Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12094 del 13/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 13/06/2016, (ud. 16/03/2016, dep. 13/06/2016), n.12094

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29164-2014 proposto da:

R.C.B. S.R.L., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato PATERNO’FEDERICA,

che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MORONE

ANDREA, TOFFOLETTO FRANCO, DE LUCA TAMAJO RAFFAELE, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA GIACINTO CARINI 52 presso o studio dell’avvocato

COPPACCHIOLI LUCILLA, rappresentata e difesa dall’avvocato

PARADISI ROBERTO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 596/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 06/10/2014, giusta delega in atti;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2016 dal Consigliere Dott. AMENDOLA FABRIZIO;

udito l’Avvocato BENEDETTA GAROFALO per delega verbale Avvocato DE

LUCA TAMAJO RAFFAELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Il Tribunale di Ancona, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento regolato con il rito di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e ss., confermò l’ordinanza pronunciata all’esito della prima fase che aveva parzialmente accolto il ricorso proposto da B.M. nei confronti della RCB srl e che, qualificato il rapporto di associazione in partecipazione formalmente intercorso tra le parti nei termini di un rapporto di lavoro subordinato, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice.

Quanto alle conseguenze sanzionatorie di tale declaratoria, esclusa la nullità del licenziamento in via principale invocata dalla ricorrente, veniva accolta la domanda subordinata di tutela ex art. 8 della L. n. 604 del 1966, con ordine alla società di riassunzione della B. o, in mancanza, di corresponsione di una indennità risarcitoria pari a 4 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; la RCB Srl veniva altresì condannata al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Interposto reclamo dalla società, con sentenza del 6 ottobre 2014 la Corte di Appello di Ancona ha integralmente confermato la pronuncia di primo grado.

Innanzitutto la Corte territoriale ha ritenuto correttamente applicato il rito speciale previsto dalla L. n. 92 del 2012 sulla base della prospettazione di parte ricorrente che invocava in via principale la tutela assicurata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, in quanto il licenziamento sarebbe stato determinato da ritorsione e, quindi, dal motivo illecito e determinante, con conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, indipendentemente dal requisito occupazionale; una volta esclusa, però, la tutela reale, poteva essere riconosciuta la tutela obbligatoria espressamente richiesta in via subordinata, in quanto domanda fondata su identici fatti costitutivi, così come quella avente ad oggetto la riconosciuta indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte ha poi confermato l’assunto dei giudici di prime cure, ritenendo, sulla base dell’istruttoria espletata, che il contratto di associazione in partecipazione aveva avuto, di fatto, una esecuzione difforme dalle pattuizioni enunciate nelle clausole contrattuali, in quanto la B. aveva lavorato con mansioni di commessa rimanendo assoggettata al potere direttivo e di controllo della datrice di lavoro.

Infine i giudici d’appello hanno respinto l’ultimo motivo di reclamo, con cui la società aveva eccepito la mancata impugnazione da parte della B. dell’apposizione del termine al contratto di associazione in partecipazione, con conseguente decadenza ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32. Hanno infatti affermato che “l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento attuata con la missiva raccomandata datata 26 luglio 2012 comporta la contestazione anche della clausola di apposizione del termine finale al contratto di associazione in partecipazione, anch’esso impugnato “…attesa la evidente natura di lavoro subordinato del rapporto de qua, natura mascherata da un contratto simulato di associazione in partecipazione…”.

2. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RCB Srl con sei motivi. B.M. ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. – Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e/o falsa applicazione, della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 47, sostenendo che non poteva essere applicato il rito previsto da tale disposizione atteso che “nei fatti veniva impugnato un recesso ante tempus da un contratto di associazione in partecipazione intervenuto ad opera dell’associante per una valida ragione”; pertanto, “essendo pacifica la mancanza del requisito dimensionale per l’applicazione della tutela reale e non ravvisandosi la plausibile esistenza di un motivo illecito determinate unico”, per la società la domanda avrebbe dovuto essere dichiarata “improcedibile”, non rientrando nelle ipotesi regolate dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 o quanto meno si sarebbe dovuto disporre il mutamento del rito.

