Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12097 del 16/05/2017

Cassazione civile, sez. lav., 16/05/2017, (ud. 31/01/2017, dep.16/05/2017),  n. 12097

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12261-2011 proposto da:

FERRETTI S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19,

presso lo studio dell’avvocato CARLO BOURSIER NIUTTA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO TOFFOLETTO,

FEDERICA PATERNO’, ANDREA MORONE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA ESATRI S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

e contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS),

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati

ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, D’ALOISIO CARLA, giusta delega in

calce alla copia notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 532/2010 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 23/11/2010 r.g.n. 236/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

31/01/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato BENEDETTA GAROFALO per delega verbale Avvocato

FEDERICA PATERNO’;

udito l’Avvocato D’ALOISIO CARLA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 532/2010, la Corte d’appello di Brescia ha dichiarato il diritto dell’INPS al pagamento di differenze contributive rivendicate a seguito di accertamenti ispettivi nei confronti di Ferretti s.p.a. per ore di lavoro straordinario non registrate ed espletate da 63 dipendenti impegnati nell’esecuzione di attività manutentiva presso l’acciaieria della s.p.a. Dalmine nell’anno 2003, detratta per tutti un’ ora di pausa per il pranzo. La Corte territoriale, decidendo su impugnazione dell’Inps avverso la sentenza del Tribunale di Bergamo che aveva accolto integralmente l’opposizione a cartella esattoriale proposta da Ferretti s.p.a., ha ritenuto che integrasse la nozione di orario di lavoro retribuibile, ai fini del calcolo della contribuzione dovuta, il tempo impiegato dai dipendenti per raggiungere il posto di lavoro dopo aver marcato il cartellino alla portineria dello stabilimento della Dalmine s.p.a. e quello comunque trascorso all’interno dell’acciaieria immediatamente dopo il turno.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la Società (oggi denominata Immobiliare Ferretti s.r.l.) fondato su due motivi ed illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

L’Inps ha depositato procura. Equitalia Esatri s.p.a. è rimasta intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (R.D.L. n. 692 del 1923, artt. 1, 3 e 6 e del R.D. n. 1955 del 1923, artt. 5 e 10, Direttiva U.E. n. 104/1999, D.Lgs. n. 66 del 2003, artt. 1 e 8) nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

2. Con il secondo motivo Ferretti s.p.a. lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 416 cod. proc. civ. nonchè dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

3. I motivi – nel loro insieme- imputano alla sentenza impugnata l’erronea qualificazione in termini di orario di lavoro sia del tempo impiegato dai dipendenti Ferretti s.p.a. per giungere presso il proprio posto di lavoro all’interno della estesa acciaieria di proprietà di Dalmine s.p.a., che di quello ivi trascorso per fare una doccia o per ragioni di mero intrattenimento con i colleghi. La sentenza, poi, sarebbe motivata in modo incongruo in ordine al raggiungimento della prova delle ore effettivamente prestate dai lavoratori della Ferretti s.p.a., risultando tale prova fondata sulle risultanze ispettive che si erano limitate all’esame dei cartellini marcatempo dei lavoratori della Ferretti s.p.a., registrati dalla Dalmine s.p.a. ed acquisiti dall’Inps in forma di tabulati non controllabili da parte della Società. La sentenza impugnata, poi, sarebbe caduta in contraddizione in punto di riparto dell’onere della prova affermando, una prima volta e correttamente, che sarebbe spettato all’INPS fornire la prova dell’esistenza di cinque rapporti di lavoro pure contestati in verbale ma non accertati giudizialmente ed una seconda volta, erroneamente, che gravasse sulla società l’onere di provare che la permanenza dei dipendenti all’interno dell’acciaieria non fosse giustificata da attività lavorativa.

4. I motivi fondati sui vizi di violazione e o falsa applicazione di legge vanno trattati unitariamente in quanto le critiche involgono cumulativamente e senza che possa separarsi un piano dall’altro sia la ricognizione sul piano normativo della definizione di orario di lavoro operata dalla sentenza che il riparto dell’ onere della prova sulle concrete circostanze che integrano la nozione di orario di lavoro.

Segue, poi, in ordine logico, la disamina della censura di incoerenza ed inidoneità del processo logico della motivazione della sentenza impugnata che attiene, invece, alla valutazione del materiale probatorio comunque acquisito.

