Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12095 del 13/06/2016

Cassazione civile sez. lav., 13/06/2016, (ud. 16/03/2016, dep. 13/06/2016), n.12095

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29216/2014 proposto da:

S.R., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA, VIA

DEGLI SCIPIONI N. 268/A, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO

ANTONINI, rappresentata e difesa dall’avvocato PIERGIOVANNI

ALLEVA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SCM GROUP S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ORTIGARA 3, presso lo studio dell’avvocato MICHELE AURELI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO GIORGIO

TENTONI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1182/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 15/09/2014 r.g.n. 1182/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito l’Avvocato ANTONINI GIORGIO;

udito l’Avvocato AURELI MICHELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Con sentenza del 15 settembre 2014, la Corte di Appello di Bologna, in sede di reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, ha confermato la pronuncia di primo grado la quale, accertata la violazione da parte della SCM Group Spa della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro con S.R. a far data dal licenziamento intimato in data 22 dicembre 2012 ed aveva condannato la società a corrispondere alla lavoratrice una somma pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, a titolo di indennizzo ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.

In sintesi la Corte territoriale ha ritenuto, quanto alla comunicazione di avvio della procedura, che la SCM Group Spa avesse fornito le indicazioni richieste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3.

Invece, circa la comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, la Corte bolognese ne ha confermato l’incompletezza, “atteso che la società SCM Group ha certamente redatto una graduatoria anche con specifico riferimento alla posizione della S., indicando i nominativi di tutti i lavoratori posti a confronto con la stessa, ma poi non ha indicato per ciascuno di detti lavoratori nè i singoli punteggi loro attribuiti in applicazione dei singoli criteri di scelta adottati nè il punteggio finale complessivo da essi conseguito”.

In merito alle conseguenze di tale violazione, la Corte, al cospetto dell’impugnazione della lavoratrice che reclamava la più forte tutela reintegratoria rispetto a quella indennitaria già riconosciuta dal primo giudice, ha ritenuto che quella esaminata integrasse “una violazione essenzialmente formale posto che la Sig.ra S. è stata soste izialmente posta in condizioni di sapere, fin dall’esito della procedura in esame, non solo quali erano i criteri di scelta utilizzati dalla società e come in concreto erano stati applicati ma anche lo specifico punteggio complessivo alla stessa attribuito, come la società aveva determinato tale punteggio ed i nominativi dei singoli colleghi con i quali era stata messa a confronto, risultando avere un punteggio finale inferiore a tutti tali colleghi”; di qui l’applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 7, novellato, previsto in caso di violazione delle procedure di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 12, ovvero il pagamento di una indennità risarcitoria quantificata tra le 12 e le 24 mensilità.

2.- Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione S.R. con quattro motivi. SCM Group Spa ha resistito con controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. inammissibile perchè pervenuta fuori termine.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, “in relazione alla effettiva possibilità di conoscenza da parte del lavoratore licenziato, prima di una eventuale azione in giudizio, delle ragioni specifiche per cui altri lavoratori rispetto a lui sono stati salvaguardati”. Lamenta che la Corte di Appello da un lato ha riconosciuto come “formalmente viziato” il provvedimento di licenziamento, “ma dall’altro ha ritenuto che la semplice comunicazione al lavoratore che altre persone nominativamente indicate gli sono state preferite per aver ottenuto un punteggio più alto, senza dire di quale punteggio si tratti e come composto di sottopunteggi, realizzi comunque lo scopo minimo dell’atto di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9”. Si deduce che “la necessaria preventività (così nel testo) della conoscenza non può sopportare la sopravvenienza in corso di causa dei dati decisivi per l’individuazione dei licenziandi, nè tanto meno che essa possa intervenire lasciando al lavoratore ricorrente un termine assolutamente irrisorio per valutare quel dato prima non conosciuto”.

In via subordinata, quindi, si solleva eccezione di incostituzionalità della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, così interpretato per non consentire al lavoratore un effettivo diritto di difesa nonchè per violazione dell’art. 3 Cost., “dal momento che converrebbe al datore di lavoro che volesse sbarazzarsi di un lavoratore non gradito ma in possesso di alta anzianità e di alti carichi familiari, licenziarlo senza enunziare alcun criterio piuttosto che violando i criteri stessi, perchè in tal modo otterrebbe comunque lo scopo di sbarazzarsene”.

Il Collegio giudica il motivo infondato.