Come noto il legislatore, nel modificare la disciplina sostanziale dettata della L. n. 300 del 1970, art. 18, ha introdotto con la L. n. 92 del 2012, anche un rito speciale con cadenze accelerate che si pone come completamento alle modifiche apportate al diritto sostanziale, attraverso la creazione di un modello processuale capace di rimuovere in tempi rapidi lo stato di incertezza sulla validità del licenziamento, nelle ipotesi in cui l’illegittimità del recesso possa essere sanzionata con il riconoscimento delle tutele previste dal richiamato art. 18 novellato.

Poichè della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 47, individua l’ambito di applicazione della disciplina con il richiamo “alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” è necessario che, dedotta l’esistenza di un rapporto di lavoro qualificabile come subordinato a tempo indeterminato e di un licenziamento che lo risolva in modo illegittimo, si invochi la tutela prevista dall’art. 18 dello Statuto.

Ciò posto la prima censura è infondata in ossequio a principi di diritto espressi dalla giurisprudenza di legittimità in casi analoghi, applicando il criterio della prospettazione:

l’individuazione della fattispecie, ai fini delle questioni di mero rito, deve essere compiuta in base alla domanda come formulata e, in particolare, con riferimento al petitum ed alla causa petendi con essa esposti, indipendentemente dalla relativa fondatezza.

Invero secondo l’insegnamento di questa Corte, “qualora l’attore chieda il riconoscimento di un diritto che assume essere stato violato, previa allegazione di specifici fatti relativi ad un determinato rapporto giuridico, competente a decidere la controversia – sulla base di tale “petitum” sostanziale – è il giudice indicato dalla legge in relazione a tale rapporto, anche se il convenuto, in base alla contestazione dell’esistenza di quel determinato fatto, eccepisca che al rapporto intercorso tra le parti debba essere assegnata una natura diversa, salvo che la prospettazione dell’attore non risulti in modo evidente pretestuosa ed artificiosamente allegata proprio al fine di operare una non consentita scelta del rito e del giudice” (così Cass. n. 4662 del 1997; ma v. anche Cass. n. 11415 del 2007; Cass. n. 8189 del 2012; Cass. n. 7182 del 2014).

Dunque – salvo il limite di prospettazioni artificiose, teso a scongiurare condotte processuali obliquamente finalizzate al solo scopo di percorrere la corsia accelerata del rito speciale – vale ribadire che la contestazione sulla veridicità dei fatti che radicano l’invocata tutela non è dirimente, ai fini del rito.

Infatti la questione di rito deve essere delibata in base alla domanda dell’attore a nulla contando nè le contestazioni del convenuto sugli elementi posti a fondamento della domanda, nè l’indagine di merito che il giudice deve compiere per la decisione, poichè tale attività non assume rilievo in ordine alla risoluzione delle questioni di rito. Ovviamente l’ammissibilità del rito scrutinata secondo il canone della prospettazione lascia impregiudicato il merito. Vuole dirsi che se l’azione secondo le cadenze procedimentali del nuovo rito può essere ammessa sulla base delle mere allegazioni e richieste contenute nel ricorso, ciò non toglie che resta naturalmente ferma la successiva verifica dell’applicabilità della tutela sostanziale richiesta ai fini del merito.

I giudici della presente controversia hanno correttamente applicato detti principi dando ingresso al rito speciale previsto dalla L. n. 92 del 2012, sulla base della prospettazione di parte ricorrente che invocava, in via principale, la tutela assicurata della L. n. 300 del 1970, art. 18, in quanto il licenziamento sarebbe stato determinato da ritorsione e, quindi, dal motivo illecito e determinante, con conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, indipendentemente dal requisito occupazionale dell’azienda convenuta.

4.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47, 48, 51, 58, 59, 60 e 61, per avere i giudici di merito accolto la domanda subordinata ex L. n. 604 del 1966, mentre, secondo la tesi della società, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile. Si sostiene che l’inciso contenuto nel della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48, che lascia salva la proponibilità con il rito speciale delle domande diverse “che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”, non sarebbe riferibile alle domande di tutela obbligatoria.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e 48, perchè esulerebbe dal campo di applicazione del rito in concreto applicato dai giudici di merito sia il recesso da un contratto a termine, quale sarebbe da considerarsi il rapporto intercorso tra le parti in causa, anche ove subordinato, sia l’indennità di mancato preavviso.