5. Le doglianze sono infondate.

6. Quanto alla delimitazione dell’arco temporale definibile orario di lavoro rilevante ai fini retributivi e contributivi, con riguardo al tempo che precede e segue la prestazione lavorativa, questa Corte di legittimità (da ultimo si vedano Cass. n. 20694 del 3 giugno 2015; 20714/2013; 1697/2012; Cass. 3763/1998; 15734/2003; 19273/2006), ha affermato che:

– il R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 (vigente in parte all’epoca dei fatti controversi), a norma del quale “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa”, non preclude che il tempo necessario a porre in essere attività strettamente prodromiche a tale occupazione sia da considerarsi lavoro effettivo e che esso debba essere pertanto retribuito ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa;

– ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, il D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1, comma 2, lett. a) attribuisce un espresso e alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro;

– la materia dell’orario di lavoro rientra nell’ambito del diritto dell’Unione limitatamente ai profili incidenti sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, quindi, limitatamente alla previsione di limiti massimi alla durata della prestazione mentre il profilo retributivo, e, conseguentemente, anche quello dell’imponibile contributivo, dell’orario di lavoro rientrano nella competenza esclusiva del legislatore nazionale;

6. Le disposizioni del diritto italiano che incidono sulla materia, relativamente all’oggetto della presente controversia che investe l’intero anno 2003, sono, per una breve parte e sino al 28 aprile 2003, quelle dettate dal R.D.L. n. 692 del 1923 e dai suoi regolamenti di attuazione, e, per la seconda parte, quelle contenute nel D.Lgs. n. 66 del 2003. La normativa del 1923 considerava lavoro effettivo quello che richiede un’applicazione assidua e continuativa ed escludeva da tale ambito occupazioni discontinue o di semplice attesa o custodia, stabilendo che queste ultime occupazioni potevano pertanto superare i limiti massimi temporali fissati dalla legge.

Il regolamento di attuazione per le imprese industriali, emanato con R.D. n. 1955 del medesimo anno, precisava (art. 3) che non si considerano come lavoro effettivo: 1) i riposi intermedi che siano presi sia all’interno che all’esterno dell’azienda; 2) il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro; 3) le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all’operaio o all’impiegato. Anche questa normativa non è finalizzata a stabilire qual è il tempo di lavoro retribuibile, bensì a fissare i limiti massimi della durata del lavoro, tanto che in taluni casi riposi e pause sono retribuiti. Comunque, nel considerare le fasi prodromiche, si limita ad escludere il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro.

7. La normativa del 2003 riprende dal diritto Europeo la definizione di orario di lavoro ed introduce una disciplina che va al di là dei limiti tematici del diritto dell’Unione. La definizione è così formulata: “Agli effetti delle disposizioni del presente decreto si intende per a) orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. La formula, come è stato evidenziato da Cass. n. 1839/2012 e n. 1703/2012, è volutamente ampia e tale da includere nella nozione non solo l’attività lavorativa in senso stretto, ma anche le operazioni strettamente funzionali alla prestazione. A questo fine è necessario che il lavoratore sia “a disposizione” del datore di lavoro, cioè soggetto al suo potere direttivo e disciplinare.

8. Quanto alla regola di riparto dell’onere probatorio, va osservato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema (per superare la quale il ricorso non fornisce idonee argomentazioni) ha affermato che, in tema di determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi, l’ente previdenziale deve provare che il lavoratore ha ricevuto dal datore di lavoro somme a qualunque titolo, purchè in dipendenza del rapporto lavorativo, mentre è onere del datore di lavoro provare una delle cause di esclusione dell’obbligo contributivo previste dalla L. n. 153 del 1969, art. 12, comma 2 (cfr. Cass. n. 461/11; Cass. n. 1077/99; v. altresì Cass. n. 16639/14). In particolare, Cass. n. 4284 del 22 aprile 1992 ha affermato che, poichè il diritto alla retribuzione sorge per il solo fatto della messa a disposizione delle energie lavorative, la semplice presenza del dipendente in azienda determina la presunzione della sussistenza nel datore di lavoro del potere di disporre della prestazione lavorativa. Talchè è orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso all’interno dell’azienda, a meno che il datore di lavoro non provi che il prestatore d’opera sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico. E ciò alla stregua del criterio secondo cui l’onere probatorio del fatto impeditivo, modificativo o estintivo grava su chi eccepisce l’insussistenza dell’obbligazione.

