai dati posti a base della domanda, ove anch’essi siano sufficientemente specifici, per ritenerli contestati ex art. 115 c.p.c.. Con riferimento all’art. 116 c.p.c., in sede di giudizio di legittimità l’errata applicazione della norma è configurabile, invece, solo nei casi in cui si applichi il libero apprezzamento in riferimento a una prova che per legge sia vincolata a determinati criteri di valutazione, ovvero si dichiari di applicare un parametro legale ad una prova invece liberamente apprezzabile, non potendo comportare una diversa valutazione della prova da parte del giudice di legittimità (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).

1.3 Per quanto riguarda la distribuzione degli oneri probatori, si osserva che, secondo un consolidato orientamento di questa Corte: “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura ove il giudice di merito applichi la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, vale a dire attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie, basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni” (tra cui, Cass.; Sez. U., Sentenza del 5/8/2016, n. 16598; Sez. 6-3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018). Pertanto, la violazione della regola sugli oneri probatori mai potrebbe prospettarsi quando da dati fattuali oggettivi, regolarmente acquisiti, e non contestati quanto al loro effettivo e materiale accadimento, si traggono valutazioni giuridiche diverse, tale essendo il compito affidato al libero apprezzamento del giudice.

1.4 Più precisamente, i vizi dedotti non sono riferibili al caso specifico, per come valutato dalla Corte di merito che, lungi dall’operare una inversione degli oneri gravanti sulle parti processuali, ha ritenuto raggiunta la prova della responsabilità dell’ex Direttore Generale, pacificamente di natura contrattuale, ex art. 2396 c.c., sulla base della ricostruzione fattuale emersa in sede di CTU, in relazione all’andamento e agli effetti sul patrimonio sociale dell’operazione finanziaria condotta su strumenti derivati nel periodo in contestazione, e ha quindi ritenuto che i dati acquisiti evidenziassero che l’operazione de qua (sopra meglio descritta) fosse fin dall’origine preordinata a far sì che ai TRS di Santorini fosse assegnato un tasso di interesse tale da generare un valore positivo dei contratti a favore della società controllata Santorini, in modo da procurarsi un ricavo idoneo a coprire la perdita in formazione sul Collared Equity Swap stipulato con DB, prossimo alla scadenza e, per converso, ai TRS di BMPS fossero assegnati tassi tali da determinare un valore negativo, con l’effetto di traslare sulla banca controllante la passività della controllata, senza però farla emergere nel bilancio di BMPS, grazie a una errata applicazione dei principi contabili internazionali, anzichè dei principi che governano la redazione del bilancio societario, ex artt. 1423 c.c. e segg..

1.5 La censura non considera il contenuto della ratio decidendi. La sentenza in esame, invero, non ha ritenuto la responsabilità dell’ex Direttore Generale sull’assunto che i fatti costitutivi della sua responsabilità non fossero stati specificamente contestati, ai sensi dell’art. 115 c.c., quanto piuttosto sulla base del convincimento finale che l’analisi dei dati tecnico-contabili condotta dal CTU, “non specificamente contestata” quanto ai dati contabili analizzati e riferiti al periodo in questione, portasse a ritenerlo responsabile per le perdite registrate in quel periodo, in quanto riconducili a una condotta di mala gestio societaria, volta ad occultare perdite di esercizio. Quindi, alla luce di quanto sopra detto, l’art. 115 c.p.c., non è neanche stato applicato dalla Corte d’Appello. Piuttosto, quest’ultima, dovendo valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento e, dunque, essendo orientata – in assenza di prove cd. legali – dal principio del libero convincimento, ha formato il proprio convincimento sulla base delle prove versate in atti, ex art. 116 c.p.c. e sulle risultanze dei dati contabili considerati dal CTU nel ricostruire le perdite del periodo, collegate all’Operazione effettuata. Pertanto, la censura non è idonea a scalfire la ratio decidendi della decisione adottata, mentre vorrebbe indurre questa Corte, piuttosto, a svolgere una rivalutazione di fatti e circostanze del tutto inammissibile in questa sede.

2. Con il secondo motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto la Corte d’appello, avrebbe omesso di indicare gli elementi probatori posti a fondamento della decisione, di contro limitandosi a fare rinvio al contenuto della relazione peritale del CTU, senza l’indicazione specifica dei documenti posti alla base del suo ragionamento.

2.1 Il motivo è inammissibile.

2.2 In particolare, come detto in relazione al primo motivo, non si configurano in questo caso ammissibili argomentazioni in termini di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e, pertanto, si rinvia a quanto sopra detto. Relativamente, poi, alla violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, trattandosi di mancata valutazione di una questione trattata, e posta a motivo della domanda di riforma del giudizio di primo grado, che potrebbe dar luogo a nullità della sentenza, la censura avrebbe dovuto essere ricondotta nell’alveo delle ipotesi di “nullità della sentenza o del procedimento” e, dunque, al motivo di ricorso dell’art. 360 c.p.c., ex n. 4, comma 1. Pur volendo, comunque, riqualificare il motivo riconducendolo alla denuncia di un “errore processuale” il motivo appare parimenti inammissibile.

2.3 Nell’attuale sistema è richiesta una motivazione concisa. La concisione della motivazione non può tuttavia prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto nulla la sentenza gravata la cui motivazione, costituita da una sola pagina, era priva dell’esposizione degli elementi in base ai quali la Corte territoriale aveva ritenuto che “l’appello non contesti la sentenza del tribunale nella parte rilevante della decisione” (cfr. per tutte, Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 29721 del 15/11/2019).

2.4 Una omissione in siffatti termini non è rinvenibile nel caso in questione. La sentenza d’Appello non fa esclusivamente rinvio alla valutazione della CTU, ma contiene plurimi riferimenti ai documenti in atti (in via esemplificativa, alle pagine 36, 41, 42, 45 della sentenza) e alle valutazioni svolte dai CTU. Inoltre contiene un’ampia valutazione sulle operazioni svolte nel periodo, come ricostruite tramite un’analisi peritale delle prove documentali raccolte e dei dati contabili rinvenuti. Inoltre, nella parte descrittiva e di ricostruzione della vicenda, la Corte d’appello si dilunga ampiamente nella descrizione delle complesse operazioni effettuate ed oggetto di ricostruzione e valutazione da parte del giudice di primo grado.

2.5 A fronte di tutto questo, la censura, innanzitutto, non indica sulla base di quali documenti, in tesi non analizzati dalla Corte d’appello, si sarebbe potuta operare una diversa valutazione circa l’esito e l’incidenza sulla società delle suddette operazioni, mentre le considerazioni svolte dalla Corte d’appello appaiono frutto di una puntuale, per quanto necessariamente sintetica, analisi dei dati acquisiti. Inoltre, sebbene si invochino correttamente i precedenti di questa Corte secondo cui: “in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia rilevi un’obiettiva carenza nell’indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento rinviando, genericamente e “per relationem”, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, nè disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito” (Cass., Sez. L, Sentenza n. 25866 del 21/12/2010), tuttavia, come sopra visto, non è prospettabile un vizio di omessa o apparente motivazione solo perchè il giudice di merito non ha singolarmente menzionato ogni documento in atti, sia quelli posti che quelli non posti alla base del suo convincimento, non potendosi in sede di legittimità scendere nelle maglie di un esame del merito relativo alla ricostruzione fornita dal primo o dal secondo giudicante, nè pretendere che il giudice consideri analiticamente tutti i documenti posti alla sua attenzione. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, non richiede neanche una esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l'”iter” seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass., Sez. 2, Ordinanza b. 8294 del 12/4/2011; in senso conforme, Sez. 3, Sentenza n. 22801 del 28/10/2009 e Sez. 3, Sentenza n. 17145 del 27/7/2006).

2.6 Si rammenta, poi, che anche una motivazione “per relationem” alla sentenza di primo grado o alle conclusioni del CTU è pacificamente riconosciuta legittima dalla giurisprudenza, salvo il caso in cui il rinvio operato renda incomprensibile il percorso argomentativo seguito dal Giudice (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 12664 del 20/7/2012; Sez. 1, Sentenza n. 3920 del 17/2/2011; Sez. L, Sentenza n. 25866 del 21/12/2010). Inoltre, si è anche detto che non è nulla per difetto di motivazione la sentenza di appello che, pur in mancanza di un esplicito richiamo alla sentenza di primo grado, svolga, seppure solo per punti, i medesimi passaggi logico-argomentativi ed indichi i medesimi elementi di prova valorizzati dal primo giudice, pur non avendo provveduto ad una loro compiuta analisi, atteso che la sentenza impugnata viene ad integrarsi con quella di appello dando luogo ad un unico impianto argomentativo. In tal caso, tuttavia, il giudice del gravame deve confutare le censure formulate avverso la sentenza di primo grado (Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 16504 del 19/06/2019). E, nel caso di specie, la Corte territoriale, nel confutare il motivo di appello, ha esplicitato diffusamente il proprio ragionamento logico-giuridico, segnatamente richiamando i flussi finanziari registrati, originati dall’esecuzione dei contratti nel periodo, ed esprimendo valutazioni allineate a quelle dei CTU nominati, ritenute non adeguatamente contrastate dall’appellante, per cui l’ipotetica carenza nella indicazione specifica dei documenti in atti non comporterebbe comunque l’impossibilità di comprendere il percorso logico adottato dal giudice del merito.