Le censure possono essere esaminate congiuntamente in quanto presuppongono l’interpretazione della medesima disposizione processuale (L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48,) secondo cui “con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo (e cioè quelle aventi ad “oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate L. n. 300 del 1970, art. 18 e successive modificazioni”), salvo che siano fondate su identici fatti costitutivi”.

Alla stregua dell’interpretazione della norma che si offre, detti motivi non possono trovare accoglimento.

4.1. – Vero è che accreditata dottrina processualistica ha posto in luce come sia difficile concepire, dal punto di vista tecnico, domande “diverse” che siano fondate “su identici fatti costitutivi”, ma, dovendo privilegiarsi una interpretazione utile che dia senso e contenuto alla disposizione, il Collegio ritiene di affermare quella che appare più coerente con i principi generali di strumentalità del processo – che deve tendere, per quanto possibile, ad una decisione di merito – nonchè di economia e di conservazione dell’efficacia degli atti processuali.

Pertanto, al fine di delimitare il confine tra le domande “diverse” che non possono essere proposte con il ricorso al nuovo rito e quelle che, pur “diverse” rispetto ad una impugnativa di licenziamento nell’ambito di applicazione dell’art. 18, invece possono essere comunque trattate in una controversia siffatta, non è necessaria una assoluta identità di tutti i fatti costitutivi delle diverse domande azionate, ma è da ritenersi sufficiente una sovrapposizione quanto meno parziale con i fatti costitutivi dell’impugnativa di licenziamento, coincidenza qualificata dalla circostanza che si tratti di pretese che dalla vicenda estintiva del rapporto di lavoro traggano presupposto.

4.2. – In tale prospettiva innanzi tutto non sembra si possa negare che la domanda di “impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate L. n. 300 del 1970, art. 18, e successive modificazioni” sia fondata sugli stessi fatti costitutivi di quella avente ad oggetto l’impugnativa del medesimo licenziamento a cui può essere subordinatamente riconosciuta la tutela prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, non rappresentando il fatto della dimensione dell’impresa un elemento costitutivo della domanda del lavoratore.

Ciò sulla scorta di quanto enunciato da questa Corte a Sezioni Unite (sent. n. 141 del 2006) secondo cui “fatti costitutivi… dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti dell’art. 18” costituiscono “insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del diritto soggettivo dedotto in giudizio” con onere della prova a carico del datore di lavoro (tale principio di diritto espresso a Sezioni Unite impedisce a questo Collegio che lo condivide di dare continuità a Cass. n. 16662 del 2015 secondo cui la domanda della L. n. 604 del 1966, ex art. 8, sarebbe fondata su fatti costitutivi diversi da quelli fondanti la domanda di reintegra L. n. 300 del 1970, ex art. 18, “specificamente per quanto attiene al numero dei dipendenti del datore di lavoro”).

Tanto vi è coincidenza dei fatti costitutivi che da tempo emerge con nettezza l’orientamento di legittimità secondo il quale la domanda di concessione della tutela assicurata della L. n. 300 del 1970, art. 18, contiene implicitamente anche quella prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8.