9. Nel giudizio promosso dal contribuente per l’accertamento negativo del credito previdenziale, incombe all’INPS l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva, che l’Istituto fondi su rapporto ispettivo. A tal fine, il rapporto ispettivo dei funzionari dell’ente previdenziale, pur non facendo piena prova fino a querela di falso, è attendibile fino a prova contraria quando esprime gli elementi da cui trae origine (in particolare, mediante allegazione delle dichiarazioni rese da terzi), restando, comunque, liberamente valutabile dal giudice in concorso con gli altri elementi probatori (Cass. 14695 del 6 settembre 2012).

10. Ciò premesso, la Corte d’appello di Brescia si è attenuta ai principi appena ricordati ed ha correttamente interpretato le disposizioni relative all’orario di lavoro. Infatti, la Corte territoriale, dopo aver descritto le circostanze fattuali che caratterizzano l’espletamento dell’attività dei dipendenti della Ferretti s.p.a. all’interno dell’area dell’acciaieria della Dalmine s.p.a., ha individuato nel D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1 comma 2, lett. a) e nella centralità del dato della “disponibilità” del lavoratore, una volta varcato il cancello dell’acciaieria, il dato normativo essenziale di riferimento. Peraltro, la Corte ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte di legittimità che in fattispecie regolate dalla disciplina previgente per quanto si è detto in parte rilevante ratione temporis – ha fatto applicazione del principio – applicabile anche nel vigore del D.Lgs. n. 66 del 2003 – secondo cui il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro come straordinario) allorchè lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione. Tale carattere funzionale dello spostamento rispetto alla prestazione in sè considerata è, naturalmente, questione di fatto che va accertata dal giudice di merito come è avvenuto nel caso di specie.

11. La Corte territoriale ha constatato come i fatti indicati nel verbale ispettivo fossero stati vanamente contestati dalla società appellata. Infatti, l’affermata inattendibilità dei dispositivi marcatempo era stata smentita dalle deposizioni testimoniali del responsabile della Dalmine s.p.a. che aveva pure spiegato la necessità di marcare l’entrata e l’uscita dallo stabilimento da parte di tutti i lavoratori della Ferretti – nominativamente individuati – in ogni caso in cui ciò avvenisse anche nell’arco della stessa giornata. Quindi, essendo accertati tali limiti temporali, la Corte ha rilevato che la contestazione riguardava, allora, non tanto il tempo di presenza in azienda dei dipendenti quanto la durata delle loro prestazioni o meglio la questione di stretto diritto relativa alla corrispondenza di quella presenza ad esercizio d’attività lavorativa.

12. La Corte territoriale ha correttamente accertato che ciascun lavoratore aveva così messo a disposizione del datore di lavoro le proprie energie ossia aveva adempiuto, in tal modo, all’obbligazione assunta ed è pervenuta alla conclusione della retribuibilità stante la presunzione di onerosità, tipica del lavoro subordinato, del tempo impiegato non solo allo svolgimento in senso stretto delle mansioni affidate ma anche all’espletamento di attività prodromiche ed accessorie a quello svolgimento. Dunque correttamente è stato definito orario di lavoro l’arco temporale, comunque, trascorso all’interno dell’azienda, a meno che il datore di lavoro non provi che il prestatore d’opera sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico.

13. Ciò alla stregua del criterio secondo cui l’onere probatorio del fatto impeditivo, modificativo od estintivo grava su chi eccepisce l’insussistenza dell’obbligazione. Il che significa che la pretesa creditoria è risultata fondata per essere stato ritenuto pacifico il fatto costitutivo – circostanza, questa, idonea a dispensare l’Istituto, attore in senso sostanziale, dell’onere probatorio a suo carico – e per non avere la controparte provato l’eccezione; cioè che, ancorchè in azienda nel corso dell’intero intervallo di tempo registrato con il cartellino marcatempo, i dipendenti fossero nel correlativo arco di tempo liberi di disporre a loro piacimento.

14. Neanche il vizio di motivazione, sollevato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quale articolazione del primo motivo, è fondato. Nella specie, i giudici di appello hanno posto in luce (v. pag. 7 e s.) gli elementi tratti dal verbale ispettivo e dagli allegati allo stesso che riepilogavano analiticamente le inadempienze contestate – cioè l’effettuazione del lavoro straordinario da parte dei dipendenti Ferretti s.p.a. – indicando il codice fiscale ed il nominativo di ciascun lavoratore, la qualifica, il periodo dell’inadempienza, gli imponibili calcolati e gli elementi di riferimento della base imponibile.

