Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12107 del 16/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 16/05/2017, (ud. 08/02/2017, dep.16/05/2017),  n. 12107

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19944/2014 proposto da:

TECNO JACKET S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, C.F. (OMISSIS), in persona del

Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato MARIO

ANTONINI, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO ANDRONICO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 33/2014 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 23/01/2014 R.G.N. 344/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/02/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 33/14 pubblicata il 23.1.14 la Corte d’appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza di rigetto della domanda emessa dal Tribunale di Nicosia in data 11-18.1.12, dichiarava illegittima l’esclusione di P.A. dall’elenco dei lavoratori interessati dalla procedura di mobilità attivata ex lege n. 223 del 1991, da Tecno Jacket S.r.l. e, per l’effetto, condannava la società a pagare a titolo risarcitorio alla lavoratrice (che, appunto, sebbene licenziata non era stata inserita dalla società nelle liste di mobilità) l’80% della retribuzione lorda mensile spettante per 36 mesi.

Per la cassazione della sentenza ricorre Tecno Jacket S.r.l. affidandosi ad un solo motivo, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’intimata P.A. non ha svolto attività difensiva.

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con unico motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1227 c.c., L. n. 223 del 1991, art. 6, comma 1 e art. 7, comma 1 e del D.L. n. 148 del 1993, art. 4, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 236 del 1993, nella parte in cui la sentenza impugnata ha escluso ogni responsabilità della controricorrente per la mancata iscrizione nelle liste di mobilità, nonostante che anche costei avrebbe potuto chiedere, in assenza di iniziativa da parte della società, l’iscrizione in dette liste, cosa che invece P.A. non aveva fatto. Tale suo contegno omissivo aveva integrato – prosegue il ricorso – concorso del fatto colposo del creditore tale da escludere ex art. 1227 c.c., comma 1 (così come aveva deciso il primo giudice) il diritto al risarcimento, erroneamente riconosciutole – invece – dalla Corte territoriale, che avrebbe dovuto accertare d’ufficio l’imputabilità o meno (anche) alla lavoratrice di tale omissione.

2. Il motivo è infondato.

Come correttamente notato dai giudici d’appello, la società non ha fornito prova alcuna (pur essendone gravata) del fatto che l’odierna controricorrente fosse a conoscenza dell’omissione della società riguardo alla richiesta di iscrizione del suo nominativo nelle liste di mobilità, atteso che solo su tale presupposto si potrebbe se del caso – eventualmente ipotizzarne un concorso colposo nella determinazione del danno ex art. 1227 c.c., comma 1.

Il fatto che quella di cui alla predetta disposizione codicistica sia un’eccezione in senso lato e non in senso stretto implica la possibilità che il giudice rilevi d’ufficio l’applicabilità dell’art. 1227 c.c., comma 1, alla stregua del materiale istruttorio già acquisito agli atti o, se del caso, lo integri avvalendosi dei propri poteri istruttori d’ufficio.

Ma la censura d’un ipotetico mancato esercizio dei poteri d’ufficio deve muoversi deducendo un error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il che sostanzialmente la ricorrente non ha fatto.

Valga in proposito l’insegnamento di Cass. S.U. n. 17931/13, secondo cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi, purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante da un error in procedendo; il ricorso non può, quindi, limitarsi ad argomentare sulla violazione di legge (come avvenuto nel caso di specie).

Non solo: il mancato esercizio dei poteri istruttori d’ufficio presuppone che in ricorso si indichi se e in che modo esso sia stato ritualmente sollecitato.

In particolare, in omaggio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, parte ricorrente deve indicare tutti quegli elementi (emergenti dagli atti ed erroneamente non presi in considerazione dal giudice di merito) dai quali era desumibile la sussistenza delle condizioni necessarie per l’esercizio degli invocati poteri, ossia il ricorso deve riportare gli atti processuali dai quali emergeva l’esistenza di una pista probatoria, vale a dire l’esistenza di fatti o mezzi di prova idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività (rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito) e deve, altresì, allegare di avere nel giudizio di merito espressamente e specificamente chiesto l’intervento officioso del giudice (cfr., per tutte, Cass. n. 7119/02 e successive conformi).

A ciò l’odierna ricorrente non ha provveduto.

3. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Non è dovuta pronuncia sulle spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2017

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