Secondo pronunce di questa Corte non viola il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato la sentenza con la quale il giudice, ritenendo carenti le condizioni per l’operatività dell’invocata tutela reale, condanni il datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore o, in alternativa, a corrispondergli l’indennità di cui al citato art. 8, trattandosi di domande in rapporto di “continenza” (Cass. n. 9460 del 1991). In analogo senso si è affermato, in tema di inefficacia del licenziamento, che, se il dipendente illegittimamente licenziato aveva chiesto l’applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, e quindi anche il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno in cui il licenziamento ha trovato attuazione, il giudice, accertato che non sussistono i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, deve accordare, sussistendo i relativi presupposti, la tutela in tal caso applicabile (dichiarazione di inefficacia del licenziamento e risarcimento del danno), essendo tale tutela omogenea e di ampiezza minore rispetto a quella prevista dall’art. 18 (Cass. n. 13375 del 2003). Ovvero che non è ravvisabile mutamento della causa petendi nell’ipotesi in cui il dipendente che aveva impugnato il licenziamento, deducendone la illegittimità per mancanza di giustificato motivo, proponeva con ricorso introduttivo domanda di tutela reale, mentre, in sede di precisazione delle conclusioni, richiedeva quella obbligatoria, in quanto, in detta ipotesi, il mutamento riguarda solo gli effetti ricollegabili alla tutela richiesta da ultimo, che sono compresi in quelli cui dà luogo la tutela originariamente invocata (Cass. n. 12579 del 2003; Cass. n. 14486 del 2001); così come deve ritenersi ammissibile la domanda, proposta per la prima volta in appello dal lavoratore illegittimamente licenziato, diretta ad ottenere la riassunzione ex della L. n. 604 del 1966, art. 8, ove in primo grado il lavoratore medesimo abbia proposto la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18, atteso che la prima deve ritenersi compresa, come minus, in quest’ultima (Cass. n. 8906 del 1997).

Il principio ricordato in base al quale una pretesa più ampia contiene in sè una pretesa di minore portata ha trovato di recente conferma e applicazione proprio con riferimento al nuovo testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, che “nel prevedere una gradualità di tutele collegate al tipo di licenziamento accertato, attribuisce al giudice il potere-dovere di qualificare i fatti allegati in ricorso e di ricondurli alle ipotesi ivi previste, anche ai fini di determinare il regime sanzionatorio applicabile” (Cass. n. 23073 del 2015). Nella stessa pronuncia si ribadisce che “il lavoratore che chieda di usufruire della tutela reale apprestata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, non ha l’onere di provare il requisito dimensionale dell’impresa in cui era inserito, gravando tale onere sul datore di lavoro che ne eccepisca l’esistenza”.

4.3.- Si sostiene che la soluzione della inammissibilità o improponibilità della domanda subordinata ex L. n. 604 del 1966, sarebbe coerente con l’interpretazione logico-sistematica e la ratio della disposizione, che è dichiaratamente quello di “limitare il campo applicativo del rito Fornero, perchè un suo non giustificato ampliamento avrebbe ricadute negative non solo in termini di qualità della risposta giudiziaria, ma anche di una dilatazione dei tempi del processo non coerente con le finalità primarie della normativa scrutinata” (così Cass. n. 16662/2015 cit.).

Invece lo sbarramento in rito di pretese tra loro indissolubilmente concatenate sembra porre più problemi di quello principale che si vorrebbe risolvesse. Infatti l’opzione non condivisa innesca inesorabilmente una altrimenti evitabile duplicazione dei giudizi, con effetti perversi di astratta attitudine al giudicato sull’impugnativa di un medesimo licenziamento, ampliando la già eccezionale ipotesi di deroga al principio del simultaneus processus.

Invero in tutti i casi in cui è dubbia l’esistenza o meno del requisito dimensionale, perchè prossima ai limiti di legge o comunque controvertibile, il lavoratore sarebbe costretto a proporre due ricorsi avverso il medesimo licenziamento: uno ex L. n. 92 del 2012, e l’altro ex art. 414 c.p.c., anche prudenzialmente per evitare ogni questione di decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010. Così diramando due procedimenti aventi ad oggetto l’accertamento della legittimità del medesimo licenziamento con applicazione di immutate regole di disciplina sostanziale – che si differenziano solo per gli esiti – eventuali – di tutela favorevole. Legittimamente poi il lavoratore avrebbe diritto di azione fino in Cassazione, con le ritualità e i tempi del nuovo rito, per sostenere l’accoglimento della sua richiesta principale, senza possibilità che gli sia preclusa la tutela subordinata nel frattempo prudenzialmente indirizzata nelle forme ordinarie. Con assai complessi problemi di coordinamento tra i due processi per non dire della evenienza che i vari giudici potrebbero effettuare valutazioni diverse ed opposte, anche per la diversità di istruttoria, circa la sussistenza o meno del requisito dimensionale.