Infatti la L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, è stato sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, con il seguente testo applicabile alla fattispecie che ci occupa:

“Qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 1, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del predetto art. 18, comma 7. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al medesimo art. 18, comma 4. Ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, e successive modificazioni”.

Trascurando l’ipotesi che qui non interessa del licenziamento “intimato senza l’osservanza della forma scritta”, va distinto il “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12” dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”.

Nel primo caso “si applica il regime di cui al predetto art. 18, comma 7, terzo periodo”; secondo il terzo periodo di tale comma 7, “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”; il rinvio ulteriore a detto quinto comma fa sì che il giudice, in tali ipotesi, “dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”.

Nel secondo caso – “violazione di criteri di scelta” – “si applica il regime di cui al medesimo art. 18, comma 4”; quindi il giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al comma 1, e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, in una misura non superiore alle dodici mensilità.

Nel caso che ci occupa la Corte di Appello, conformemente all’opinione espressa dai giudici di primo grado, ha correttamente sussunto la fattispecie concreta di violazione – così come accertata – nell’ambito della tutela di tipo esclusivamente indennitario piuttosto che di quella di tipo reintegratorio.

Infatti la Corte del merito ha ritenuto la “incompletezza della comunicazione” di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, che deve contenere “l’elenco dei lavoratori licenziati, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonchè con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1”.

La tutela indennitaria è prevista appunto in “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12”; tale art. 4, comma 12, prescrive che “le comunicazioni di cui al comma 9 sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza della forma scritta e delle procedure previste dal presente articolo”.

Pertanto l’incompletezza della comunicazione di cui al comma 9 costituisce “violazione delle procedure” previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, dando luogo al “regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18” e, quindi, alla tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità.

Letteralmente essa non ha a che fare con il “caso di violazione dei criteri di scelta”, legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria, in quanto tale caso si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perchè in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perchè attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive. Solo nel caso di violazione dei criteri di scelta, alla reintegrazione dei lavoratori potrà seguire la scelta dell’impresa di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori reintegrati senza dovere esperire una nuova procedura, così come previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 17.

Quanto ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati da parte ricorrente per asserita violazione del diritto di difesa in giudizio della lavoratrice e per irragionevolezza della disciplina con lesione dell’art. 3 Cost., gli stessi sono privi della necessaria rilevanza nella fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio in quanto, secondo la Corte territoriale, la S. è stata “posta in condizioni di sapere, fin dall’esito della procedura in esame, non solo quali erano i criteri di scelta utilizzati dalla società e come in concreto erano stati applicati ma anche lo specifico punteggio complessivo alla stessa attribuito, come la società aveva determinato tale punteggio ed i nominativi dei singoli colleghi con i quali era stata messa a confronto, risultando avere un punteggio finale inferiore a tutti tali colleghi”, con un accertamento di fatto non sindacabile in questa sede.

4.- Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. “in ordine all’onere della prova dei fatti e dati determinanti la graduatoria dei licenziandi”; si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe fatto incongruo governo dei principi in tema di onere della prova in ordine alla sussistenza dei fatti (quali anzianità aziendale, familiari a carico, qualifica rivestita, mansioni espletate) determinativi dei punteggi in base ai quali era stata formulata la graduatoria; si deduce che la prova della consistenza di tali dati non può che incombere sul datore di lavoro e non invece sul lavoratore.

La censura appare fuori centro rispetto al contenuto della decisione impugnata in quanto la Corte bolognese in alcun punto ha affermato che l’onere della prova dei fatti relativi alla graduatoria dei licenziandi gravi sul lavoratore, essendosi piuttosto limitata ad affermare che, a fronte della allegazione dei dati posti a fondamento della graduatoria, la lavoratrice non aveva mosso in atti alcuna “specifica contestazione”, evidentemente traendone il convincimento che, per il principio di non contestazione simmetricamente gravante sull’attore per i fatti allegati dal convenuto, detti fatti dovessero considerarsi provati.

Si tratta di accertamento che, attenendo alla ricostruzione dei fatti ed alla loro valutazione contenuta in sentenza pubblicata nel vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Ma detto vizio non può essere denunciato, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2) – come nella specie – con ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter ult. co. c.p.c.).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi da 58 a 60, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. n. 23021 del 2014;

conforme: Cass. n. 4223 del 2016).

Pertanto anche il motivo in esame non può trovare accoglimento.