3. Con il terzo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., del principio di acquisizione della prova, nonchè dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 103,183,274 e 345 c.p.c.. La Corte d’Appello – e prima di essa il giudice di prime cure sarebbe incorsa in errore per aver ritenuto non utilizzabili dal ricorrente i documenti prodotti dalla litisconsorte DB prima dell’estinzione del rapporto processuale instauratosi con BMPS, verificatasi per effetto dell’intervenuta transazione fra le due parti. Il ricorrente invoca la giurisprudenza di questa Corte secondo cui: “nel sistema processualcivilistico vigente (…) opera il principio di acquisizione della prova, in forza del quale un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, è definitivamente acquisito alla causa e non può più esserle sottratto, dovendo il giudice utilizzare le prove raccolte indipendentemente dalla provenienza delle stesse dalla parte gravata dell’onere probatorio” (Cass., Sez. U., sentenza n. 28498/2005).

3.1 Il motivo è inammissibile. La Corte d’Appello ha ritenuto che non vi sia stata una esplicita adprehensio, da parte del convenuto qui ricorrente, della documentazione contenuta nel fascicolo di parte di DB, come richiede la giurisprudenza di questa Corte, di cui essa fa menzione con riferimento al litisconsorzio facoltativo improprio (artt. 103 e 274 c.p.c.), ipotesi in cui le cause riunite conservano la loro autonoma individualità, senza che si verifichi alcuna fusione od osmosi tra gli elementi di giudizio e le prove acquisite nell’una o nell’altra controversia; tale principio può, infatti, essere mitigato per le prove costituende, in quanto formatesi nel contraddittorio delle parti dopo che ne sia stata disposta la riunione, ma non anche per le prove precostituite entrate nel processo per iniziativa di uno solo dei litisconsorti, a meno che la parte che intenda avvalersi di un documento prodotto da altri non lo faccia proprio, producendolo a sua volta o manifestando l’univoca intenzione di avvalersene, con una dichiarazione da rendere, senza formule sacramentali, entro il termine eventualmente assegnato per l’indicazione della prova diretta, o contraria, a seconda della sua finalità” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 19373 del 3/8/2017; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11386 del 13/05/2013).

3.2 Ed invero, nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo è necessario che il documento già versato in atti dall’altra parte venga riprodotto anche dalla parte che intende avvalersene o, comunque, venga da quest’ultima manifestata, in modo inequivoco, l’intenzione di avvalersene entro i termini ordinari (dunque, senza possibili fraintendimenti o necessari ricorsi a presunzioni), e con dichiarazione (dunque, in maniera esplicita). Diversamente, non si può ritenere che l’aver trascritto ampi stralci degli atti nella memoria ex art. 183 c.p.c., u.c. e l’aver riportato anche tutti i riferimenti ai documenti prodotti dall’altra parte convenuta possa costituire manifestazione univoca ed esplicita di adprehensio così come richiede la giurisprudenza di questa Corte. La Corte di merito, pertanto, si è correttamente adeguata all’indirizzo sopra menzionato, e non ha ritenuto sufficiente – per il raggiungimento dello scopo – la presunta ed implicita manifestazione di volontà del convenuto di avvalersi delle produzioni documentali offerte dalla litisconsorte DB, allorchè essa era già uscita dal processo sulla base della transazione, con ordinanza di estinzione resa fuori udienza in data 10/6/2014, ossia in un momento in cui si era già perfezionato lo “stralcio” dal giudizio del fascicolo di parte, essendone mancata la relativa produzione di parte. Pertanto, il Giudice dell’appello ha correttamente ritenuto detta documentazione non più producibile nella fase di appello, ex art. 345 c.p.c., atteso che nel primo grado il fascicolo di parte era già stato nella disponibilità della parte impugnante. Infine, a tale rilievo si aggiunge anche quello, di non minore importanza, che la stessa parte ricorrente ha omesso di indicare la decisività della documentazione non ammessa e, dunque, il proprio interesse a far valere una nullità di tal tipo.

4. Con il quarto motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ovvero che gli acquisti di BTP (ulteriori rispetto a quelli sottostanti ai TRS) compiuti da Banca BMPS nel primo semestre 2009, allorchè era diretta dal Direttore Generale. Ricollegandosi al terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza d’appello per aver omesso l’esame dei documenti originariamente prodotti da Deutsche Bank e – in ogni caso – l’omesso esame dei fatti ivi rappresentati.

4.1 Il motivo è inammissibile.

4.2 In primo luogo, deve precisarsi che l’esame sul marcato acquisto di BTP non è stato affatto omesso dal giudice di secondo grado che ne ha invero tenuto conto – nonostante la pronuncia di irrilevanza (tamquam non esset) relativamente alla difesa basata sui documenti prodotti da DB, la cui la produzione si è rivelata inammissibile, pervenendo invece alla conclusione che tale operazione non sarebbe stata comunque sufficiente ad escludere il legame oggettivo tra i derivati TRS e le operazioni di IRS, “una volta preso atto dell’intima connessione tra gli strumenti” e le rilevate “assolute coincidenze” in termini di effetti negativi per BPMS di dette operazioni, con valutazione in questa sede insindacabile. Pertanto la contestazione si traduce in una critica sul merito, qui inammissibile.

4.3 In secondo luogo, nel caso di specie, la Corte d’Appello ha confermato la ricostruzione in fatto assunta dalla sentenza di primo grado, riportata nella parte espositiva della vicenda: sia il Tribunale che il giudice di secondo grado, infatti, pur prendendo in considerazione la tesi del ricorrente secondo cui BMPS avrebbe acquistato un notevole quantitativo di BTP, oltre quelli oggetto dei TRS, hanno concluso per l’irrilevanza di tale circostanza ai fini della valutazione degli effetti della connessione tra TRS e IRS sul bilancio di BMPS. Viene pertanto in rilievo, in misura assorbente, l’inammissibilità della deduzione del vizio sotto lo specifico motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in caso di “pronuncia doppiamente conforme”, posto che il superamento dell’impedimento di cui all’art. 348-ter c.p.c., u.c., presuppone un confronto tra gli elementi decisivi presi in considerazione nella prima e nella seconda pronuncia di merito che nel caso specifico è mancato. Per evitare di incorrere in tale ipotesi di inammissibilità, il ricorrente avrebbe dovuto invece indicare “le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass., Sez. 1, sentenza n. 26774 del 22/12/2016; Sez. 2, sentenza n. 5528 del 10/3/2014). Per converso, il ricorrente non ha offerto elementi per comprendere la sussistenza di diverse e decisive argomentazioni.

5. Con il quinto motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 1362 c.c., là dove la sentenza impugnata avrebbe omesso ogni indagine relativa alla comune intenzione delle parti, in violazione dell’art. 1362 c.c., comma 1. In particolare, l’esclusione dei documenti depositati da DB avrebbe indotto la Corte d’Appello a convincersi, avvalendosi unicamente dei “dati testuali dei contratti”, della sussistenza di un “collegamento negoziale” tra TRS e IRS, senza considerare la comune intenzione delle parti e, dunque, in palese violazione della disposizione in parola in materia di interpretazione dei contratti.

5.1 Il motivo è inammissibile. Quando la sentenza d’Appello attribuisce un “collegamento negoziale” tra i contratti TRS e IRS non parla propriamente di un “collegamento contrattuale” – non scorgendosi, ai fini della risoluzione della controversia, ragioni utili per ritenere simile configurazione – ma rileva un legame di fatto, una “continuità tra i due strumenti”, di tipo strutturale e funzionale, idonea a far permanere l’effetto lesivo per il bilancio di BMPS. Manca, dunque, il presupposto per l’applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione alla valutazione dell’intento negoziale perseguito che il ricorrente assume violato, in quanto la Corte d’appello non ha inteso qualificare il legame tra le operazioni eseguite come collegamento contrattuale, ma quale relazione di causa-effetto tra i due contratti, tali da legittimare una valutazione unitaria degli effetti dell’operazione in ordine alla sua dannosità e alla configurabilità della responsabilità del Direttore Generale in termini mala gestio. Oltretutto, nel motivo qui in esame non viene efficacemente contrastata la statuizione di genericità delle deduzioni svolte in merito al mancato accertamento della comune intenzione delle parti, rilevata dalla Corte d’appello a motivo del rigetto della censura.