Rispetto a tali non certo auspicabili conseguenze non pare avere adeguato fondamento processuale la tesi, patrocinata da parte ricorrente, che vorrebbe sanzionata con una mera pronuncia in rito la decisione del giudice che, superato il vaglio di ammissibilità del ricorso sulla base del quid disputatum, affronti il merito dell’impugnativa di licenziamento, sia avuto riguardo alla tutela ex art. 18 che a quella subordinata ex art. 8, con l’ordinanza di cui L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 49. In tal modo lasciando che il quid decisum venga eventualmente sindacato nelle fasi e nei gradi successivi con lo stesso rito nel corso di un unico processo.

4.4. – Occorre altresì considerare che le pur apprezzabili finalità di accelerazione dei processi devono comunque essere rese compatibili con il diritto costituzionale della parte alla tutela piena ed effettiva dei diritti e degli interessi legittimi (art. 24 Cost.) attuata attraverso un “giusto processo” (art. 111 Cost.).

Le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 5700 del 2014) hanno così affermato “che il principio del giusto processo… non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso”. Hanno richiamato la dottrina per sottolineare che “occorre prestare altresì la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio”. Hanno evidenziato in proposito che “la stessa Corte Europea di Strasburgo, pur sottolineando che ad essa non compete un sindacato sulla interpretazione e sull’applicazione della regola emessa a livello nazionale, ammette poi le limitazioni all’accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito”.

Anche per la Corte di Giustizia le modalità di attuazione della tutela giudiziaria non debbono rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti (ex plurimis, CGUE, 19 settembre 2006 Germany e Arcor, C – 392/04 e C – 422/04, punto 57;

30 giugno 2011, Meilicke e a., C – 262/09, punto 55; Pelati d.o.o.

contro Republika Slovenija, 18 ottobre 2012, n. 603, punto 23 e 25).

E’ dunque da escludere che la pluralità dei giudici e, a maggior ragione, la diversità dei riti, possa “risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti… può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.” (Corte Cost. n. 77 del 2007 e n. 223 del 2013). Ha osservato ancora il giudice delle leggi che “al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressochè costantemente – nel regolare questioni di rito – il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all’individuazione del giudice competente – volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall’altro lato, l’idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito – non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa”. Da detti principi la Corte Costituzionale ha tratto la conseguenza che, anche nella ipotesi in cui venga adito un giudice carente di giurisdizione, il legislatore debba prevedere meccanismi che consentano la prosecuzione del processo e la conservazione degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda.

In definitiva dai precedenti richiami emerge con chiarezza che un valore fondante dell’ordinamento processuale è quello di attuare il diritto delle parti mediante una pronuncia di merito, che è garanzia di effettività della tutela ai sensi dell’art. 24 Cost., senza che questioni di rito possano pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l’accertamento del diritto stesso.

Pertanto, avuto riguardo alla disposizione processuale in esame che ammette espressamente, unitamente alla proposizione di una domanda avente ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate della L. n. 300 del 1970, art. 18, anche quella avente ad oggetto una domanda fondata su identici fatti costitutivi, tra una interpretazione restrittiva che esita in pronunce di mero rito e produce la parcellizzazione dei processi ed altra che, orientata dall’essenziale principio dell’effettività della tutela, sia comunque compatibile con una esegesi letterale e sistematica, consentendo che da una unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro scaturisca un unico processo, occorre privilegiare quest’ultima.

4.5. – Alla stregua delle esposte considerazioni consegue l’infondatezza anche al terzo motivo di ricorso che contesta l’attribuzione alla lavoratrice dell’indennità di mancato preavviso nell’ambito del procedimento di cui L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e ss., sull’assunto che esulerebbe dal campo di applicazione del medesimo.

Invero la domanda di condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso è comunque fondata sulla pregressa esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e su di un ingiustificato recesso senza preavviso ed è pretesa fatta valere nell’ambito di una impugnativa di licenziamento L. n. 300 del 1970, ex art. 18, rispetto alla quale vi è coincidenza di fatti costitutivi e dalla cui vicenda estintiva del rapporto di lavoro trae presupposto.