15. La Corte territoriale ha, inoltre, verificato la concreta idoneità probatoria di tali risultanze mediante confronto delle stesse con le dichiarazioni testimoniali acquisite nel corso del primo grado. In particolare, la Corte ha valorizzato la ricostruzione delle modalità di accesso ed uscita dei lavoratori dallo stabilimento Dalmine s.p.a., mediante timbratura a mezzo degli appositi sistemi in uso presso tale società, dettagliatamente riportata dalla testimonianza degli ispettori G. e R..

Dalla testimonianza del dirigente del personale della Dalmine, Gu.Va., poi, la Corte ha tratto il convincimento che il sistema di rilevazione dell’orario presso Dalmine s.p.a. non presentasse alcuna criticità, in quanto la rilevazione di orari corrispondenti a cifre orarie superiori alle 24,00 era voluta e derivava dalla circostanza che, superato tale orario, l’orologio incrementava il numero delle ore senza partire dallo zero.

Tali dati hanno rafforzato, nel ragionamento della Corte di merito, il valore presuntivo generale della durata della prestazione lavorativa per un tempo corrispondente a quello registrato sul cartellino marcatempo. Valore presuntivo che avrebbe potuto essere vinto solo dalla specifica allegazione e dalla prova che per ragioni particolari i lavoratori si trattenevano all’interno dello stabilimento senza lavorare e senza l’obbligo di rimanere a disposizione del datore di lavoro.

Al contrario, a giudizio della Corte d’appello, a fronte degli elementi tratti dai verbali ispettivi e dalle dichiarazioni testimoniali sono risultate del tutto infondate le censure mosse dalla ricorrente in precedenza esposte. La Corte del merito ha fornito ampia e dettagliata motivazione della valutazione delle risultanze istruttorie ad essa affidata. Quanto, poi, ai contenuti delle deposizioni rese dai testi N. e P., riportate in stralcio in ricorso, va osservato che esse, limitandosi a riferire come solo possibile che qualcuno dei dipendenti potesse anche essersi trattenuto – talvolta – all’interno dell’acciaieria un pò più a lungo, non possono certo ritenersi idonee ad individuare fatti controversi e decisivi e cioè idonei, ove riconosciuti, a determinare senz’altro una diversa ricostruzione del fatto. Al più, infatti, si tratterebbe di fatti idonei a determinare la mera possibilità o probabilità di una ricostruzione diversa (v. tra le altre Cass. n. 22979 del 2004 e n. 3668 del 2013).

16. A tale ultimo proposito è da evidenziare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione della norma applicabile ratione temporis- risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006 essendo la sentenza pubblicata il 23 novembre 2010- prevede “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” non più “circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” bensì circa un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

17. Questa Corte con sentenza n. 21152 del 24 ottobre 2014 ha affermato che i “fatti” in ordine ai quali assume rilievo il vizio di motivazione sono i “fatti principali”, ossia i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi od estintivi del diritto controverso come individuati dall’art. 2697 c.c., anche se in giurisprudenza vi sono alcune pronunce per le quali assumono rilievo in concreto anche i “fatti secondari”, ossia i fatti affermati dalle parti in funzione di prova dei fatti principali: in ogni caso giammai in dottrina e giurisprudenza si è ritenuto che il termine “fatto” possa, dopo la citata riforma, considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo per fatto intendersi un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico.

Infondata è, pertanto, la censura della ricorrente, non solo in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie da parte dei giudici del merito, avendo questi ampiamente valutato tutte le risultanze processuali attribuendo rilevanza, come nei loro poteri, alle risultanze motivatamente ritenute più attendibili, ma anche in ordine alla illogicità delle deduzioni e delle illazioni della Corte territoriale, che si è invece strettamente attenuta alla formulazione di un giudizio complessivo, che consente l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione. Pertanto, il ricorso va rigettato.

18. Stante la soccombenza, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese nei confronti dell’Inps con liquidazione come da dispositivo tenuto conto che l’Istituto ha svolto difese limitate alla discussione orale.

Nulla nei confronti di Equitalia Esatri s.p.a. che è rimasta intimata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2800,00 per compensi oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 31 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2017

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