5.2 Manca, infine, ogni deduzione in ordine alla dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.c., posto che non si indicano neanche le prove eventualmente non valutate (cfr. p. 36 del ricorso).

6. Con il sesto motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, vale a dire l’efficacia differita del contratto IRS sottoscritto nel luglio 2009. Il ricorrente – riprendendo il profilo dell’assenza di collegamento tra TRS e IRS denuncia l’omessa considerazione della circostanza che il contratto IRS aveva efficacia differita al maggio 2011; rileva segnatamente che tale circostanza, ove presa in considerazione, avrebbe permesso di escludere quelle “assolute coincidenze” che la Corte d’appello ha posto alla base del collegamento tra TRS e IRS.

6.1 Il motivo è inammissibile. Al proposito, è sufficiente richiamare l’argomentazione di inammissibilità svolta rispetto al quarto motivo, dove si è rilevata la preclusione prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, per l’esame di tale vizio in caso di sentenza doppiamente conforme. Dunque, l’operatività della previsione di inammissibilità del motivo rende di per sè inutile ogni ulteriore analisi circa la rilevanza della suddetta omissione.

7. Con il settimo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2702 c.c.. Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che “non è revocabile in dubbio quanto ritenuto dal CTU: che a fronte della neutralizzazione delle cedole sui BTP (pari al rilevante importo del 6%) le parti scambiano tassi variabili, quello percepito da MPS destinato ad essere sempre inferiore a quello percepito da DB”. Il ricorrente rileva, sul punto, che il CTU non ha mai scritto quanto riferito in sentenza, e cioè che il tasso percepito da BMPS in riferimento agli effetti dell’IRS sarebbe stato “destinato ad essere sempre inferiore a quello percepito da DB”. In tesi, il CTU non avrebbe potuto fare alcuna previsione in tal senso, visto che si è limitato a descrivere l’andamento dei due tassi nell’intervallo 2006-2015 e, peraltro, avrebbe anche precisato che nell’ultimo trimestre del 2008 i dati della “correlazione” tra i due tassi erano in controtendenza.

7.1 Anche il settimo motivo è inammissibile.

7.2 La questione sollevata riguarda la valutazione degli effetti della combinazione tra TRS e IRS a fronte della neutralizzazione delle cedole su BTP, pari al rilevante importo del 6%, su cui il CTU ha svolto un’analisi storica rilevando che – nell’intervallo 2006-2015 – in misura sostanzialmente stabile, era stata BMPS a corrispondere un differenziale a DB. Da tale analisi, prima il Tribunale, e poi la Corte d’Appello, hanno tratto il convincimento che una simile tendenza si sarebbe protratta lungo l’intera vita dei contratti. Si tratta di un giudizio prognostico che rientra nella sfera delle valutazioni rimesse al giudice di merito e, in quanto tale, non censurabile in questa sede. Sul punto valgono, comunque, le stesse considerazioni svolte per il primo e il secondo motivo in tema di insindacabilità, dinanzi a questa Corte, dell’apprezzamento in fatto del giudice di merito, riguardo a dati obiettivamente rilevati e valutati quanto alla loro effettiva incidenza, se logicamente plausibili.

8. Con l’ottavo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Il ricorrente deduce che la Corte d’appello, come già il Tribunale, avrebbe omesso di considerare la limitata incidenza, pari al 2-3% del patrimonio netto, del (presunto) fair value dei TRS sottoscritti nel dicembre 2008 rispetto alla capitalizzazione di BMPS. Secondo il ricorrente tale limitata incidenza costituirebbe un fatto decisivo non considerato perchè, se correttamente inteso, avrebbe permesso di individuare esattamente la “sostanza degli obblighi informativi” gravanti sul ricorrente.

8.1 Il motivo è inammissibile. Si rinvia alle argomentazioni – in tema di sentenza doppiamente conforme – svolte al quarto e al sesto motivo, considerato che, anche in questo caso, non sono state indicate le eventuali divergenze, sul punto, tra le pronunce di primo e di secondo grado. Si tratta, come già detto, di un’invalicabile barriera processuale che rende priva del carattere di decisività l’argomentazione utilizzata.

8.2 Inoltre, il motivo tende a censurare argomentazioni di merito mettendo in rilievo circostanze prima facie non decisive ai fini della valutazione dell’ambito di responsabilità del Direttore Generale. A voler ben vedere, si osserva che non si comprende l’argomentazione circa la limitata incidenza del presunto fair value dei TRS sottoscritti nel dicembre 2008 in rapporto a quanto argomentato dal Giudice a supporto dell’affermazione di responsabilità del Direttore Generale per essere venuto meno agli obblighi informativi. La Corte d’appello ha chiarito, in merito alla complessiva operazione di “spalmatura” delle perdite mediante la negoziazione di swap collegati, tali da neutralizzare apparentemente gli effetti negativi sul bilancio di BMPS, che ciò che si contesta al Direttore Generale è di non avere il potere di decidere il risultato finale delle operazioni, e di determinare quindi, tramite le suddette operazioni sottostanti, lo spostamento della perdita dal bilancio di Santorini a MPS; nè, il Direttore Generale aveva ancor più il potere di operare il sostanziale nascondimento della perdita registrata nel bilancio 2008, “tramite le operazioni che si sono più volte descritte”, sottolineando, pertanto, non solo la intrinseca illiceità dell’operazione, ma anche la volontà di occultare le perdite o minusvalenze del periodo riferito al bilancio chiuso al 2008 (pari a un fair value di Euro 429 milioni), mediante l’applicazione di un principio contabile internazionale (IAS 39) che ha permesso di non evidenziarla immediatamente e formalmente nel bilancio di esercizio di BMPS (sì parla di “sostanziale nascondimento”), e ha così consentito di non dichiarare le minusvalenze generatesi nel periodo e di “spalmarle” sui futuri bilanci, poi aggiustati con altre operazioni, in contrasto con l’art. 2423 c.c., di verità, chiarezza e correttezza della relazione del bilancio chiuso al 2008 (cfr. sentenza d’appello, p. 42).

8.3 Non si vede, pertanto, come il dato formale omesso circa la “irrisoria incidenza”, nel periodo in contestazione, del fair value possa risultare decisivo, rispetto alla seria incidenza dell’operazione non dichiarata, nel suo complesso, sul patrimonio della società, trattandosi di un dettaglio che non tiene conto dell’effetto complessivamente negativo dell’operazione intrapresa dal Direttore Generale, e celata per sua autonoma determinazione allo stesso CdA, posto che il punto decisivo preso in considerazione dalla Corte di merito non riguarda il dato, pacifico, che dette operazioni rientrassero nei suoi poteri statutari, ma che esse vennero attuate in spregio degli obblighi informativi e di corretta gestione societaria, sul medesimo incombenti ex art. 2392 c.c., non menzionandole neanche nella relazione al bilancio. A p. 42 della sentenza si legge, infatti, che nello stato patrimoniale del bilancio 2008 di BMPS era stato appostato, all’attivo, il valore dei BTP acquistati e, al passivo, il valore di finanziamento ricevuto dalla sua controparte (DB), mentre non si era evidenziato il fair value della operazione sui derivati sottostanti a tale operazione di riferimento, interamente negativo per BMPS, rimandando a quanto in dettaglio rilevato dalla società di revisione, sub doc. 50 di parte appellata, su cui la parte appellante (qui ricorrente) non ha replicato. Non è, quindi, mancata solo una corretta informativa al CdA, ma anche l’appostazione in bilancio delle minusvalenze correlate all’operazione, per tutto il periodo in contestazione.

9. Con il nono motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 2396,2697,2727 e 2729 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.; nonchè la violazione o falsa applicazione delle Istruzioni di Vigilanza per le banche (circolare di Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999 e successive modificazioni).