4.6. – Da ultimo, ma non ultimo per importanza in questa sede di impugnazione a critica vincolata in cui l’error in procedendo rileva nei limiti in cui determini la “nullità della sentenza o del procedimento” a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, occorre sottolineare che, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, l’inesattezza del rito non determina di per sè la nullità della sentenza.

La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008, Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015).

Perchè essa assuma rilevanza invalidante occorre infatti che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perchè l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.

La società, invece, non deduce alcuno specifico e concreto pregiudizio che sarebbe derivato dal fatto che le domande L. 604 del 1966, ex art. 8, e di indennità sostitutiva del preavviso siano state trattate nelle forme del rito speciale della L. n. 92 del 2012, ma si limita ad invocare la violazione della legge processuale, con una concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera irregolarità, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali (da ultimo v. Cass. n. 4506 del 2016).

5. – Con il quarto motivo di ricorso si denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, per non avere la sentenza impugnata dichiarato la decadenza ivi prevista, atteso che la B. si sarebbe “limitata ad impugnare il recesso comunicatole, senza tuttavia impugnare il termine, sicchè, anche nella denegata ipotesi in cui il rapporto di associazione in partecipazione dovesse essere considerato di rapporto di lavoro subordinato, esso sarebbe in ogni caso a tempo determinato”.

Con il quinto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2549, 2552, 2554 e 2094 c.c., per avere i giudici di merito escluso la riconducibilità del rapporto instaurato tra la B. e la RCB Srl all’associazione in partecipazione inquadrandolo come lavoro subordinato. Si lamenta che la Corte di Appello avrebbe erroneamente valutato le richieste istruttorie, senza attribuire decisiva rilevanza alla volontà manifestata dalle parti e l’irrilevanza, invece, della mancata partecipazione alle perdite. Si sostiene che l’istruttoria avrebbe comprovato una situazione del tutto incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato.

Con il sesto mezzo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, essendo “documentalmente provato” che la B. aveva ricevuto la sua quota di utili a conguaglio della somma che riceveva mensilmente.

I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, per reciproca inferenza, e sono infondati.

Innanzitutto con il quinto mezzo di gravame si denuncia formalmente la violazione di plurime disposizioni di legge, ma nella sostanza si contesta l’accertamento operato dai giudici del merito in ordine alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in luogo di un contratto di associazione in partecipazione, criticando la complessiva valutazione del materiale probatorio effettuata dalla sentenza impugnata.

Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468).

Nella specie con la censura la società ricorrente si duole solo della pretesa errata valutazione dei fatti di causa ad opera della Corte di Appello, in modo difforme dalle attese patrocinate dalla parte, sicchè si tratta di una doglianza che esula dall’ambito del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Essa, attenendo alla ricostruzione dei fatti ed alla loro valutazione, così come il vizio dedotto nel sesto motivo di gravame, per le sentenze pubblicate, come nella specie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Ma detto vizio non può essere denunciato, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (del richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2) – come nel presente caso di reclamo depositato il 18 luglio 2014 qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c.). Ossia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (v. Cass. n. 23021 del 2014). Questa Corte ha avuto già modo di affermare che nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 2014).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi da 58 a 60, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. n. 23021 del 2014;

conforme: Cass. n. 4223 del 2016).

Pertanto quinto e sesto motivo non possono trovare accoglimento in quanto denunciano sostanzialmente vizi riconducibili all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avverso una sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado ricostruendo il fatto nei medesimi termini, senza che detti motivi deducano e dimostrino che le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo e secondo grado sono invece tra loro diverse.

Una volta che l’accertamento in fatto effettuato nei gradi di giudizio cui compete il merito in ordine alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti ha superato il vaglio di legittimità, ne consegue la radicale infondatezza del quarto motivo di ricorso in quanto evidentemente tale rapporto non poteva che essere a tempo indeterminato, quale forma temporale ordinaria di tale tipologia di contratto di lavoro, per cui nessuna decadenza poteva essere comminata per una pretesa omessa impugnazione ex L. n. 183 del 2010, art. 32.

6. – In conclusione il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione risulta nella specie proposto in data 5 dicembre 2014 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il corso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2016

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