5.- Con il terzo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, e si sostiene che la Corte territoriale sarebbe caduta in errore opinando che il motivo di reclamo della S. “riguardasse il fatto che non fossero stati considerati nell’ambito della comparazione tutti gli stabilimenti in Italia della SCM Group Spa”, mentre esso era relativo al fatto che la graduatoria era relativa solo ad uno dei reparti tra quelli di cui si componeva lo stabilimento industriale cui la stessa era adibita;

si deduce, quindi, che “l’esubero ha investito molti reparti di uno stesso stabilimento, come si evince dalla stessa lettura della lettera di apertura della procedura di riduzione del personale”.

Come eccepito dalla società controricorrente il motivo è inammissibile, perchè la “lettura” del documento pretesa dalla S. richiederebbe l’osservanza del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in base al quale l’impugnazione per cassazione deve contenere “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”.

Il requisito di natura contenutistica (v. Cass. SS. UU. n. 28547 del 2008) per essere assolto postula sia che il documento venga specificamente indicato nel ricorso, sia che si dettagli in quale sede processuale risulti prodotto, “poichè indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, dire dove nel processo è rintracciabile” (cfr. Cass. SS. UU. n. 7161 del 2010).

Il doppio onere della localizzazione e della trascrizione ha avuto seguito nella giurisprudenza successiva (tra le altre v. Cass. n. 6937 del 2010; Cass. sez. 6^ n. 4220 del 2012). In particolare, circa l’indicazione della sede processuale ove i documenti risultino prodotti, è stato sovente ribadito che è al riguardo necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (Cass. n. 8569 del 2013) con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. n. 12239 del 2007; Cass. n. 26888 del 2008;

Cass. n. 22607 del 2014). Quanto poi alla trascrizione dei contenuti si è detto in generale che “l’onere di specificazione non concerne solo il cd. contenente, cioè il documento o l’atto processuale come entità materiale, ma anche il cd. contenuto, cioè quanto il documento o l’atto processuale racchiudono in sè e fornisce fondamento al motivo di ricorso. Sotto questo profilo l’onere di indicazione si può adempiere trascrivendo la parte del documento su cui si fonda il motivo o almeno riproducendola indirettamente in modo da consentire alla Corte di cassazione di esaminare il documento o l’atto processuale proprio in quella parte su cui il ricorrente ha fondato il motivo, sì da scongiurare un inammissibile soggettivismo della Corte nella individuazione di quella parte del documento o dell’atto su cui il ricorrente ha inteso fondare il motivo” (in termini: Cass. n. 22303 del 2008; conformi: Cass. n. 2966 del 2011;

Cass. n. 15847 del 2014; Cass. n. 18024 del 2014). Anche ove non si vogliano pretendere pedisseque riproduzioni integrali, chi fonda il ricorso per cassazione su uno o più documenti ha quanto meno l’onere di indicare nell’atto “il contenuto rilevante del documento stesso” (Cass. n. 17168 del 2012).

Mancando nel motivo in esame il contenuto della lettera di apertura della procedura su cui la doglianza si fonda e non essendo esattamente specificato dove la medesima sia reperibile ai fini del presente giudizio di legittimità, la censura risulta inammissibile, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificarne il fondamento sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso diretto agli atti del giudizio di merito (tra le tante: Cass. n. 8569 del 2013; Cass. n. 3158 del 2003; Cass. n. 12444 del 2003; Cass. n. 1161 del 1995).

6.- Con l’ultimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e della L. n. 223 del 1991, art. 4, “in relazione alla illegittimità della comunicazione di apertura della procedura di riduzione del personale per mancata esposizione dei motivi della crisi occupazionale e per contrasto con il precedente comportamento della SCM Group Spa”.

Il motivo è inammissibile sotto molteplici aspetti: innanzi tutto difetta di autosufficienza per la stessa ragione indicata al punto che precede avuto riguardo al medesimo documento; in secondo luogo l’indagine circa la completezza della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo costituisce un accertamento di fatto di competenza dei giudici del merito, il cui sindacato è precluso in questa sede come spiegato al punto 4. in ragione della cd. “doppia conforme”; infine la censura è priva di qualsivoglia decisività in quanto non spiega in qual modo la pretesa violazione formale nella comunicazione di apertura della procedura potrebbe condurre alla tutela reintegratoria cui la S. aspira, in luogo di quella indennitaria già ottenuta.

7.- Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione risulta nella specie notificato in data 14 aprile 2014 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 3.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 16 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2016

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