9.1 Il ricorrente riprende il precedente motivo di ricorso, in punto di obblighi di informazione del Direttore Generale, ed articola due differenti doglianze attinenti alla violazione delle norme che riguardano i doveri e le funzioni del Direttore Generale con delega, equiparati a quelle di un amministratore con mansioni equivalenti, in relazione ai compiti assegnati, ex art. 2396 c.c.. Anzitutto, in tesi, si assume che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto che il Direttore Generale aveva l’obbligo di comunicare al CdA qualsiasi operazione posta in essere, e ciò a prescindere dalla effettiva incidenza della stessa sul capitale sociale, incorrendo in un errore di diritto perchè, se così fosse, nel sostenere che ogni operazione negoziale che comporti rischi avrebbe dovuto essere comunicata al CdA, si sarebbe erroneamente assunto che il Direttore Generale sia privo di ogni autonomia decisionale rispetto al CdA. Per tali ragioni, la sentenza andrebbe censurata per aver ritenuto sussistente in capo al Direttore Generale un obbligo di informazione per ogni atto gestorio nei confronti del CdA di BMPS, in violazione delle norme in materia di responsabilità degli amministratori, nonchè in violazione della disciplina di settore (circolare di Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999 e successive modificazioni). In secondo luogo, il ricorrente ritiene che la Corte d’Appello abbia erroneamente ritenuto non fornita la prova del fatto che il CdA non fosse a conoscenza dell’operazione, incorrendo nella violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., per aver negato valore alla prova presuntiva fornita dal direttore: se davvero l’operazione fosse stata occultata dall’ex DG, la sua scoperta a seguito di quanto contestato da Banca d’Italia nel 2010 avrebbe dato certamente luogo ad immediate reazioni punitive o censorie da parte dell’organo amministrativo nei confronti dello stesso Direttore Generale che, invece, sono mancate.

9.2 Il motivo è inammissibile rispetto ad entrambi i profili di doglianza.

9.3 In relazione al primo profilo, giova premettere che, nella disciplina civilistica dell’azione sociale di responsabilità ex artt. 2392 c.c. e segg., il riferimento al ritenuto ampio contenuto degli obblighi di informazione degli amministratori, sì da togliere ogni autonomia nell’agire rispetto al CdA, è inconferente rispetto al caso in esame, in quanto la Corte d’appello non ha inteso affermare che l’obbligo di informativa degli atti gestori compiuti in forza dei poteri delegati si ponga per ogni attività gestoria. Infatti, la Corte d’Appello non ha fondato la propria decisione su una violazione di generici obblighi informativi da parte del Direttore Generale, come se lo stesso fosse tenuto ad informare il CdA di ogni operazione intrapresa, bensì su una violazione degli obblighi informativi statutariamente e di fatto esercitati ed esercitabili dal Direttore Generale rispetto alle operazioni intraprese che hanno comportato l’occultamento di gravi perdite da appostare, invece, nel bilancio sociale chiuso al 2008; ha ritenuto, in particolare, che la corretta lettura delle allegazioni della Banca attrice fosse nel senso che il Direttore Generale non aveva certamente il potere discrezionale di “decidere” il risultato finale delle operazioni intraprese con DB, e di trasferire in maniera occulta, attraverso le note operazioni finanziarie, la perdita registrata dalla controllata alla banca controllante, nè, qualora ciò si fosse in effetti verificato, avrebbe potuto operare un sostanziale “nascondimento” della perdita tramite le operazioni su strumenti finanziari che si sono sopra più volte descritte, spalmandole illegalmente sugli esercizi successivi. Da ciò ha tratto elementi per fondare la responsabilità del Direttore Generale della banca, riposta essenzialmente sul fatto che si è trattato di una mancata appostazione di perdite di gestione nel bilancio di esercizio chiuso al 2008 e di una mancata specifica informativa al CdA riguardo a operazioni che hanno comportato non solo l’assunzione di gravi rischi per la società controllante, ma si erano già rivelate rovinose per la medesima società controllata. Pertanto, l’omessa informativa dell’esito di tali operazioni sottostanti agli acquisti di BTP, effettuate mediante strumenti derivati tesi a nascondere le minusvalenze generatesi nel periodo, grava principalmente sul Direttore Generale che le ha predisposte ed eseguite, essendo egli tenuto a predisporre la relazione del bilancio secondo i criteri stabiliti dalle norme in materia, del tutto inderogabili e indisponibili (cfr. Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 14665 del 29/05/2019 in materia di non compromettibilità in arbitri delle impugnazioni dei bilanci) e la cui inosservanza è primaria fonte di responsabilità per gli amministratori; l’amministratore, inoltre, in tal caso era certamente tenuto a rapportarsi con il CdA, onde consentire al medesimo di “agire informato” a fronte della presenza di perdite o minusvalenze che andavano a intaccare, in maniera del tutto occulta, il patrimonio della società.

9.4 Come correttamente statuito dalla Corte d’appello, il perimetro delle attribuzioni e dei doveri conseguenti del Direttore Generale munito di deleghe da parte del CdA, conferite conformemente allo statuto della società, ex art. 2396 c.c., non si differenzia da quello di un normale amministratore esecutivo, e in questo caso, come si è sopra detto, tale questione non ha rappresentato un tema centrale di discussione, posto che il Direttore Generale ha certamente agito nell’ambito delle ampie deleghe di gestione societaria ricevute, e in ragione delle deleghe ricevute gli è stata contestata la mala gestio di cui si discute. Sul punto, giova comunque rammentare che la disciplina prevista per la responsabilità degli amministratori si applica, ai sensi dell’art. 2396 c.c., se la posizione apicale di tale soggetto all’interno della società sia desumibile da una nomina formale da parte dell’assemblea o del consiglio di amministrazione in base ad apposita previsione statutaria, poichè, non avendo il legislatore fornito una nozione intrinseca di direttore generale collegata alle mansioni svolte, non è configurabile alcuna interpretazione estensiva od analogica che consenta di estendere lo speciale ed eccezionale regime di responsabilità di tale figura ad altre ipotesi, salva la ricorrenza dei diversi presupposti dell’amministratore di fatto (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23630 del 18/11/2015: nella specie, la S.C. ha ritenuto applicabile la disciplina sulla responsabilità degli amministratori al direttore generale di una banca di credito cooperativo al quale lo statuto affidava l’esecuzione delle delibere degli organi amministrativi e la direzione dell’azienda e due delibere del consiglio di amministrazione avevano attribuito specifici poteri relativi ad affidamenti, utilizzo per versamenti di assegni tratti su altre banche e sconfinamenti).

9.5 Sul punto, in effetti il Direttore Generale rivendica l’ambito di insindacabilità nel merito della decisione assunta e la sottovalutazione di tale margine di discrezionalità di cui sono notoriamente dotati gli organi apicali di una società per azioni. L’invocata insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione, sotto il profilo della cd. business judgement rule di matrice angloamericana, valevole come parametro per circoscrivere la sfera di responsabilità di un amministratore esecutivo, trova, tuttavia, un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse scelte, da compiersi sia “ex ante”, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c. – nel testo, applicabile “ratione temporis”, sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo, e della diligenza dimostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere (Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 15470 del 22/06/2017: nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto l’amministratore di una società per azioni responsabile per la conclusione di taluni contratti, in cui quest’ultima aveva corrisposto integralmente alle controparti i compensi pattuiti nonostante la mancata esecuzione delle prestazioni).

9.6 Si tratta, anche questa, di una valutazione di sconfinamento dall’ambito di normale discrezionalità secondo la business judgement rule, che è stata operata dal giudice nell’esercizio del proprio prudente apprezzamento, in aderenza ai parametri di giudizio sopra esposti. Infatti, giova ribadire come la dimostrazione della responsabilità dell’amministratore, nel caso in questione, risieda nell’esame dei risultati della perizia, svolta sulla base dei dati obiettivi raccolti, e non adeguatamente contestati. Dalla perizia percipiente acquisita, difatti, il Collegio giudicante ha tratto la convinzione che l’operazione in questione, per quanto formalmente rientrante nelle deleghe ricevute dal Direttore Generale, integri un atto di piena mala gestio societaria, proprio per le modalità non ortodosse con cui è stata condotta sotto il profilo gestionale, amministrativo e contabile da parte del Direttore Generale della società attrice, senza oltretutto riferire al CdA.

9.7 Sulla base di questi rilievi, pertanto, il primo profilo di doglianza è inammissibile perchè non ha tenuto conto della ratio decidendi, anche per quanto riguarda il richiamo alla errata applicazione delle istruzioni di Vigilanza per le banche, di cui alla circolare di banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999 e le sue successive modifiche, le cui disposizioni non risultano neanche citate nell’argomentazione della censura e, pertanto, rendono il motivo del tutto aspecifico.

9.8 Anche il secondo profilo di doglianza, riguardo alla mancata considerazione di assenza totale di reazione da parte del CdA, una volta ricevuta la informativa sul verbale di ispezione della Banca d’Italia dal Direttore Generale, a riprova che dei fatti di cui al noto “nascondimento” era a presumibile conoscenza anche il CdA, è palesemente infondato. Trattasi di questione attinente alla corretta applicazione delle norme che regolano i rapporti tra amministratore con delega e altri membri non esecutivi del CdA.

9.9 Valga al riguardo considerare che, in generale, la mancata contestazione nei confronti dell’amministratore esecutivo, da parte del CdA, di fatti omissivi successivamente conosciuti non può valere come indizio di una pregressa conoscenza delle operazioni effettuate, e dunque di adempimento dell’obbligo informativo, ovvero di obiettiva irrilevanza del contenuto dell’informativa, in quanto l’inerzia dei membri non esecutivi potrebbe anche spiegarsi in ragione della solidarietà che grava su tutti i soggetti che rappresentano gli organi societari, a prescindere dalle informative ricevute dai soggetti delegati. Ne consegue che l’elemento di presunzione, in tesi non considerato, indicato nella mancata reazione dei componenti del CdA una volta acquisita la relazione della Banca d’Italia, nel caso in questione non assume particolare e univoco significato di pregressa conoscenza o di ritenuta irrilevanza circa le operazioni compiute dal Direttore Generale, tenuto all’obbligo informativo, posto che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392 c.c., comma 2, essendo solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga non solo al fine di impedirne il compimento, ma anche per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose, pur avendone avuto postuma conoscenza, non si sottrae alla sua responsabilità per il solo fatto di non avere ricevuto tempestive informative dall’amministratore delegato, ove le informazioni fossero autonomamente acquisibili o verificabili dagli altri componenti del CdA, i quali, ove venuti a conoscenza di fatti pregiudizievoli, devono dimostrare di avere fatto ciò che potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (cfr. Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 24851 del 04/10/2019; Sez. 2 -, Sentenza n. 27365 del 29/10/2018; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2737 del 05/02/2013, in tema di sanzioni amministrative).

9.10 Ed infatti, la responsabilità degli amministratori di società di capitale per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicchè la società deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti loro contestati, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) ferma l’applicazione della “business judgement rute”, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate “ex ante”, risultino manifestamente avventate ed imprudenti – rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell’art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176 c.c., comma 2 (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17441 del 31/08/2016; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15955 del 20/09/2012).

9.11 Ne consegue che l’obbligo di agire informati, che grava sugli amministratori non esecutivi che compongono il CdA, rinvenibile nell’art. 2381 c.c., comma 5, non è rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacchè anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business della società, ed essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace delle aree di rischio della società, e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio continuo sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Pertanto, il comportamento non reattivo dei componenti del CdA, una volta resi edotti del rapporto della Banca d’Italia, a due anni di distanza dai fatti omissivi addebitati al Direttore Generale, non può avere autonomo valore indiziario circa una loro pregressa e informale acquisizione di conoscenza delle operazioni effettuate dall’amministratore esecutivo, valevole a neutralizzare il mancato adempimento formale dell’obbligo informativo da parte dell’amministratore esecutivo. Difatti, l’adempimento di tale obbligo informativo da parte dei componenti esecutivi dell’organo amministrativo, da farsi periodicamente almeno ogni sei mesi ex art. 2381 c.c., comma 5, va valutato in riferimento al tempo in cui l’informazione “rilevante” deve essere comunicata, e ha valore per la società tutta, e non solo per gli amministratori non esecutivi destinatari dell’informazione e tenuti ad agire “informati”, comunque non esonerati dal loro carico di responsabilità sol per il fatto di non avere ricevuto l’informazione. Detto obbligo di informativa si pone a garanzia di una corretta gestione societaria, improntata a uno scambio trasparente e circolare di informazioni tra i componenti esecutivi e non esecutivi dell’organo gestionale sulle operazioni di maggiore rilevanza per la società. Allorchè, all’interno di un organo amministrativo, emerga una opacità di comportamenti dei suoi singoli componenti, in senso biunivoco, in rapporto alle norme che impongono, da un lato, oneri informativi agli organi esecutivi, e, dall’altro, comunque un agire informato in capo ad ogni componente dell’organo amministrativo, rispetto a operazioni rilevanti per caratteristiche e dimensioni, non è possibile ravvisare una situazione di corretta gestione societaria, tale da ritenere implicitamente assolti gli obblighi gravanti su ciascun componente del CdA. Pertanto, l’osservanza degli obblighi di informazione, nell’attuale sistema, risulta rilevante ai fini della valutazione del comportamento assunto dall’amministratore onerato di tale obbligo, e deve essere provato quanto alla sua effettiva e formale comunicazione al CdA con riferimento al tempo dell’operazione rilevante effettuata, non potendo essere dimostrata con elementi presuntivi di avvenuta conoscenza, da parte dei soggetti destinatari dell’informazione, tratti dal comportamento inerte successivamente tenuto dagli altri componenti del CdA rispetto alla conoscenza tardiva dell’informazione precedentemente omessa.

9.12 La considerazione che, a tal fine, rileva, si riscontra là dove la Corte di merito ha indicato che il Direttore Generale non ha dimostrato di avere agito con la diligenza che gli perteneva, attesi i rilevanti compiti connessi alla sua carica (pag. 43 della sentenza), e risiede dunque nella considerazione giuridica che il Direttore Generale, avente un’ampia delega di funzioni che lo esponeva alla medesima responsabilità di un amministratore con delega, ex art. 2396 c.c., nel periodo in contestazione, non ha dimostrato, come sarebbe stato suo onere, di avere riferito al consiglio di amministrazione sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate nell’interesse della società e della sua controllata, in conformità a quanto espressamente previsto nell’art. 2381 c.c., comma 5: per sostenere il contrario, il Direttore Generale avrebbe dovuto dimostrare che la suddetta operazione, per dimensioni e caratteristiche, non avesse rilievo per la società, e dunque non fosse oggetto di doverosa informativa, il che contrasta con tutte le risultanze probatorie indicate dalla Corte di merito a supporto della decisione, soprattutto in merito al blocco di liquidità della banca che tale operazione ha comportato, alla minusvalenza generatasi di esercizio in esercizio e agli elevati rischi a lungo termine che essa ha inutilmente generato.

9.13 Inoltre, la censura non tiene conto del fatto, altrettanto messo in rilievo dalla Corte d’appello, che nell’informativa rilasciata dal Direttore Generale all’esito dell’ispezione di Banca d’Italia operata nell’ottobre 2010, a due anni di distanza dal fatto omissivo, non si dava neanche conto del tema riguardante la registrazione contabile della complessa operazione qui in esame, ma solo del mancato presidio dei rischi generati dalla diversa operazione “(OMISSIS)”, e dunque l’informativa data nel 2010 dal Direttore Generale al CdA non era propriamente attinente, sotto il profilo temporale e di contenuto, all’operazione di cui si discute.

10. Con il decimo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2702 c.c.. In primo luogo, il ricorrente rileva, a pag. 42 della sentenza d’appello, una violazione in riferimento all’inappropriato accostamento del termine “perdita” al concetto di “fair value” riferito a un’ipotetica perdita nel periodo in considerazione, e dunque a una valutazione ideale e prospettica tutta da provare quanto agli effetti reali sul patrimonio della società. In secondo luogo, censura la pronuncia, sempre in relazione allo stesso passo motivazionale, per aver attribuito alla CTU la determinazione di un fair value negativo di Euro 429 milioni, mentre il CTU avrebbe considerato un ammontare negativo diverso, pari a Euro 279 milioni. Infine, rileva, a pag. 28 della sentenza d’appello, l’errata affermazione secondo cui l'(OMISSIS) avrebbe “spostato il debito sulla controllante, diluendolo nel tempo ed impedendo quindi la sua tempestiva emersione”, mentre sempre nella relazione del CTU il termine “perdita” non verrebbe mai utilizzato.

10.1 Il decimo motivo è inammissibile in quanto non dimostra il concreto interesse a far emergere tali imprecisioni terminologiche, collegate alla nozione di fair value, allorchè il danno è emerso, in tutta la sua enorme consistenza, allorchè nel corso del giudizio di primo grado la banca si è sciolta dal rapporto che la legava a DB sino al 2031.

10.2 Ed infatti il ricorrente lamenta, anzitutto, l’utilizzo di una terminologia inappropriata che, comunque, non risulta in grado di intaccare la ratio decidendi della sentenza. Nel dettaglio, quando la Corte d’appello parla imprecisamente di “perdita” si riferisce semplicemente alla maggiore passività incorporata nel valore iniziale dei TRS, che doveva essere iscritta in bilancio in termini di fair value e che, per converso, è stata tenuta nascosta e distribuita sui periodi di esercizio successivi. Quando, invece, parla di “debito” si riferisce alla passività generata a carico della banca attrice. I termini, anche se in ipotesi non utilizzati nella relazione del CTU, certamente tecnicamente più precisa, fanno – senza pretese di formalismo a carico della Corte d’Appello – riferimento a situazioni obiettivamente desunte e desumibili dalla relazione stessa, valutate in termini di risultati negativi di gestione e di rischi prospettici molto elevati non correttamente appostati nel bilancio.

10.3 In proposito, in particolare, la società resistente deduce, in replica, che quanto all’ammontare del fair value negativo iniziale, il CTU lo ha determinato non nella misura di Euro 279 milioni, ma di Euro 643 milioni, perchè in relazione ai TRS contratti con la sola banca attrice. L’importo di Euro 279 milioni, invece, cui fa riferimento il ricorrente, include anche il valore finanziario positivo dei TRS di Santorini, che il CTU ha calcolato ad altri fini. A parte queste divergenze di vedute, che nascono dal modo con cui si valutano le poste di un’operazione molto complessa, il motivo manca di specificità, posto che la Corte d’appello ha indicato che l’operazione TRS del dicembre 2008 è stata realizzata per coprire la perdita che la società controllata stava maturando sul derivato Collared Equity Swap, a fronte della creazione di una maggiore passività a carico di BMPS, per un fair value di Euro 429 milioni, contabilizzato attraverso lo stratagemma di spalmatura nei bilanci successivi sopra descritto, non conforme ai criteri di redazione del bilancio all’epoca vigenti, diluendolo contabilmente nel tempo tramite l’illegittima applicazione di principi contabili internazionali.

10.4 Dunque, il rilievo mosso non è idoneo ad intaccare la ratio sottesa alla valutazione in termini negativi per la società delle operazioni effettuate, per come appostate nel bilancio sociale chiuso al 2008.

11. Con l’undicesimo motivo si censura la impugnata sentenza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – per mera apparenza della motivazione ovvero, comunque, per manifesta illogicità e contraddittorietà della stessa. Il ricorrente sostiene che la Corte d’Appello, facendo riferimento all’estinzione dei contratti operata con l’accordo transattivo tra BMPS e DB, avrebbe parlato di un “danno futuro” senza tuttavia indicare in cosa esso consistesse, ovvero, ha ritenuto di identificare tale danno prima con il fair value negativo pari a Euro 429 milioni, ponendosi poi in aperto contrasto con l’affermazione, pure presente in sentenza, che la transazione del 2013 – in forza della quale BMPS avrebbe pagato a DB la somma di Euro 525 milioni – ha limitato il danno producibile nel futuro riducendone la entità. In tal modo, la somma che si assume pagata per estinguere i contratti anticipatamente risulta infatti superiore a quello che si.

dovrebbe ritenere essere il “danno futuro” riferito al fair value.

11.1 Anche tale motivo è inammissibile, oltre che palesemente infondato.

11.2 In primo luogo, il motivo è inammissibile in quanto le doglianze – lungi dal concretizzarsi in violazioni effettivamente sindacabili da questa Corte – involgono una ricostruzione delle risultanze istruttorie in punto fatto che in sede di legittimità, come ribadito ai motivi nn. 1, 2 e 7, non possono trovare accoglienza.

11.3 In secondo luogo, il motivo non si confronta adeguatamente con la motivazione che appare tutto fuorchè apparente. Ed invero, la Corte d’appello non ha identificato il danno con il fair value negativo iniziale di Euro 429 milioni, ossia il maggior valore della passività (o minusvalenza) all’inizio del rapporto, ma ha individuato l’idoneità dannosa dei contratti dando rilievo al cd mark-to-market dell’operazione al momento della sua effettiva chiusura. Tale valore, stimato in Euro 746 milioni dal CTU al tempo dell’intervenuta transazione, era di gran lunga superiore all’importo di Euro 525 milioni versato da BMPS per estinguere i contratti con la sua controparte, proprio in virtù dello “sconto” concesso da DB in sede transattiva. Inoltre, la Corte ha rilevato che la censura sul punto non è stata specifica, atteso che l’appellante era in possesso dei dati matematici dai quali sviluppare una ragionata critica al risultato di valore raggiunto in sede di transazione (p. 50 della sentenza), deducendo in sostanza l’inammissibilità del motivo di appello per carenza di specificità. Tale statuizione, invero, non risulta adeguatamente contrastata.

11.4 Sul punto, in ogni caso, nella sentenza si coglie chiaramente che il danno, che prima della transazione intervenuta in corso di causa con la controparte era riferibile a un valore virtuale di scambio o di sostituzione dei contratti derivati, e dunque in termini di danno ipotetico, comunque sempre tutto negativo per la banca attrice, si è cristallizzato e tradotto in valori monetari reali solo nel momento in cui si è posto fine al complesso contratto di scambio con la controparte che, sino ad allora, aveva unilateralmente ricavato utilità corrispondenti a passività per la società attrice, esponendola a un rischio elevato a lungo termine e ad un irragionevole immobilizzo di liquidità e di risorse. In sostanza, con le predette operazioni, non correttamente appostate nel bilancio, la banca controllante si è fatta carico della effettiva perdita della controllata, mentre i tre contratti derivati intrapresi tra la banca controllante e la controparte corrispondevano a operazioni di finanziamento ottenute dalla ex socia della controllata (DB) per estinguere il collared equity swap della controllata, ed erano volte a restituire l’importo dei tre contratti utilizzati a copertura della grossa perdita, riferita alla maggiore passività incorporata nel valore iniziale dei TRS su titoli di Stato italiani per un valore nozionale di 2 miliardi, che con le minusvalenze e con i “costi” di immobilizzazione di risorse che generavano, avevano avuto l’effetto di sottrarre, in via1 sostanzialmente costante, liquidità alla banca di anno in anno. La perdita, difatti, si è consolidata di anno in anno, fino a cristallizzarsi in via definitiva al tempo dell’intervenuta transazione (. p. 50 della sentenza).

11.5 In merito, pertanto, non rileva il criterio di calcolo della perdita nel periodo, quanto il fatto che la perdita subita dalla società attrice è certamente riferibile all’esito di quelle operazioni intrattenute con DB come controparte dei TRS, considerate del tutto irragionevoli e dissennate, oltre che effetto di una condotta di mala gestio del Direttore Generale, svolta in violazione degli obblighi informativi (v. p. 40 della sentenza), a fronte della quale era “preciso dovere del nuovo CdA agire per eliminare il “peccato originale” dell’operazione che, si ripete, sin dall’inizio era impostata per causare un danno economico all’Istituto, salvando in parallelo la società controllata. Il danno quantificato dal CTU come prima voce richiesta dal banco, è pertanto certo e liquidabile come derivante dal comportamento del Direttore Generale, anche in relazione al valore pagato da BMPS per la esecuzione della transazione” (p. 51 della sentenza).

12. Con il dodicesimo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si

denuncia la violazione degli artt. 1423 c.c. e segg. e del principio contabile internazionale IAS 39, nonchè la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè violazione o falsa applicazione degli artt. 1218,1223,1225 e 1227 c.c..

12.1 Il ricorrente denuncia, in un motivo diversamente articolato e non di facile lettura, la violazione di legge nella parte della sentenza impugnata che riferisce di una perdita non evidenziata in bilancio corrispondente al “fair value” negativo pari a Euro 429 milioni, con ciò intendendo che si sia trattato di un danno subito dalla banca, mentre l’ammontare del fair value, ancorchè negativo, non è espressivo del valore di un danno effettivamente subito, ma di una cifra che fornisce la mera rappresentazione contabile, ad una certa data, del valore di un bene o – come nel caso concreto – di un insieme di contratti derivati. Il fatto che – al momento della sua sottoscrizione – un contratto abbia un fair value negativo significherebbe solo (che esso parte squilibrato, ma non anche che, a scadenza, il contraente sia destinato a subire un danno. Dunque, la Corte d’Appello sarebbe incorsa in errore per aver sostenuto che il fair value iniziale negativo, pari a Euro 429 milioni, corrisponda ad una “perdita” e, quindi, ad un “danno” per la società. Per converso,

il ricorrente assume che la ritenuta omessa indicazione, nel bilancio 2008, del fair value dei contratti TRS non avrebbe giuridicamente alcuna rilevanza nel giudizio de quo. Il ricorrente rileva, infine, che l’estinzione anticipata di un derivato possa comportare una traslazione concreta dal profilo della astratta rappresentazione contabile a quello della realtà effettiva. Sostiene, infatti, che “è indiscutibile che, qualora il valore del mark-to-market di un derivato sia negativo, ed in quel momento si proceda alla sua estinzione anticipata, il valore si trasforma in un esborso monetario a carico del debitore”, ma, comunque, perchè tale esborso possa ritenersi eziologicamente derivante dalla stipula del contratto – e non esclusivamente dalla sua estinzione anticipata – occorre che, sulla base di un giudizio di “fondata attendibilità”, si possa ritenere – con “elevato grado di probabilità” – che il valore negativo del mark-to-market (vale a dire il costo di sostituzione degli strumenti finanziari per l’ipotesi in cui il contratto cessi prima della sua scadenza naturale) ad una certa data sia espressivo di un esborso monetario che si verificherà in futuro (ossia, quando i contratti derivati saranno giunti alla loro naturale scadenza).

I 12.2 n motivo è inammissibile, oltre che palesemente infondato.

12.3 Anzitutto, come per i motivi nn. 1, 2, 7, e 11 il ricorrente chiede di sindacare apprezzamenti in fatto del giudice di merito, seppure sul punto la giurisprudenza costante di questa Corte sia chiara ed univoca: ” Con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente. L’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass., Sez. 6-5, ordinanza n. 29404 del 7/12/2017; Sez. 6-5, ordinanza n. 9097 del 7/4/2017; Sez. 6-5, ordinanza n. 7921 del 6/4/2011).

12.4 Il motivo, inoltre, è palesemente infondato, e dunque anche per questo inammissibile, perchè non coglie la specifica considerazione, data dalla Corte di merito, agli effetti negativi a lungo termine dell’operazione, non correttamente riportata nel bilancio chiuso al 2008, come già sopra riportato con riguardo al motivo n. 11. Infatti, il danno patito dalla banca attrice è stato liquidato prendendo in considerazione il saldo netto dei flussi finanziari dei tassi, funzionanti a sistema binario, risultati nei documenti contabili prodotti dalla banca attrice e analizzati dal CTU: dunque, non il mark-to-market dei contratti ad una certa data, che è servito solo per considerare la vantaggiosità della transazione stipulata dalla società attrice con la controparte, convenuta in giudizio unitamente al Direttore Generale. Per converso, il fair value iniziale, nella ricostruzione della Corte d’Appello – lungi dal rappresentare il danno risarcibile – ha assunto rilievo per valutare l’attitudine dannosa dei contratti stessi, ossia per ritenere provata l’illiceità dell’operazione perchè congegnata al fine di trasferire le perdite di Santorini in capo a BMPS, senza tuttavia farle emergere nel bilancio di BMPS; in questa veste, i suddetti dati, analizzati dal CTU, hanno assunto sicuramente rilevanza nel giudizio de quo nel qualificare la condotta del Direttore Generale, sia con riferimento alla chiusura dei contratti con DB, sia con riferimento all’attitudine dell’operazione intrapresa con DB a generare perdite sino alla fine del rapporto, previsto per il 2031. Non è dunque irragionevole che la sentenza abbia assunto che il danno consiste proprio nel “costo” della transazione, perchè la transazione ha consentito di rimuovere, per i successivi 18 anni, l’esposizione della banca messa a rischio da uno strumento finanziario che, sia all’origine, che in prospettiva, aveva sempre dimostrato un forte valore negativo per il patrimonio sociale e la continuità aziendale, in ragione dell’andamento fortemente negativo e della sua lunga e anomala durata, che non poteva consentire il mantenimento del rischio incorporato nel contratto sino al termine convenuto. Sul punto, la stessa Corte di merito, rinviando alla CTU, ha richiamato che ” calcolare il mark to market (non di un singolo contratto, ma) di un intero portafoglio di derivati richiede l’impiego di modelli matematico – finanziari di attualizzazione, in una con l’adozione di scelte metodologiche che scontano un inevitabile tasso di opinabilità tecnica. Non pare seriamente dubitabile, dunque, che un giudizio al riguardo non possa essere assoggettato all’alternativa secca tra vero e falso, ma sia l’espressione di un apprezzamento personale di tipo valutativo derivante il metodo di calcolo utilizzato”. Tuttavia, ha richiamato essere rilevante, al fine della complessiva valutazione, l’art. 203 TUF e l’art. 2427 bis c.c., comma 1, n. 1, in base al quale nella nota integrativa del bilancio deve essere indicato, per ciascuna categoria di strumenti finanziari derivati, il fair value, ossia il relativo prezzo di scambio in una transazione tra terzi indipendenti.

12.5 E’ concettualmente e giuridicamente errato, dunque, sostenere che la mancata appostazione nel bilancio del fair value negativo pari a Euro 429 milioni sia stata irrilevante, solo perchè si tratterebbe di una passività meramente potenziale e non probante dell’esistenza di un danno o passività da riportare nel bilancio. La Corte di merito, invero, ha riferito che nella relazione al bilancio chiuso al 2008 non vi è una corretta menzione di tali operazioni finanziarie di copertura delle perdite generate dalla società controllata e traslate sulla società controllante e che l’applicazione dei principi contabili internazionali IAS si poneva in contrasto con le norme interne di bilancio di cui all’art. 1423 c.c. e segg., improntate a principi di verità e chiarezza. Quindi la denunciata violazione dei principi contabili internazionali, oltre a risultare giuridicamente errata, non si allinea al contenuto della decisione, posto che la Corte d’appello riferisce che di tali operazioni non vi è traccia, con riguardo al loro fair value, nel bilancio al 2008, nè risulta che il Direttore Generale abbia informato il CdA di dette operazioni, ritenute rilevanti, per l’impatto che esse avevano sulla società.

12.6 La valutazione del contratto su derivati, difatti, dovrebbe risultare nello stato patrimoniale (Fondo rischi su derivato) e nel conto economico (Accantonamento per rischi) di una società che svolge attività creditizia o finanziaria, ovvero essere menzionata nella Nota integrativa, in relazione al fair value, ex art. 2427 bis c.c.. Tale principio è rinvenibile, con argomento a contrario, nella pronuncia resa da Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 12738 del 23/05/2018, laddove in tema di deducibilità dei costi ai fini fiscali, ha indicato che devono essere esclusi dai componenti negativi del reddito d’impresa gli accantonamenti per la copertura del rischio inerente il contratto di “interest rate swap”, quando la società non operi nel settore creditizio o finanziario, in ragione dell’insussistenza del requisito dell’inerenza del costo che non può essere correlato alla mera idoneità dell’operazione a produrre reddito, dovendo essere riferibile all’oggetto dell’attività di impresa.

12.7 E’ la stessa normativa sul bilancio ad indicare che, nella relazione sulla gestione, a decorrere dal 1 gennaio 2005, deve risultare il rischio di variazione dei flussi finanziari ex art. 2428, comma 2, 6 bis) b); mentre, per effetto del D.Lgs. 3 novembre 2008, n. 173, all’epoca della redazione del bilancio chiuso al 2008 risultava non più applicabile, perchè abrogato, dell’art. 2427 bis, comma 5, che, per la definizione di strumento finanziario, di strumento finanziario derivato, di fair value e di modello e di tecnica di valutazione generalmente accettato, faceva riferimento ai principi contabili riconosciuti in ambito internazionale e compatibili con la disciplina in materia di Unione Europea. Quindi, anche sotto il profilo del rispetto delle norme sul bilancio, la condotta assunta dal Direttore Generale nel non riferire di dette operazioni rilevanti al CdA e nel riportarle nel bilancio chiuso al 2008 applicando principi contabili internazionali non più ammessi dall’ordinamento interno, appare del tutto censurabile, e rivelatrice non solo di una condotta non adempiente, ma di un intento di mascheramento delle poste negative, come ritenuto dalla Corte di merito.

12.8 Sotto il profilo dell’art. 1227 c.c., comma 2, la Corte di merito ha ritenuto che con la transazione, la Banca ha scelto la condotta maggiormente idonea a contemperare il proprio interesse con quello del debitore alla limitazione del danno, operando la valutazione richiesta dalla norma in proposito. Difatti, il disposto normativo deve ritenersi violato solo ove il danneggiato trascuri di adottare tale condotta di cautela, pur potendolo fare senza sacrificio, conformemente a quanto ritenuto da questa Corte (Sez. 3, Ordinanza n. 11194 del 24/04/2019; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7771 del 05/04/2011). Il giudizio reso, come sopra detto, proprio perchè logicamente plausibile in riferimento al maggior valore di mark to market considerato al tempo della transazione rispetto al costo della transazione, è frutto di una valutazione ponderata degli elevati rischi a lungo termine che il nuovo CdA ha inteso eliminare, e rimane nella sfera di insindacabilità delle scelte operate, alla luce dello scenario probabilistico ravvisabile al tempo dell’intervenuta transazione.

12.9 In relazione a tale complessa vicenda di grave mala gestio, nella pronuncia impugnata, rispetto alle deduzioni del ricorrente, non si riscontrano sintomi di una intrinseca irragionevolezza del gesto compiuto dal nuovo CdA che, al fine di por fine agli ingenti rischi già evidenziatisi, ed effettivamente incidenti sul patrimonio sociale, ha cristallizzato il danno nella minor cifra di Euro 525 milioni che, detratto il valore di Santorini pari a Euro 395.369.688, conduce comunque a un valore superiore al risarcimento richiesto dalla società all’ex Direttore Generale, ancor “equamente” ridotto nella misura di Euro 50 milioni, tenendo conto del margine di relativa – ma non decisiva – opinabilità delle previsioni di futura perdita fatte, e della sua quota parte di responsabilità. Sul punto, pertanto, essendo la transazione frutto di una ponderata valutazione in termini di costi/benefici per l’una e l’altra parte, non assume significativo rilievo che, al 30 novembre 2011, quando è stata avviata l’azione sociale, l’importo corrispondente al mark to market sarebbe stato pari a 1,62 miliardi di Euro e che tale importo, appena due anni dopo, si sia più che dimezzato, passando ai Euro 746 milioni valutati al tempo della transazione, intervenuta nel 2013, in quanto si tratta ancora di una cifra considerevole che avrebbe comportato per la banca il soggiacere ad un rischio elevato per svariati anni, sino al 2031, come sottolineato più volte dalla Corte d’appello. Pertanto, la determinazione compiuta dal nuovo CdA appare conforme a un comportamento di prudenza e ragionevolezza di cui all’art. 1227 c.c., comma 2 e comunque rientra nella sfera di insindacabilità delle decisioni amministrative, valutato secondo il parametro della cd business judgement rule.

13. Con il tredicesimo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 115,116 e 183 c.p.c., nonchè la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697,2702,2727 e 2729 c.c.. Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello – in palese violazione delle varie norme di legge citate – avrebbe ritenuto erroneamente che BMPS abbia dato prova del danno risarcibile.

13.1 La censura si riferisce anzitutto a quella parte della sentenza d’appello in cui la Corte, in merito alla determinazione del danno, ha ritenuto che la contestazione sollevata dal ricorrente circa “la veridicità dei dati estratti dal gestionale della Banca e sulla base dei quali il CTU ha operato” fosse infondata e tardiva. In relazione alla rilevata tardività, il ricorrente ritiene di aver adeguatamente contestato tali dati con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, in relazione alla ritenuta infondatezza il ricorrente rileva una violazione di “tutte le disposizioni e i principi in materia di onere probatorio e di valore delle prove”, per aver ammesso la Corte d’appello che “la parte onerata di provare gli esborsi che assume aver subito, possa provarli in giudizio mediante un foglio bianco sul quale essa stessa ha scritto una serie di date e numeri che sostiene essere quanto risulta nelle proprie scritture contabili”. Le medesime considerazioni vengono traslate in relazione all’allegato 15-bis del doc. n. 51, relativo all’esborso di Euro 525 milioni sostenuto da BMPS in favore di DB in occasione della transazione, ritenendo parimenti che esso rappresenti una “semplice scrittura di cifre su foglio bianco”.

13.2 n motivo è inammissibile in quanto reitera eccezioni processuali che la Corte ha motivatamente respinto, senza pertanto confrontarsi adeguatamente con una decisione che ha ritenuto non solo la producibilità della documentazione da parte della banca (p. 46 della sentenza), ma anche la tardività della contestazione in merito a detta produzione, ammessa dal giudice di primo grado, e pertanto l’infondatezza di censure che tendono a mettere in discussione la documentazione bancaria attestante i flussi di interesse estratti dal sistema informatico gestionale della banca e l’intervenuta transazione, considerati dal CTU, e non contestati nella prima istanza o difesa successiva al deposito della CTU, trattandosi di documentazione ammessa, la cui analisi da parte del CTU comporta una nullità relativa soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c. (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15747 del 15/06/2018; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12231 del 19/08/2002). Difatti, questa Corte ha già statuito che la provenienza unilaterale dei documenti che devono costituire oggetto delle indagini tecniche del consulente, laddove si debbano valutare fatti inerenti alla sfera patrimoniale di una parte (nella specie, i costi aziendali del personale posti a carico dell’ente pubblico dalla convenzione stipulata tra la Regione Siciliana e le Ferrovie dello Stato), non può da sola giustificare la mancata ammissione della consulenza, salvo che si tratti di documenti inadeguati (perchè, ad es., irrilevanti o contestati) rispetto alla finalità probatoria invocata dalla parte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15421 del 26/07/2016). Il CTU, sul punto, si è avvalso di detta documentazione, ritenendola idonea allo scopo, e dunque la parte non può tardivamente dolersi della sua acquisizione in giudizio, al fine di mettere in discussione l’operato del CTU.

13.3 Sul punto, poi, non viene certamente in questione il principio, da ultimo indicato da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 31886 del 06/12/2019 (Rv. 656045-02) che, in tema di consulenza tecnica di ufficio ha ritenuto che lo svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al “thema decidendum” della controversia, o l’acquisizione ad opera dell’ausiliare di elementi di prova (nella specie, documenti), in violazione del principio dispositivo, cagiona la nullità della consulenza tecnica, da qualificare come nullità a carattere assoluto, rilevabile d’ufficio, e non sanabile per acquiescenza delle parti, in quanto le norme che stabiliscono preclusioni, assertive ed istruttorie, nel processo civile sono preordinate alla tutela di interessi generali, non derogabili dalle parti. Difatti, la censura qui in esame intende, piuttosto, mettere in crisi l’esito della CTU solo perchè riposta sull’esame di documentazione unilaterale di una parte (la documentazione bancaria attestante i flussi delle minusvalenze registrate nel periodo), indicata dal ricorrente come non idonea a livello probatorio, ma tuttavia apprezzata sotto il profilo della sua adeguatezza dal CTU, oltre che non prontamente contestata: non si tratta, quindi, di una eccezione inerente alla tardiva acquisizione di documentazione nel corso dello svolgimento della consulenza tecnica, in violazione delle disposizioni processuali che pongono sbarramenti temporali al principio dispositivo, bensì di una contestazione in ordine alla non adeguatezza probatoria dei documenti prodotti e analizzati dal CTU, da valutarsi in base al principio di diritto di cui alla sopra richiamata sentenza n. 15421 del 26/07/2016.

13.4 Anche in questo caso, poi, il motivo aggiunge, sovrapponendole a quelle sopra considerate, questioni attinenti alla valutazione di risultanze probatorie, riservata al giudice di merito, come tale incensurabile in questa sede (si vedano le argomentazioni sui motivi nn. 1, 2, 7, 11, 12). Peraltro, il ricorrente nelle proprie deduzioni si è avvalso ampiamente, come sopra visto, dei dati di cui contesta la validità di prova. Ed invero, per dimostrare che i flussi di cassa scambiati tra la banca attrice e DB in base ai contratti per cui è causa sarebbero stati complessivamente positivi per la prima fino al momento in cui la stessa ha deciso di risolverli anticipatamente, nella sua comparsa conclusionale in appello ha fondato le proprie deduzioni proprio sui dati forniti qui contestati e forniti dalla banca, addirittura aggettivando il dato numerico ivi riportato come “oggettivamente incontrovertibile”, “incontestabile” o “pacifico”, dimostrando quindi una volontà di utilizzarli a fini difensivi: il che rende privo di un concreto interesse il rilievo di nullità sollevato, posto che la stessa Corte di merito ha osservato che il Direttore Generale non ha indicato dati diversi da quelli considerati dal CTU, per quanto, come sopra visto, ne avesse la materiale disponibilità.

14. Con il quattordicesimo ed ultimo motivo si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Il ricorrente deduce la violazione delle norme sopra citate, per avere il Giudice di secondo grado – a fronte del parziale accoglimento dell’appello – limitato la parziale compensazione delle spese di lite a quelle dovute alla sola BMPS e non anche a quelle dovute all’intervenuta Fondazione MPS.

14.1 Il motivo è inammissibile.

14.2 Occorre preliminarmente precisare che la totale compensazione è stata disposta in ordine alle spese tra il ricorrente e la Fondazione MPS, seppure in relazione al solo II grado, in ragione dell’intervento ad adiuvandum di quest’ultima, mentre sono state compensate per un terzo in relazione all’esito della lite nei confronti della parte attrice principale, con sufficiente motivazione riferita alla legge applicabile ratione temporis e alla considerazione dell’esito della lite, che ha accolto il motivo inerente alla riduzione dell’ammontare del danno. Ad ogni modo, l’orientamento consolidato di questa Corte afferma che in tema di regolamento delle spese processuali, e con riferimento alla loro compensazione, poichè il sindacato della Suprema Corte è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, una volta data una motivazione attinente al caso concreto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri motivi, indicati dalla legge applicabile ratione temporis (ex multis, Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 11815 del 15/05/2018; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 13767 del 31/05/2018; Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 5267 del 16/03/2016; Cass., Sez. 5, sentenza n. 20457 del 6/10/2011; Cass. Sez. 1, sentenza n. 5828 del 16/3/2006; Cass. Sez. 3, sentenza n. 17457 del 31/7/2006).

15. Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, a favore della parte resistente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 40.000,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

“Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a)”.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 2 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA